Kaiserreich
11
Zarevna1
Kiev, Ucraina
20 Gennaio 1919
Germania uscì dalla macchina lunga e nera che lo aveva
portato fin davanti l’entrata del Palazzo Marinskij a Kiev. Il palazzo, ora
abitato dalla famiglia reale ucraina, era stato costruito come residenza estiva
della zarina Caterina II, e difatti la sua facciata dimostrava la bellezza
dello stile rococò russo del XVIII secolo: oltre il cancello metallico ed il
muro ornato da statue marmoree si vedeva il giardino alla francese, illuminato
da lampioni e la facciata azzurra, che diventata blu per le tenebre notturne e
piena di finestre illuminate pareva il cielo stellato. Fu subito accolto da
alcuni soldati di guardia ed il maggiordomo di palazzo, che lo scortarono oltre
il giardino, conducendolo all’interno dell’edificio. Superato il portone, che
si sviluppava in un’arcata sormontata in cima da due statue di marmo, entrò. La
sala principale era di una bellezza mozzafiato: il pavimento era composto da
mattonelle che formavano un quadrato, il cui perimetro era a motivo greco e che
conteneva un cerchio con vari motivi; le pareti erano bianche e dorate, ed il
soffitto ornato di bassorilievi aurei e dipinti di splendida fattura; dall’alto
calava poi un lampadario di cristallo. Germania osservava immobile la sala con
i suoi occhi di ghiaccio, e la sua figura, avvolta in un pastrano grigio e
vestita da abiti scuri, risaltava in quel luccichio dorato. Fu richiamato
all’improvviso all’attenzione:
“Germania, benvenuto! Hai fatto un buon viaggio?”
Sotto il portale principale che conduceva ad un lungo
corridoio orizzontale, Ucraina era apparsa in tutta la sua bellezza. Ekaterina
vestiva un abito bianco molto raffinato, con una gonna che si allargava a
partire dai ginocchi, nascondendo le scarpe azzurre. L’abito si fermava
all’altezza del petto, lasciando scoperte le spalle forti e bianche come la
neve e metteva in risalto sia i fianchi che il seno notoriamente grande della
slava, che a malapena entrava e lasciava a vedersi una buona parte di sé. Le
braccia, muscolose come quelle di una contadina ma affusolate come quelle di
una gran dama, erano coperte da maniche bianche che arrivavano a coprire anche
le mani. I bordi dell’abito e delle maniche erano caratterizzate da una
pelliccia grigia. Germania arrossì alla vista di quello spettacolo a cui nessun
uomo avrebbe potuto resistere, soffermando il suo sguardo sottile ed
imbarazzato sui grandi occhi zaffiro della ragazza, incastonati in un volto
giovanile e rotondo, incorniciato a sua volta dai corti capelli di un biondo
platinato. Ludwig si riscosse e si avvicinò ad Ucraina, baciandole la mano e
sforzandosi di mantenere lo sguardo sul volto radioso e sorridente dell’altra.
“S-sì, ho fatto un buon viaggio. Mi ha favorevolmente
colpito come abbiate rimesso in regola le ferrovie così presto.”
La ragazza arrossì dal complimento sobbalzando, e facendo
sobbalzare anche il petto, seguito dalle pupille dilatate dell’imbarazzatissimo
tedesco.
“Oh, c’è ancora molto da fare ed i successi finora
raggiunti sono merito soprattutto vostro. Ma perché non ti sei ancora levato il
pastrano? Mikhailo, vzyati odyah nashoho hostya i privesti ikh do svoikh pokoiv2.”
Un maggiordomo piuttosto anziano venne e prese il
pastrano ed il cappello di Germania e si allontanò verso le stanze designate
per l’ospite. Germania rimase così in un abito da incontri ufficiali:
un’uniforme nera decorata con medaglie. Al collo, l’immancabile croce
teutonica. Appena fu spogliato notò piacevolmente come l’edificio fosse caldo,
non essendosi prima reso conto intento ad ammirare le bellezze del palazzo e di
chi vi abitava. Ucraina lo invitò a seguirla verso la sua sala da ricevimento.
Si incamminarono lungo il corridoio, decorato come la stanza precedente e ricco
di vasi, statue, quadri e porte. Ucraina parlava del più e del meno, mentre
Germania, che le camminava a fianco, snocciolava qualche monosillabo, poiché la
sua mente ed i suoi occhi erano ancora concentrati sulla scollatura, ammirabile
in tutto il suo splendore dal ragazzo, di poco più alto. Arrivarono nelle
stanze di Ucraina, in particolare in un salottino molto raffinato, ma di
modeste dimensioni: il pavimento monocromatico era marmoreo, mentre le pareti
erano dipinte d’azzurro, su cui spiccavano le decorazioni dorate; il soffitto
era caratterizzato da dipinti raffiguranti la vita dei campi e la natura, il
luogo perfetto per Ucraina. La stanza conteneva delle poltrone ed un divano, in
cerchio intorno ad un tavolino da caffè, un camino acceso ed un comò. Tutti
raffinatamente decorati. Ucraina invitò l’ospite a sedersi su una poltrona, e
lei fece lo stesso mettendosi di fronte a Germania.
“Anche questa sala è molto bella.” Notò il tedesco.
“Oh, non è nulla in confronto ai palazzi di Mosca e
Pietrogrado3, ma a me piace particolarmente perché raffigura la vita
dei campi. Mi permette di rimanere circondata da fiori e colture anche in
inverno, quando tutto è in letargo.”
“Una tale passione per il giardinaggio deve essere
naturale in queste terre fertili, giusto?”
“Oh sì, tutti in famiglia abbiamo questo pallino della
coltivazione: Ivan ama prendersi cura dei suoi girasoli, mentre Natasha4
delle sue bietole5.”
Germania improvvisamente deviò discorso, riconducendosi
al motivo per cui era lì a Kiev in quella sera invernale.
“A proposito di Natal’ya, è tempo di parlare di affari
politici. Come ben sai tuo fratello è in preda ad una guerra civile…”
“Povero Vanya6! Spero si rimetterà presto.”
“Anche noi ci premuriamo della sua salute e salvezza, e
per questo abbiamo deciso di lanciare l’operazione Ostland. Le nostre forze e
quelle di Polonia, dei Baltici e di tua sorella attaccheranno i bolscevichi ed
aiuteranno Russia a tornare presto in salute e salvo da un disastroso futuro
comunista.”
Ucraina lo guardò un po’ confusa.
“Non eri stato tu ad inviare Lenin in Russia? E tra
l’altro avete firmato con lui il trattato di Brest-Litovsk. Perché ora volete
aiutare i bianchi?”
Germania non si scompose, si sistemò la croce e rispose
calmo.
“Abbiamo firmato il trattato con il governo russo allora
vigente, ed abbiamo inviato Lenin in Russia per farla uscire dalla guerra, cosa
che si è rivelata ottima. Ma adesso dobbiamo guardare al futuro: Lenin e i suoi
non mancheranno di diffondere la loro rivoluzione in altri luoghi del pianeta,
e presto l’Europa potrebbe trasformarsi in un immenso Stato comunista. Non
possiamo permettere che la proprietà privata ci venga sottratta e non possiamo
permettere che il popolo prenda il potere. Pertanto noi interverremo.”
Ucraina storse il naso a quelle parole: per quanto non
fosse comunista (non aveva neanche letto le opere di Marx), era convinta che il
popolo fosse importante e che dovesse essere ascoltato e rappresentato giustamente
dalla classe politica.
“E cosa ti ha portato a parlarmi di questo, Germania?”
“Ti chiedo il tuo aiuto. Sai bene che l’Armata Nera di
Makhno sta imperversando nelle regioni orientali del tuo Paese, e riceve
supporto dai Russi. Unirti a noi nell’operazione Ostland ti permetterà di
eliminare questo fastidio.”
Ucraina rimase pensosa per un po’, ma appena aprì bocca
per parlare, una porta dietro di lei venne aperta con forza, e da essa uscì
vivace una giovane ragazza sui diciassette anni: aveva il viso allungato e dai
lineamenti morbidi; il naso era lungo e prominente mentre la bocca composta da
due dolci labbra era aperta in un caloroso sorriso, tramutatosi in uno più
nobile ed austero alla vista dell’ospite; gli occhi erano piccoli e di un
azzurro chiaro e vivo; i capelli castani le arrivavano alle spalle, ed erano
raccolti in fronte con una frangetta spumosa; infine, era vestita con un
raffinato abito bianco, adornato dal pizzo sulla scollatura e sull’estremità
della gonna e delle maniche. La ragazza arrossì imbarazzata e si rivolse ad
Ucraina.
“Izvinite, chto vy prervali vas, missis Ukraina, ya
khotel pokazat' vam vyshivku, no ya pridu pozzhe.”7
Ucraina le rispose, ma in tedesco:
“Non preoccuparti cara, non ci disturbi. A proposito,
voglio presentarti il nostro ospite, Ludwig Beilschmidt, la Germania.”
La giovane fece un inchino mentre Germania si alzò e le
prese la mano, mentre Ucraina gli presentava la nuova arrivata.
“Germania, lei è Anastasiya Nikolaevna Romanova,
legittima Zarina di tutte le Russie.”
Germania trasalì, e baciò la mano alla gran duchessa
mormorando “Vostra Maestà”. La principessa sorrise lievemente, un po’
imbarazzata ed un po’ intimorita.
“Mia cara,” le disse Ucraina “ora torna nelle tue stanze,
noi dobbiamo parlare di affari importanti. Ti chiamerò io per venire a cena con
noi, sempre che a Germania non dia disturbo…”
“Per me sarà un onore.” Rispose fermamente il tedesco.
Anastasiya si inchinò e uscì dalla stanza, facendo risuonare i colpi che i
tacchi infierivano sul pavimento ad ogni passo. Appena la ragazza ebbe lasciato
le due Nazioni, Germania fissò Ucraina con un’aria incuriosita.
“Perché mi guardi in quel modo?” chiese ingenuamente
Ekaterina.
“Beh, non so, forse perché hai dentro casa l’erede al
trono di Russia mentre tutto il mondo, compreso me stesso, la credeva morta e
sepolta ad Ekaterimburg!”
Ucraina ridacchiò nervosa, ed arrossì.
“B-beh, è una lunga storia e-“
“Ho tempo.” Rispose impassibile Ludwig. Ekaterina sospirò
ed iniziò a raccontare.
Pietrogrado, Russia
10 Luglio 1918
Siberia percorreva i corridoi del Palazzo d’Inverno,
corridoi dorati e pieni di quadri raffiguranti Zar e Zarine. Quadri
appositamente prelevati e dati alle fiamme, e sostituiti con quelli di Lenin e
Marx. Non notando le finezze artistiche, abituata a vederle da ben due secoli
ormai, la ragazza continuava dritta per la sua strada. Tra i vari funzionari,
lavoratori e camerieri che andavano e venivano nel palazzo, Siberia spiccava
per la sua altezza, quasi un metro e ottanta centimetri, e la sua bellezza.
Vestita in maniera molto femminile, un abito rosa a maniche corte e piuttosto
semplice che esaltava il seno, secondo solo a sua sorella Ucraina, si muoveva
con leggiadria svettando con la sua figura snella ed imponente. Portava un
vassoio sul quale erano poggiati un bicchiere, una caraffa, ed un piatto ancora
fumante. Arrivò davanti ad una porta, l’aprì ed entrò nella stanza che si
espandeva dietro essa: velata nella penombra provocata dalle tende chiuse, la
stanza era grande e sfarzosa, come tutte quelle del Palazzo d’altronde,
contenente una grossa scrivania in legno siberiano, un grande specchio con
cornice di ambra del baltico, un lampadario di cristallo caucasico e,
soprattutto, un grande letto: maestoso, a due piazze, aveva le gambe e lo
schienale lignei ed intarsiati con linee dorate ed argentate; i cuscini erano
raffinati, bianchi come le lenzuola. Sul letto, coperto dalle lenzuola, vi era
Russia, dormiente e malato. Siberia poggiò il vassoio su un comodino, anch’esso
di buon gusto, accanto al letto e si chinò verso Ivan per dargli un affettuoso
bacio sulla fronte, mormorando un buon giorno con la sua voce dolce e calda. Si
raddrizzò con un dolce sorriso in volto, da cui scostò una ciocca dei lunghi
capelli argentei, e si avviò verso la finestra aprendo le tende e facendo
entrare la luce del mattino.
“Oggi è una bellissima giornata Ivan, dobbiamo
approfittarne per prendere un po’ di sole!” Disse mentre prendeva la sedia
della scrivania e la posizionava accanto al letto, sedendosi. Non che lei
avesse bisogno di molto sole: essendo tartara, aveva una carnagione leggermente
più scura di quella di Russia e delle due sorelle, che al contrario era candida
come la neve. Posò gli occhi color ghiaccio sul fratello, che sembrava esser
preso in un sogno agitato, e perciò gli prese la mano carezzandola coi pollici.
“Dai Ivan, è ora di colazione, non ti vuoi svegliare?”
Non le importava se fossero parole sussurrate al vuoto in
quel momento, poiché c’era sempre la speranza che Russia si svegliasse e
potesse mangiare dopo giorni di digiuno. Innumerevoli erano infatti i piatti
che lei stessa aveva rispedito nelle cucine, vedendo fallire i propri
tentativi, ed ultimamente, sebbene fosse giunta la bella stagione, le
condizioni di Ivan sembravano peggiorare, tanto che all’inizio di Luglio era
rimasto sopito ed inerme per una settimana intera. Ad un occhio esterno, non
velato da pregiudizi affettivi, la figura di Ivan pareva pietosa: la pelle
bianca era diventata di un colore cadaverico, e da essa si vedevano le vene
bluastre; il viso era più scavato, ed aveva perso la sua usuale paffutezza; la
massa muscolare era calata, le clavicole affioravano dal trapezio e le rotule
dai ginocchi; le dita di piedi e mani erano ossute. All’improvviso Russia cominciò a tremare, a
respirare affannosamente e contrarre i muscoli. Siberia posò rapidamente una
mano sulla fronte del fratello, mormorando:
“Va tutto bene, sono qui.”
Dopo un po’ la crisi si calmò, ed Ivan aprì gli occhi: il
viola acceso era diventato scuro e spento. Notata la figura accanto a sé,
cominciò a parlare con un fil di voce.
“Anastasiya… sei tu?”
“Sì Ivan, sono io, tranquillo.”
Lui sorrise.
“Come sei cresciuta… sei altissima e bellissima. Oh, anche
i capelli sono belli, una nuova acconciatura?”
Siberia lo guardò stranito, ma subito intuì: Ivan,
delirante, la stava scambiando per la principessa, anche grazie all’omonimia
tra loro due. Decise di reggere il gioco.
“Sì signor Russia, sono io.”
Ivan sembrò rendersi conto del suo stato, e chiese a
Siberia di scusarsi con lo Zar. Lei lo rassicurò e lo convinse a mangiare un
po’ della zuppa che gli aveva portato. Dopo aver finito, Ivan si distese di
nuovo, tuttavia prima di assopirsi disse una frase che avrebbe cambiato il
destino di molte vite:
“Mi dispiace non poterti proteggere, principessa.
Sappiate che se dovesse capitare qualcosa a te, o a tuo fratello, o alle tue
sorelle, io…”
“Non pensiamo a queste cose, signor Russia, lei pensi a
rimettersi presto.”
Appena Russia chiuse gli occhi, Siberia si alzò e gli
baciò la fronte, per poi andarsene a passo svelto. Ripercorse il corridoio,
scese le scale marmoree e arrivò davanti ad una porta. Bussò, e da dentro si
sentì una voce profonda dire: “Avanti.”. Anastasiya entrò, richiuse la porta
dietro di sé e si trovò davanti a lei il signore di quel palazzo: Vladimir
Ilich Lenin. Il presidente della Russia Sovietica stava guardando fuori dalla
finestra, che si affacciava sul grande giardino del palazzo, adorno di fontane,
aiuole, panchine e statue, ed era vestito semplicemente: una giacca marrone,
pantaloni beige, scarpe marroni e il tipico berretto proletario.
“Posso fare qualcosa per te, compagna Siberia?” le chiese
appena la vide entrare nello studio. Lei si avvicinò un po’.
“Sì, signor Lenin.”
“Ti ho già detto di chiamarmi compagno, no? Comunque sia,
di che si tratta?”
“Di mio fratello Russia.”
Lenin scosse la testa e si voltò verso di lei,
guardandola con gli occhi profondi ed allo stesso tempo compiaciuti, come mostrava
il sorrisetto sotto i suoi famosi baffi.
“Compagno Russia dovrà resistere solo un altro po’, e poi
si sveglierà felice del fatto che il suo popolo sarà stato liberato
dall’oppressione degli zaristi e dei capitalisti!”
Siberia sorrise di rimando.
“Non ho dubbi, ma riguardo agli zar… vede, Russia è
solito affezionarsi alle persone, data la solitudine che ha sempre vissuto sin
dalla morte di suo padre Kiev8, e si è particolarmente affezionato
ai vari principi e le varie principesse. Gli ultimi non fanno eccezione.”
Lenin la guardò curioso.
“Dunque?”
“Dunque vorrei chiederle il permesso di traferire la
famiglia Romanov da Ekaterimburg fin qui a Pietrogrado.”
L’uomo la guardò sorpreso e sbuffò.
“Assolutamente no. Tu mi chiedi di portare la famiglia imperiale
nella capitale, sai cosa significa? Che possono benissimo mettersi in contatto
con i loro sostenitori.”
“Non ha considerato, però, che le forze bianche siberiane
di Kolchak sono nei pressi di Ekaterimburg, e se dovessero liberare lo zar e la
sua famiglia, sarebbe un duro colpo per la causa rivoluzionaria.”
Lenin si lisciò il pizzetto pensoso.
“In realtà c’è una soluzione, proposta dal soviet di
Ekaterimburg… ucciderli tutti. Hanno già chiesto l’autorizzazione.”
Siberia deglutì pesantemente, temendo che fosse ormai
troppo tardi per salvare la famiglia Romanov.
“Tuttavia, ho negato questa autorizzazione,” continuò
Lenin “e quindi ti lascerò andare a prelevarli. Li porteremo nei pressi di
Tula, però.”
Siberia emise un sospiro di sollievo, e la tensione
scivolò via dal viso.
“Grazie, signor Lenin, ha fatto la scelta giusta!”
E se ne andò chiudendo la porta. Dentro lo studio Lenin
tornò ad ammirare il giardino, mormorando:
“Me lo auguro…”
Ekaterimburg, Russia
17 Luglio 1918
Appena calato il sole, la città industriale di
Ekaterimburg era illuminata da pochi lampioni, che facevano luce su parte dei
marciapiedi scuri e vuoti. Era già scattato il coprifuoco, e si vedevano solo
pattuglie di Guardie Rosse camminare ed esaminare vicoli e strade, con lampade
in mano che provocavano il luccichio delle baionette. Anastasiya camminava
sola, vestita con una giacca marone pesante, per proteggersi dai venti freddi
della sua terra, calpestando volantini, foglie e mattonelle con i suoi stivali.
Camminava alla volta del municipio di Ekaterimburg, per parlare con il
presidente del Soviet e concordare il trasferimento dei Romanov verso Tula.
Arrivò al municipio e fu accolta dal presidente nel suo ufficio, molto modesto
ed illuminato da un lampadario appeso al soffitto.
“Compagna Siberia, deve essere stanca, vuole una tazza di
tè?” Chiese l’uomo con fare cordiale e con un sorriso di circostanza in volto.
“No, grazie. Ho un compito importante e siamo già in
ritardo. Questo è il documento ufficiale di autorizzazione per il trasferimento
dei Romanov.” Gli disse porgendogli un foglio scritto a macchina e firmato da
Lenin. Il presidente lo lesse e poi guardò Siberia con aria sconsolata.
“Compagna, temo che sia troppo tardi: è già stato inviato
l’ordine dell’esecuzione…”
Siberia si alzò di scatto con una forza disarmante ed
ergendosi in tutta la sua altezza. Ma più di tutto, il suo volto si era scurito
ed i suoi occhi bluastri brillavano su quella maschera contratta dalla rabbia.
L’uomo davanti a lei poteva giurare di vedere un’aurea violacea scaturire dal
corpo di Anastasiya.
“Come sarebbe? La risposta da Pietrogrado era arrivata, e
l’ordine era quello di lasciarli vivi!”
L’uomo deglutì terrorizzato, e tentò di scusarsi,
ottenendo come solo risultato quello di fare infuriare ancora di più Siberia,
che strinse gli occhi rendendoli due lame ghiacciate e si avvicinò al volto
dell’altro fino a fargli sentire il suo respiro freddo come i venti che spirano
oltre gli Urali.
“Ora tu farai come ti dico: chiamerai i carcerieri e
darai il contrordine, nel frattempo mi avrai dato una macchina e due guardie
per andare a trasferirli. Chiaro, compagno?”
L’uomo annuì e Siberia tornò normale e sorridente. Pochi
minuti dopo, Siberia era su un camion militare, scortata da un guidatore armato
e due Guardie Rosse, alla volta dell’isba9 della famiglia imperiale.
Dopo un viaggio di mezz’ora arrivarono vicino all’isba, piuttosto grande per
essere una casa da contadini, dove vi erano vari soldati bolscevichi a guardia dell’edifico,
la maggior parte dei quali dormiva in una casupola poco distante. Ancora alzati
c’erano una decina di uomini, che discutevano intorno ad un tavolo all’aperto,
approfittando della piacevole serata estiva. Siberia si avvicinò a loro e chiese
chi fosse il comandante ed essi le indicarono un uomo basso e magro, con due
baffi fini ed affilati, che usciva dalla cantina della casa insieme a quattro
soldati col fucile a tracolla. Siberia li raggiunse all’entrata mostrando il
documento al comandante. Questo però la guardò e disse solamente: “Desolato…”.
La ragazza strabuzzò gli occhi e scese velocemente nella cantina illuminata da
una lampada ad olio appesa ad un muro. Lo scenario che poteva vedere era
orribile: davanti a lei, il muro era sporco di grosse macchie di sangue e a
terra stavano i cadaveri della famiglia Romanov. Poteva distinguerli tutti:
c’era lo zar Nicola, con la barba ispida e rossa del suo stesso sangue; c’era
la zarina Alessandra, morta tenendo per mano il marito e stringendo a sé il
figlioletto Aleksey, il povero principino affetto d’emofilia e vulnerabile ad
ogni taglio, ora dilaniato dai proiettili; c’erano Olga, Tatiana ed Anastasiya,
le giovani e belle granduchesse, col volto cadaverico corrucciato in una
smorfia di dolore, coi vestiti bucati e sporchi di sangue. Ecco la fine della
famiglia imperiale, un ammasso umano su un lago di sangue rosso, rosso come
quello degli uomini comuni a lungo oppressi e rosso come la passione, il
fervore, la rabbia che li aveva uccisi. Rosso come il comunismo. Siberia
trattenne i singhiozzi con le lacrime agli occhi, pensando ad un destino così
crudele e giusto che forse era già scritto da secoli.
Ma all’improvviso, tra la massa inerme di corpi morti, ci
fu una scossa: un corpo si mosse in una convulsione, che attirò Siberia verso
di sé. A muoversi era il corpo butterato, ma ancora vivo, di Anastasiya.
Siberia si gettò subito sulla ragazza, sollevandola un poco e notando che
alcuni proiettili erano stati bloccati dai gioielli che la principessa
indossava sotto il vestito, e miracolosamente i colpi che avevano raggiunto la
carne avevano perforato regioni non vitali del corpo. La stessa fortunata sorte
non era toccata alle sorelle. Siberia prese Anastasiya e la posizionò nel suo
cappotto per nasconderla dagli sguardi dei bolscevichi, che chiaramente
l’avrebbero voluta morta, ed uscì lentamente della cantina. Tornata all’aria
fresca dell’estate, Siberia si avviò verso il camion. Notata da uno dei suoi
accompagnatori, rispose che stava andando a prendere una cosa lasciata nel
veicolo, e riuscì a scampare al primo problema. Arrivata, salì sul posto del guidatore
e posò Anatasiya sul sedile accanto a lei. Si tolse la giacca e strappò la
camicia che aveva sotto di essa, facendo varie strisce a mo’ di bende e
tamponando con esse il sangue che sgorgava dai fori, dopodiché pose la giacca
sulla ragazza per proteggerla dal fresco vento, mormorando:
“Resisti, principessa.”
E partì il più velocemente possibile verso Sud-Ovest,
seminando i soldati che con pochi colpi sparati speravano di colpirla.
Kiev,
Ucraina
20
Gennaio 1919
Germania era stupito dal racconto. Riuscire a svignarsela
in quel modo con una principessa al fianco non era facile.
“Sei sicura sia andata così? Trovo tutto ciò come se
fosse un espediente per finire in fretta il racconto…”
Ucraina sorrise ed alzò le spalle.
“Ah, non so, così mi raccontò Siberia. Fatto sta che riuscì
a trovare un villaggio, lì fece rifornimento e si fece accompagnare da un
medico che salvò la granduchessa fino ad arrivare ad Ekaterinodar, già sotto il
controllo del generale Wrangel e di Filip. Dopodiché raggiunse Kerch, dove io
la stavo aspettando dato che mia aveva avvertito in precedenza e mi affidò
Anastasiya. Beh ora che sai la storia, che ne dici di cenare? Continueremo a
parlare di affari diplomatici domani mattina.”
Germania accettò e, presa Ucraina a braccetto, si
avviarono insieme verso la sala da pranzo per cenare assieme alla zarevna.
Note:
1 Zarevna in russo, ma in generale in tutte le lingue rutene,
vuol dire erede, letteralmente figlia dello zar. Il suo maschile è Zarevich.
2 “Mikhail, prendi i vestiti del nostro ospite e posali nelle
sue stanze” in ucraino.
3 Pietrogrado, letteralmente Città di Pietro, fu il nome dato
a San Pietroburgo durante la Prima Guerra Mondiale, data l’ondata di
nazionalismo e anti-germanismo scaturitasi all’epoca. Il nome durò fino al
1924, quando divenne Leningrado.
4 Diminutivo di Natal’ya.
5 Questo è un mio headcanon. Ho pensato che tutti nella
famiglia slava avessero questo pallino dell’agricoltura, data la fertilità
delle loro terre, ed ho accostato ciò al fatto che le bietole sono uno degli
ortaggi più coltivati in quei luoghi ed ecco a voi Bielorussia in versione
contadina.
6 Diminutivo di Ivan.
7 “Mi dispiace avervi disturbato, signorina Ucraina, volevo
farvi vedere un ricamo, ma verrò più tardi.” In russo.
8 Il Rus’ di Kiev è stato il primo Stato russo nella storia,
durante il Medioevo, e di conseguenza calza a pennello come padre di Ucraina,
Russia e Bielorussia. Fu ucciso da Mongolia durante la sua invasione
dell’Europa orientale. Siberia invece, nonostante sia considerata come una
sorella dai tre sopracitati, è stata adottata da Russia durante il suo periodo
di espansione oltre gli Urali tra il XVI e il XIX secolo, e durante quel
periodo si è velocemente russificata. Naturalmente tutto ciò non è canon, bensì
immaginato da me.
9 L’isba è la tipica casa contadina russa, di solito bassa e
piccola e lignea, per non disperdere calore.
Rieccomi, care lettrici e cari lettori! Perdonate il ritardo,
ma questo capitolo si è dimostrato essere più lungo del previsto, e per di più
ci sono stati vari inconvenienti. Spero non me ne vogliate. Parlando del
capitolo, possiamo definirlo il prologo per l’operazione Ostland ed anche
l’esaudirsi di una mia piccola ideuccia sul salvataggio di Anastasiya. Badate,
su Kaiserreich, la mod intendo, non si è salvata, ma ho deciso comunque di fare
questo strappo alla regola per cavalcare l’onda del mito della granduchessa e
per presentarvi il personaggio di Siberia, che sarà molto importante in questa storia.
Parlando di Siberia, lei è un OC di una mia amica, mentre Kiev è un mio
personale OC. Or dunque, cedo che non abbia niente da aggiungere. Ah,
naturalmente questa lunga estate è finita e l’inverno sta arrivando, perciò
dovrei tornare con la normale programmazione. Dico dovrei perché se ogni
capitolo si dimostrerà così lungo temo dovrò cambiare la tabella di marcia. Beh,
stavolta ho proprio detto tutto, e non mi resta che ringraziarvi per aver
letto, invitarvi a lasciare una recensione, dirmi come immaginate Bielorussia
in versione giardiniera, e ricordarvi che, nel caso vi foste annoiati, non s’è
fatto apposta. Ciao, alla prossima!