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Autore: EffyLou    15/09/2017    2 recensioni
ATTENZIONE: storia interrotta. La nuova versione, riscritta e corretta, si intitola Stella d'Oriente.
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Ha venti anni quando incontra per la prima volta quegli occhi, lo sguardo fiero del re di Macedonia, il condottiero che non perdona; ha venti anni quando lo sposa, simboleggiando un ponte di collegamento tra la cultura greca e quella persiana. Fin da subito non sembra uno splendente inizio, e con il tempo sarà sempre peggio: il suo destino è subire, assistere allo scorrere degli eventi senza alcun controllo sulla propria vita, e proseguire lungo lo sventurato cammino ombreggiato da violenza, prigionia e morte.
Una fanciulla appena adolescente, forgiata da guerre e complotti, dalla gelosia, dal rapporto turbolento e passionale col marito. Una vita drammatica e incredibile costantemente illuminata da una luce violenta, al fianco della figura più straordinaria che l'umanità abbia mai conosciuto.
Rossane, la moglie di Alessandro il Grande. Il fiore di Persia.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie Antiche'
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۹ . Noh
 

Fiume Idaspe, notte fonda, maggio 326 a.C.
 
Rossane era arrivata a contare cinquanta arcieri tra gli alberi, morti con un pugnale infilato nel collo, eccetto uno.
Il fango attorno agli occhi si era seccato e le tirava la pelle alla minima espressione di ribrezzo. Col buio non vedeva bene le ferite che aveva inferto alle sue vittime, gli zampilli di sangue le avevano sporcato l’armatura, il viso, le mani. Sapeva solo che quegli indiani non erano così astuti, bastava poco: tenere allertata la loro attenzione con rumori lievi, rami che si spezzavano e tintinnio di armi, e poi trovare un modo per far scoccare le loro frecce, per intercettare la traiettoria e capire da dove venissero. Rossane doveva individuarli e farli fuori: avrebbero indebolito le forze macedoni di Cratero. E ad aspettarli c’erano gli elefanti, non potevano permettersi di morire per mano di quegli indiani appollaiati come avvoltoi.
Era stata molto vicina a farsi scoprire un paio di volte.
La prima volta, uno degli arcieri aveva udito i suoi passi dietro di sé. Si era voltato, lei non aveva ragionato troppo e gli era balzato addosso infilandogli un coltello nella gola, trapassandolo da parte a parte. Neanche il tempo di rantolare. A quel punto aveva deciso che era meglio indossare le loro armature finché non avrebbe concluso il suo operato, sostituendo anche l’elmo. Poté persino aggirarsi più tranquillamente nello spiazzo tra gli alberi.
La seconda volta, che era vestita come un indiano, uno degli arcieri le bisbigliò qualcosa nella sua lingua. Lei non capì, tentennò troppo e mentre lui capiva l’inganno dell’armatura, Rossane fu più svelta e fece la sua mossa fulminea scoccando la freccia. Per pura fortuna il cadavere non cadde dall’albero, ma lei salì comunque per issarlo meglio e derubarlo delle frecce.
La fortuna aiuta gli audaci.
Se l’era ripetuto per tutta la sua “missione” come un mantra, un motto, un modo per pensare positivo. Anche se, più si entrava nel vivo, più la ragazza dubitava di essere audace ma solo sconsiderata.
La battaglia, ormai vicinissima al luogo in cui si aggirava Rossane, continuava ad infuriare e lei doveva sbrigarsi a togliere di mezzo quegli arcieri.

Alessandro ordinò a Perdicca di attaccare l’ala sinistra del nemico con la cavalleria.
Gli aurighi indiani decisero di precipitarsi con i loro carri nel bel mezzo della battaglia, pensando che questa mossa fosse l'estrema soluzione d'aiuto per i loro compagni. Questa decisione si rivelò letale per entrambi gli schieramenti. I fanti macedoni vennero annientati durante l’assalto dei carri nemici. Questi ultimi, lanciati su un terreno scivoloso e impraticabile, si ribaltarono facendo cadere a terra i passeggeri. Pochi di loro riuscirono a sopravvivere all’impatto, i pochi che ci riuscirono vennero uccisi poco dopo dai macedoni o dall’avanzata degli elefanti stessi.
Gli elefanti, disposti sul campo di battaglia in mezzo ai soldati nemici, parvero ai Macedoni delle grandi torri. Lo stesso Poro, di per sé alto circa due metri, sembrava ancora più enorme in groppa al suo elefante.

Dall’altro lato, Rossane terminò con l’assassinio degli arcieri nascosti, ne aveva contati centodieci.
Una volta conclusa la sua “missione”, recuperò l’elmo che le copriva il volto e si tolse di dosso l’armatura del nemico, abbandonandola ai piedi di un albero.
Guardò in direzione della battaglia, senza sapere bene come agire, ma c’erano alcuni cavalli senza cavaliere. Questo non la fece pensare un minuto di più. Pensare troppo non avrebbe giovato, non poteva tentennare né rimuginare. Guidava il corpo, l’istinto, non il pensiero razionale.
Corse a perdifiato nella loro direzione, l’elmo corinzio e il fango incrostato sulle ciglia che le infastidivano la vista.
Afferrò le redini di uno dei cavalli e lo strattonò, costringendo l’animale a fermarsi e darle la possibilità di saltargli in groppa. Si guardò attorno cercando di orientarsi e ritrovare il suo schieramento. Arrivò appena in tempo, mentre Alessandro ordinava agli arcieri a cavallo di spingere sul lato sinistro.
Anche se era buio e pioveva, scoprì che l’adrenalina dava il suo contributo e le parole di Cratero si erano rivelate veritiere: doveva colpire corpi nello spazio, non sottili linee o minuscoli puntini del tiro a bersaglio. La difficoltà stava nel prendere la mira, distorta dal movimento del cavallo, più che dal buio, dall’elmo e dalla pioggia. Ma qualche bel colpo lo segnò anche lei.
Gli uomini guidati dal generale Ceno apparvero alle spalle degli indiani, e questi ultimi non riuscirono a sostenere l’urto di cavalieri di Alessandro.
Poro dispose che gli elefanti attaccassero un po’ la cavalleria macedone e un po’ le truppe dietro di loro. I pachidermi attaccarono senza pietà, massacrando la falange a cavallo.
Rossane schivò un paio di colpi delle enormi bestie ma la terza volta non fu così fortunata: un colpo di proboscide scaraventò a terra lei e colpì il suo cavallo, spezzandogli l’osso del collo.
La ragazza cadde malamente sulla schiena, nel fango e nel sangue altrui, vide il pachiderma caricarle contro e l’avrebbe schiacciata con le sue enormi zampe. L’impatto prima con la proboscide e poi con il terreno le provocarono una fitta lancinante, mozzandole il fiato: era quasi sicura di essersi incrinata le costole, se non addirittura rotte. Tra l’altro, l’armatura era bozzata verso l’interno e premeva sul punto dolorante.
Tutta l’adrenalina e il terrore che le salirono in corpo, le fecero quasi dimenticare il dolore alla cassa toracica, alla spina dorsale e al coccige. Rotolò di lato per sottrarsi al pesante tonfo nel terreno della zampa e non venire schiacciata, accompagnato da un barrito rabbioso.
«Fravashis, komakam kon.» rantolò, alzandosi sulle gambe malferme e improvvisamente prive di forze.
Come voleva il Mazdeismo, Rossane cercò l’aiuto del suo angelo custode (Fravashis) in quel momento di pericolo mortale. L’angelo non le rispose, lei sentì le lacrime agli occhi e strinse le labbra, costringendosi a scacciarle.

Ogni momento le sembrava lontano, ovattato. Le grida, il sangue. Era davvero lei, la principessa di Battria, che si era infilata in quella situazione? Il delicato fiore di Persia nel bel mezzo di quella cruenta e brutale battaglia? I suoi petali erano coperti da un’armatura. Erano d’acciaio.
Volse lo sguardo verso il marasma. Cadaveri che disseminavano il terreno, morti in modi onorevoli oppure nel più terribile. Aveva ucciso anche lei, era sporca di sangue e fango. Ma era diverso uccidere con una lama rispetto ad un pachiderma che schiacciava i corpi dei soldati, le zanne che li squarciavano, le proboscidi che li scaraventavano via.
Sentì il fiato corto, la forza abbandonarla. Arrancò verso un albero, si accasciò alle sue radici per tentare di riprendere fiato. Non poteva più tenere quell’armatura, l’ammaccatura spingeva sulle costole incrinate (se non addirittura rotte), e le mozzava il respiro. Nel marasma della battaglia, nessuno si sarebbe accorto di un cambio di corazza.
Rossane sganciò l’armatura ammaccata, e ne prese una da un soldato persiano morto lì vicino. Si affrettò ad indossarla. Aveva il salvacuore a forma di cerchio con inciso una testa di leone. Il dolore alle costole era lancinante, ma senza l’abbozzatura che premeva era meglio.
Intorno a sé c’erano cadaveri o uomini che gorgogliavano nel vano tentativo di respirare nonostante le gole squarciate e il sangue che risaliva fino a colare lungo le guance. Uomini in punto di morte che piangevano, stringevano la terra tra le dita cercando di aggrapparsi al mondo. Uomini con il ventre completamente aperto e organi che ricoprivano la terra. Ormai se ne erano accumulate così tante, di interiora, che i soldati ci camminavano sopra immersi fino alle caviglie.
Non realizzò l’orrore finché non si ritrovò appunto a osservare quei corpi dilaniati e aperti. Sentì la bile salire, respinse un primo conato di vomito ma non riuscì a trattenere il secondo. Vomitò la paura, l’orrore, la disperazione di quel momento.
Non avrebbe mai creduto di poter vedere quegli orrori con i propri occhi. Ne aveva sempre sentito parlare, ma tra le parole e i fatti c’era un abisso. Era un massacro vero e proprio.
Un uomo morente tra le fila dei macedoni le parlò in greco, lei non capì assolutamente niente ma gli strinse la mano tra le sue e guardò i suoi occhi acquosi pieni di orgoglio e malinconia. Lacrime calde le scesero lungo le guance, facendo colare il fango. Cercò di dirle qualcosa, ma vide che lei non capiva. Allora s’indicò debolmente la spada e la ferita. Doveva aiutarlo a morire, non ce la faceva più a sopportare quel dolore.
La ragazza singhiozzò, estrasse il pugnale che aveva usato per uccidere gli indiani.
Che la terra ti sia lieve, uomo di ferro.
Rossane rinfoderò l’arma. Lo pianse, pur non conoscendo neppure il suo nome. Era un uomo di mezza età, era stato ferito con una zannata d’elefante in pieno ventre. C’era un buco che lo trapassava da parte a parte, incurante dell’armatura. Pensò che aveva seguito Alessandro fino all’India, inseguendo il sogno del sovrano macedone anche a costo di abbandonare la sua patria, la sua famiglia, le sicurezze della sua casa. Ed era morto nel peggiore dei modi.

Alessandro ordinò di attaccare gli elefanti. I soldati agirono in modo efficace, a tal punto che la falange riprese fiducia e ricominciò ad attaccare il nemico.
Poro reagì, fece contrattaccare gli elefanti e riuscì a spingere verso il fiume la cavalleria nemica. I cavalli macedoni, terrorizzati dai pachidermi indiani e il fiume alle loro spalle, fuggirono scaraventando a terra i loro cavalieri.
Il rajah, vedendo i cavalieri appiedati, comandò qualcosa in direzione degli alberi, ma lanciò un urlo di rabbia quando non ottenne riscontro. Alessandro capì che Poro stava comandando agli arcieri appostati tra gli alberi, ma questi ultimi non diedero risposta, non eseguirono gli ordini. Assottigliò lo sguardo, cercando di carpire di più.
«Pare che siano morti tutti. – gli gridò Efestione. – Non se ne è accorto nessuno perché sono rimasti incastrati tra i rami degli alberi. Sono stati uccisi in modo netto: un pugnale nel collo.»
Efestione lo sapeva, perché un soldato di loro che si ritrovava vicino a lui parlava la lingua degli indiani e captò la discussione tra i soldati, riferendola poi al generale.
Alessandro aveva preso sottogamba il problema degli arcieri, dal momento che si trattava solo di voci al mercato che aveva udito Rossane, e non aveva dato nessun comando in merito. In quel momento si rese conto che, se uno dei suoi non li avesse uccisi, sarebbero morti loro sotto una pioggia di frecce.
«Io… Non credevo ci fossero davvero. – esalò, stupefatto. – Troveremo chi è stato così lungimirante. Efestione, attent--!» non fece in tempo.
Efestione venne scaraventato a terra da un colpo di proboscide, ma riuscì a scartare di lato prima di essere schiacciato. Il cavallo non fu così rapido a rialzarsi, lanciò un ultimo acuto nitrito di dolore.

All’alba, che le forze degli indiani erano ancora consistenti ma spossate, Cratero guadò il fiume e si riversò nella giungla con la massiccia mole dell’esercito macedone.
Rossane si era rialzata sulle gambe malferme, ma non aveva neanche avuto tempo di pensare. La battaglia la inghiottì completamente. Combatté con la scimitarra, si districò dagli agguati degli indiani come faceva negli allenamenti a sorpresa con Cratero. La sua corporatura minuta fu di estremo aiuto, e non se lo sarebbe mai aspettato. Sentiva le membra stanche, il fiato – già provato dalle costole incrinate – mancare, la vista appannata. Sentiva che le spade cozzavano contro le placche metalliche sulle braccia, sentiva che venivano aperte ferite sulle gambe coperte solo di tessuto, una sul viso, ma non sentiva neanche più dolore: quello alle costole li sovrastava tutti. Mentre si appropriava delle vite dei suoi nemici, una freccia si conficcò nella sua coscia. Alzò lo sguardo sul responsabile: un indiano, appollaiato tra i rami. Non era uno degli arcieri, a giudicare dall’armatura doveva essere un cavaliere senza più destriero. Incoccò una freccia e colpì l’arciere indiano sulla fronte, facendolo stramazzare giù dai rami.
Si appoggiò ad un albero, cercando di non cadere nel trambusto dei cavalli. Strinse i denti e cercò di sfilare la freccia dalla carne. L’asta si spezzò, la punta metallica restò all’interno.
«Komakan kon, Fravashis.» implorò di nuovo, con lacrime calde che sgorgavano dagli occhi.
Rossane si lasciò cadere a terra, cercò in qualche modo di rimuovere quella punta di freccia. Sapeva che in certi casi si utilizzava una spada per fare leva, ma lei non era un medico e non voleva rischiare di fare danni irreparabili. Era conficcata troppo a fondo, serviva un chirurgo.
Alzò lo sguardo su Poro, era stato colpito da diverse frecce ed era sul punto di svenire per il troppo sangue perduto. Il conducente capì che il rajah faceva fatica a restare cosciente e spinse l’elefante in fuga.
Alessandro tirò le briglie di Bucefalo, Rossane udì chiaramente la sua voce mentre ordinava qualcosa in greco. Non le servì capire le sue parole, vide rinnovato vigore nell’esercito macedone che attaccò senza pietà gli ultimi indiani rimasti. Il condottiero invece si fiondò alla rincorsa del pachiderma su cui era Poro.

La battaglia infuriò spietata e rabbiosa più di prima. I volti dei macedoni e dei persiani deformati dalla stanchezza, la rabbia, la determinazione che alimentava ogni loro colpo.
Rossane decise che non poteva stare in piedi, né accasciarsi, nonostante la gamba continuasse a sanguinare copiosa. Bastava non sforzarla troppo, pensava. Si alzò barcollando. Bloccò un soldato tirando il suo cavallo per le briglie, gli fece un cenno col capo e lui le disse qualcosa in greco indicandole la gamba ferita. La ragazza arricciò il naso, sperò che non fosse una domanda, e si limitò ad arrampicarsi in groppa dietro di lui. Sguainò la scimitarra, la lama incrostata di sangue rappreso per le vite che si era presa prima, e cominciò a mieterne altre mentre il soldato galoppava nel marasma. Non durò a lungo, perché poi fu costretta ad accasciarsi contro la schiena dell’altro soldato: la ferita perdeva troppo sangue, aveva la vista annebbiata e la testa che girava, era senza forze.
Le diceva qualcosa, di tanto in tanto, ma lei non capiva una parola di greco e si limitò a far finta di niente.
Il soldato frenò il cavallo quando vide tutti i pachidermi inginocchiarsi. Gli indiani si fermarono, l’esercito amico pure. Una calma surreale avvolse il campo di battaglia, interrotta da qualche nitrito e barrito. Poi cominciò il vociare indistinto di lingue: greco, persiano, hindi.
Alessandro ordinò qualcosa ad un manipolo di soldati, che si avvicinarono titubanti al corpo esangue di Poro. Quando cominciarono a toccarlo per privare i rajah dei suoi averi, l’elefante s’infervorò e scacciò i soldati con colpi di proboscide. Dopodiché avvolse il suo padrone e se lo caricò sulla schiena. Il conducente dell’animale lanciò un’ultima occhiata ad Alessandro, che gli fece un cenno col capo e lo lasciò andare.
Gli indiani si ritirarono. La battaglia era finita.
 
* * *
 
Tornarono all’accampamento che era mattina inoltrata. Rossane aveva recuperato un cavallo senza cavaliere. Riuscì a salirci con l’aiuto di un soldato ragazzino e sempre grazie a lui, riuscì a guadare il fiume con gli altri senza accasciarsi in acqua, in balìa della corrente. Si sentiva debole e febbricitante, pregò che nessuna ferita si fosse infettata.  
I più gravi furono subito curati alla bell’e meglio, i morenti furono aiutati a morire in fretta. Chi stava meglio, dovette fare la conta dei morti sul campo di battaglia e recuperare i feriti e moribondi, e vedere, a mente lucida, gli orrori che la notte aveva portato. Tutto il dolore, tutta la morte. Cadaveri, interiora, arti, fino ai polpacci. C’erano alcuni soldati indiani a fare la conta dei loro morti, ma le due fazioni si ignorarono completamente.
I soldati di Poro ritrovarono, incastrati tra i rami degli alberi, i cadaveri dei loro compagni arcieri. I lembi di pelle aperte, laddove era stato conficcato il pugnale, erano già quasi marciti e mangiati dalle infezioni.

Rossane si accasciò tra le pelli della tenda dei servitori, lasciando cadere a terra l’elmo e scoprendo il capo bruno, i capelli attaccati alla cute per il sudore. Il viso annerito, sporco di terra, sudore e sangue, gli occhi circondati da fango secco mezzo sciolto come se fosse una maschera tragica. Zuppa di sangue e fango, era entrata zoppicando e con una mano sul costato.
Bagoa la vide entrare e sussultò per il suo orribile aspetto. Era provata, distrutta.
«Sei viva!» esalò, andandole vicino.
«Bagoa, aiutami con la ferita.» rantolò, le labbra screpolate, indicando debolmente la gamba.
L’eunuco le tolse gli stivali e i pantaloni, mostrando la carne aperta in cui era conficcata la punta metallica della freccia. Tutt’intorno era già arrossata e si vedevano sacche di pus che cominciavano a formarsi, il sangue continuava ad uscire. Ma almeno Rossane aveva avuto il buonsenso di applicare un bendaggio, seppur disattento, per diminuire il flusso. Solo per questo non era ancora morta dissanguata, ma a vedere quella ferita… c’era molto vicina. Impallidì, divenne cereo.
«Rossane, devo chiamare Filippo.»
«No, mi scopriranno. Estrai la punta.»
«Testarda d’una ragazza. Non sono capace. La ferita si sta infettando, stai per morire dissanguata! – le posò una mano sulla fronte sudata. – Hai pure la febbre.»
«Accidenti...» sussurrò.
«Io vado a chiamare Filippo.»
Non volle sentire ragioni. Si alzò in piedi e uscì a grandi passi dalla tenda. Il campo era ricoperto da soldati feriti e in punto di morte. Sporchi, insanguinati; pregavano, deliravano, si lamentavano.
Era quella la guerra, dunque. Nessun vincitore, nessun vinto. Cercò Filippo tra i vari medici e chirurghi che si muovevano tra i corpi.
«Man be Filippo-doktor ehtiaj daram.» diceva rivolto a tutti, infine uno dei chirurghi glielo indicò con un gesto svogliato della mano.
Lo vide che stava aiutando un uomo a morire e lo raggiunse solo quando ebbe finito.
Il medico si accorse dell’eunuco e inarcò le sopracciglia, invitandolo a parlare.
«E'laamey Khatar! La regina Rossane ha una punta di freccia infilata in una coscia, si sta infettando!»
«Non ho tempo per queste sciocchezze, eunuco. La regina è Taxila.»
Bagoa scosse il capo con energia. Filippo tremò, capendo in un lampo. Afferrò tutto il necessario e seguì di corsa Bagoa fino alla tenda dei servitori. Trovò la regina sporca di terra, sudore e sangue, stesa tra pellicce e lenzuoli sporchi. Le gambe, nude, sporche di sangue e ferite qua e là da tagli lievi. La gamba destra era zuppa di sangue che colava dalla ferita provocata dalla freccia.
Si chinò vicino a lei, non le fece domande, Rossane era febbricitante e troppo debole. La sporcizia sul corpo non fu utile, e Bagoa dovette lavarle almeno le gambe prima di farla medicare. Le venne tolta cautamente l’armatura di dosso, mostrando il corto chitone militare, che era stato infilato nei pantaloni, e lasciando intravedere sotto il tessuto la stoffa ben stretta al petto che appiattiva il seno.

Riportava quella brutta ferita, qualche altra meno grave in altri punti del corpo, diversi lividi violacei sulla schiena ed uno nero sul costato. Filippo decretò che avesse almeno tre costole incrinate, una rotta che per puro miracolo non aveva lacerato il polmone. Fu costretto a sgonfiare la sacca di sangue che si era formata tagliando la pelle con una lama sottile, applicare il bendaggio e alla fine fasciarle l’intero busto. Avrebbe dovuto tenere la fasciatura per due giorni, non di più onde evitare malattie gravi e una scorretta guarigione della costola. Avrebbe dovuto fare profondi respiri anche a costo di sentire quel dolore lancinante e non avrebbe dovuto sforzarsi. Riferì a Bagoa che avrebbe dovuto dormire quasi seduta, per i primi tempi almeno, in modo da favorire la respirazione, dopodiché avrebbe potuto sdraiarsi ma supina – mai prona e mai su un fianco. Le costole meno incrinate sarebbero guarite in fretta, quella rotta invece ci avrebbe impiegato un paio di mesi.
Per la punta di freccia ci volle un po’ di più, le infilarono un panno arrotolato in bocca da mordere.
Filippo allargò la ferita, ma Rossane scalciava e si dimenava come una forsennata per il dolore, tanto che furono costretti ad intervenire i servi per tenerla immobilizzata. Allargata la lacerazione della carne, fece leva con un coltello dalla lama smussata per tirare fuori la punta metallica. La regina tentò di dimenarsi ancora, con le lacrime agli occhi e il panno stretto tra i denti con una forza incredibile alimentata dal dolore. Estratta la punta, Filippo disinfettò tutte le ferite più piccole applicando le garze. Fu il momento in cui lei sembrò quasi rilassarsi, ma il tormento non era finito perché il medico disinfettò infine la carne dilaniata dalla freccia. Rimosse il pus bucando le pustole nella carne viva, la pulì a fondo e la disinfettò. Bruciava come sale. Ogni passaggio provocava un dolore immenso, tanto che fu quasi convinta di morire per tutta quella sofferenza. Saturò il tutto bruciando i lembi di pelle, in modo che si sarebbe cicatrizzata più in fretta. Infine, bendò.
Le diede una soluzione per placare il dolore, che Bagoa pensò fosse una specie di sedativo per elefanti, visto il modo in cui la regina crollò stremata poco dopo averla ingerita.
 
 
Per i successivi quattro giorni Alessandro restò a piangere Bucefalo e aveva già predisposto la costruzione di una città in suo onore e un’altra nei pressi del campo di battaglia per onorare la vittoria, Alessandria Bucefala e Alessandria Nicea. Nessuno aveva ancora detto al re che sua moglie aveva preso parte clandestinamente alla battaglia ed era rimasta ferita.
Ora stava bene, il peggio era passato. Per camminare si aiutava con un bastone e respirava ancora a fatica, non usciva dalla tenda per nessun motivo. I diadochi non sapevano della presenza di Rossane, solo i servitori e Filippo, che ogni due giorni andava a controllare la situazione della regina.
Rossane in quella convalescenza aveva dormito, mangiato e pregato davanti al fuoco ringraziando Ahura Mazda e Fravashis per averla aiutata in guerra, e averle salvato la vita. Era sicura che il “miracolo” di cui parlava Filippo, secondo cui la costola rotta non aveva forato il polmone, era opera di Fravashis che aveva risposto in quel modo al suo appello. L’aveva salvata.

Quel giorno, Perdicca entrò nella tenda della servitù per chiamare Bagoa da parte di Alessandro.
Rossane s’irrigidì sia per tale richiesta, sia per l’irruzione del generale. E anche Bagoa, che sentiva il cuore martellargli nel petto: da quando aveva superato la maggiore età, il re non aveva più chiesto di lui.
«Mia regina, cosa…»
Rossane tacque, Perdicca notò le varie fasciature e infine i suoi occhi saettarono su una nicchia della tenda: un’armatura pesante, una leggera, pugnali, spadino, scimitarra, elmo, arco e faretra. Spalancò le labbra. «Oh, per Zeus.»
Lei aggrottò le sopracciglia. «Non devi dire niente, per favore, Perdicca.»
«Sei rimasta ferita.»
«Sì.» archiviò in fretta.
«Dovrei riferirlo ad Alessandro, lo sai.»
«No.» affermò, perentoria.
«Rossane, lo verrà a sapere comunque. Sei ferita e non puoi nasconderti fino alla completa guarigione.»
«E va bene! – sbottò. – Va’, diglielo. Ma questa storia non deve diffondersi.»

Perdicca corse a riferirglielo. Entrò nella sua tenda mentre il re studiava le mappe disposte disordinatamente tra le pelli del giaciglio, i percorsi tracciati con l’inchiostro nero. Quando vide entrare il generale senza Bagoa, inarcò le sopracciglia interrogativo.
«Alessandro, Rossane è qui.»
Perché è qui? , si chiese subito. Un presentimento s’insinuò nella sua mente.
«Ottimo. Portala da me, per favore.»
L’altro scosse la testa con energia. «Non può camminare, è… Ecco lei è…»
«Parla, per Ercole!»
«È ferita.»
Una morsa strinse il cuore del re, e una terribile sensazione gli oscurò lo sguardo.
«Che significa?»
«Che ha preso parte alla battaglia, Alessandro. Ed è rimasta ferita. Ha chiesto di non far sapere a nessun altro di questa storia.»
Odio quando i miei drammatici presentimenti si rivelano veri.
Ma lui era così affranto dalla perdita di tutti quegli uomini e di Bucefalo, che non ce la faceva ad arrabbiarsi con lei. S’innervosì perché come al solito aveva ignorato i suoi ordini e non era rimasta a Taxila mettendo in pericolo la sua incolumità, ma ringraziò tutti gli dèi per averle salvato la vita nonostante avesse preso parte a quella battaglia cruenta. Una forte angoscia gli riempì il cuore, sperando di trovarla in salute quanto possibile. Ma sparì presto, Perdicca gliel’avrebbe detto.
Sotto lo strato di apprensione, sbocciò un forte sentimento di adorazione, stima, ammirazione.
Seguì Perdicca fino alla tenda della servitù.

Rossane, vestita solo di una clamide bianca fermata da due spille sulle spalle, era seduta su uno sgabello e si grattava via una crosticina dall’avambraccio, Bagoa la rimproverava di non farlo. Quando i due entrarono, la regina e l’eunuco ammutolirono e calò il gelo nella tenda. La vide che era pallida come un cencio, occhiaie profonde intorno agli occhi e l’aria stanca, provata. Vide le garze che le coprivano le gambe nude in punti sparpagliati e una piccola sullo zigomo sinistro, e una spessa fasciatura attorno alla coscia destra. Le mani avevano piccole escoriazioni, le braccia piccole crosticine. Ai lati, in cui la clamide era aperta e mostrava la pelle, s’intravedevano le bende sul busto.
Alessandro si lasciò cadere in ginocchio di fronte alla moglie. Le strinse le mani tra le sue, gli occhi pieni di lacrime. Le toccò il viso, quasi avesse paura che lei fosse frutto di un sogno. Ma lei era lì: ammaccata, bendata e ferita. Ma forse per questo ai suoi occhi risultò meravigliosa in quel momento più che mai.
Era morto Bucefalo. Non avrebbe sopportato anche la perdita di Rossane.
«Come ti è venuto in mente…?» le sussurrò.
«Ti prego, non arrabbiarti. Ho avuto i miei motivi.»
Se poi erano più o meno validi, in quel momento non aveva importanza.
«Anche se volessi, non ho abbastanza forze mentali per farlo. – sorrise incerto. ─ Non voglio rimproverarti, non me la sento. Ma accidenti a te, Rossane, potevi morire! Mi sono preoccupato! Per Zeus, se fossi morta, io… Non so cosa avrei fatto.»
In realtà lo sapeva. Avrebbe trucidato tutti coloro che servivano Poro, tutti gli abitanti di Paurava.
Sarebbe sceso nell’Ade e se la sarebbe ripresa, se fosse stato necessario.
Il cuore le fece una capriola nel petto. «Sto bene. Rimarrà solo una brutta cicatrice.» mugugnò toccando la fasciatura.
«Per me sarà bellissima e ti renderà ancora più bella di ciò che sei. La bacerò ogni notte.»
Arrossì, e sviò il discorso. «Ho anche le costole incrinate, ma in un paio di mesi dovrei guarire del tutto. Un elefante mi ha colpito con la proboscide, facendomi cadere da cavallo.»
«Fammi capire: eri nella cavalleria che è stata massacrata dai pachidermi? – impallidì. – Gia ton Día! Saresti potuta morire in un modo ancora più orribile, e sai come, l’hai visto!»
«Sono stata svelta. – gli sorrise furba. –Mi sono occupata degli arcieri, perlopiù. Tu non ci credevi che li avrebbe posizionati, qualcuno doveva pur controllare e agire di conseguenza.» borbottò.
Le prese il volto fra le mani, stampandole un bacio sulle labbra. «Dovevo aspettarmelo: la tua ingenuità ti ha fatto credere alle voci di mercato e ci è stata d’aiuto. Nessuno di noi si sarebbe preoccupato dei pettegolezzi. Io per primo, come sai.»
Rossane gli lanciò un’occhiata astuta e affettuosa.
«È per questo che il re ha bisogno di una regina.»







La battaglia è conclusa e in tutto durò otto ore, Rossane se l'è vista brutta, però se non altro qualcosa di buono l'ha fatto nella sua impulsività.
Personalmente io non approvo questo lancio di Rossane nella mischia, però come ho detto credo che sia coerente col personaggio perciò è quella la cosa importante in fondo, no? La coerenza prima di tutto hahah
 È stato un capitolo un po' difficile da scrivere per via della battaglia e delle cure mediche, sono arrivata alla fine della stesura che mi ero un po' stancata di scrivere 'sto capitolo.... è stato il più stressante tra tutti, credo HAHAH
E niente, sicuramente ci saranno cose da rivedere e quando revisionerò la storia sistemerò tutto, soprattutto i primi capitoli e altre sviste. 

Grazie a chiunque decida di lasciarmi una recensione e grazie a tutti che avete inserito questa storia nelle vostre liste, siete più di quanto mi aspettasi, considerando che ho cominciato a scrivere questa storia per sfizio, senza pretese e senza neanche l'iniziale intenzione di postarla accidenti! HAHAH

Grazie infinite a tutti! Alla prossima!
   
 
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