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Autore: ElisaBlackmind    16/09/2017    1 recensioni
L'ultimo suono che udì fu quello del tempo
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era seduto da molto tempo. Se ne stava appoggiato allo schienale della sedia, le braccia incrociate sulla scrivania davanti a lui, lo sguardo proiettato fuori dalla finestra aperta. Dall'esterno giungevano le voci delle persone e il profumo proveniente dalla panetteria sotto casa sua, quell'odore di pane che sentiva ogni giorno. Il vento gelido gli scompigliava i capelli neri che incorniciavano il volto pallido, troppo pallido. L'azzurro del cielo era sepolto sotto una coltre di nuvole grigie, cariche di pioggia come occhi che tentano di trattenere le lacrime. Giù in strada si vedevano le persone che ridevano, parlavano fra loro o camminavano in silenzio e per questo gli salì un moto di collera verso tutta quella gente che rideva beata senza preoccuparsi di ciò che succedeva pochi metri sopra le loro teste, in quell'appartamento avvolto dal silenzio. Vedeva un inferno di corpi vuoti, facce paffute e occhi cheannegano nel troppo pieno. L'allegro e indistinto chiacchiericcio che giungeva alle sue orecchie era troppo rumoroso, troppo gioviale, gli dava ai nervi. Detestava la gente, meritavano tutti l'inferno. Tutti...tranne la sua Cassie. Ma, ahimè, la sua Cassie ormai era felice. Anche lui desiderava ardentemente quella felicità.

Chiuse le finestre, rimanendo solo. Il ticchettio delle lancette dell'orologio sulla scrivania lacerava l'aria, dimostrando che anche il tempo aveva un suono. Era assordante, quasi irreale. Lui amava quella tranquillità, quella solitudine, la stessa che aleggiava dentro di lui, in un misto fra sconforto e tristezza.

La stanza era spoglia, spartana. Pareti bianche, un letto, una scrivania. A spezzare l'asetticità dell'ambiente, però, c'erano quelle due macchie di pittura rossa sul muro, residui di qualche momento particolare di rabbia. Lui amava dipingere, il pennello era uno strumento attraverso il quale sfogare tutta la sua pazzia, la sua rabbia, la sua ansia. Il rosso, il blu e il nero erano i colori ricorrenti in quei dipinti astratti, confusi, indecifrabili.

L'arte danzava nella profondità della sua mente, riusciva ad allentare le manette che trattenevano il suo cervello, intrappolato in un mondo di allegra tristezza. Adesso, però, non sentiva il bisogno di dipingere, voleva solamente essere felice. Non avrebbe dipinto mai più.

La scrivania era vuota, fatta eccezione per un pennello con il manico intriso di colori diversi e un coltello, come sempre.

Aveva passato gran parte della sua vita a cercare di far raggiungere agli altri la felicità. Non gli importava che gli altri non lo apprezzassero, lui sapeva che era giusto farlo. Parlavano di uccisioni, di omicidi, ma erano parole troppo brutali per la sua nobile azione. Questa vita era meglio perderla che averla, in fondo. Era tutto tranne che un dono, era una maledizione, una sfortuna, un'ingiustizia. La vera felicità si trovava nella morte.

Prese il coltello e se lo rigirò tra le mani, soppesandolo e osservandolo.

Ed ecco che, all'improvviso, comparvero. Di nuovo! Ancora loro!

Non smettevano di tormentarlo, non gli davano pace. Ultimamente li vedeva sempre più spesso.

I loro corpi dai confini indefiniti, l'espressione di puro orrore stampata sul viso: fantasmi reali, maschere in un mondo di fumo, spiriti di persone che lui aveva ucciso. La sua mente riviveva il momento finale della loro vita; si ricordava di tutti, di ogni persona alla quale aveva conficcato un pugnale nel petto.

Per ora vedeva spiriti di poco conto, che quasi non conosceva. Un sorriso folle, molto inquietante, gli nacque sulle labbra. Ricordava ogni singolo momento in cui aveva tolto loro la vita, la malsana e perversa euforia che gli scorreva nelle vene, l'espressione di puro terrore sulle loro facce. Era una paura bellissima, pura e semplice, quasi artistica. L'ultima emozione da vivi prima di passare alla felicità eterna. Non era una coincidenza che questa vita d'inferno si concludesse con essa.

Erano frutto della sua mente, lo sapeva anche lui. Frutto della sua mente, ma non per questo inesistenti.

Gli spettri vorticavano per la stanza creando un tornado di cui lui era il centro. Giravano intorno a lui, si avvicinavano sempre di più, lo costringevano in uno spazio sempre più stretto, opprimente.

«Lasciatemi stare!» urlò. Sentì la rabbia sommergerlo come un'onda, insieme alla paura. Non lo ammetteva nemmeno a se stesso, ma aveva paura di loro. Potevano fargli del male, ricambiare la tortura che lui aveva inflitto loro prima di ucciderli.

Ne comparvero altri, tutti insieme. Ora c'erano davvero tutti, ogni singola anima, o quasi: una mancava ancora. Dov'era Cassie? La sua Cassie, la sua sciocca e buffa Cassie... dov'era finita? Non la vedeva. Voltava la testa, analizzava ogni volto di quella marea di spiriti vacui senza trovarla. Voleva la sua Cassie: solo lei poteva mettere a tacere le voci nella sua testa, far scomparire quelle anime ignobili. Lui sapeva che tutti loro ormai erano felici poichè liberi del peso della vita, eppure lo tormentavano, lui, che era l'artefice della loro felicità.

«Basta! Basta! Basta!» Urlava. Strillava. Provava ad afferrarli, ma scivolavano via dalle sue mani. «Smettetela! Basta!» Si accasciò per terra, strinse le gambe al petto. Non riusciva più a stare in piedi. «No, vi prego...» piagnucolava. Questa volta era peggiore delle altre. Non erano mai comparsi tutti insieme e la sua Cassie non era mai mancata. Era sempre venuta a trovarlo. Non poteva farcela, non lo poteva reggere. Si premette le mani sulla testa, come se volesse comprimerla, chiuse gli occhi, si morse il labbro fino a farlo sanguinare.«No! Basta! Aiuto!»

Erano troppi. Perché lo perseguitavano? Avrebbero dovuto essere felici grazie a lui, dovevano essergli grati, non torturarlo.

Ma ecco che tutto finì. Le anime si sublimarono, scomparvero, lasciando il posto al l'unica degna di rispetto e della felicità che era stata loro concessa: Cassie.

«Cassandra»mormorò. Si alzò in piedi barcollando e si avvicinò alla sua amata. «Cassandra». Che sollievo. Eccola, finalmente. Il suo bel volto adesso era indistinto, ma ricordava ancora i suoi capelli bruni, i suoi occhi d'ambra, la sua voce melodiosa. Così come ricordava lo spavento impresso sul suo volto, il suo ultimo respiro, il pugnale conficcato proprio nel cuore, come segno del suo immenso amore. Aveva fatto di tutto per lei, aveva persino rinunciato ad averla vicina, pur di donarle la felicità. «Cassandra, non ti avevo vista subito. Pensavo che mi avessi abbandonato. Che stupido, vero? Tu non mi abbandoneresti mai.»

Si chinò per prendere il coltello che prima aveva lasciato cadere e glielo fece vedere. «Te lo ricordi, vero, Cassandra?» Sorrise. «Ti raggiungerò presto.» Chiuse gli occhi e, quando li riaprì, Cassie non c'era più. Non c'era problema, l'avrebbe rivista presto, molto presto. Adesso che l'aveva vista un'ultima volta sentiva ancora di più il bisogno di averla accanto per l'eternità.

Si soffermò un attimo ancora sul ticchettio delle lancette che si rincorrevano in una maratona senza inizio né fine. Si concentrò sul rumore dello scorrere del tempo, cercando di soffocare quello dei suoi pensieri, mentre si appoggiava la punta del coltello sul petto e premeva. Prima leggermente, all'inizio era quasi solletichio, poi più forte. Il fastidio divenne sempre più insistente, finché non uscì un rivolo di sangue rosso scuro, caldo, che iniziò a scorrere sulla maglietta nera e scivolò a terra.

Non tolse il coltello quando il sangue che sgorgava iniziò ad aumentare, né rabbrividì o urlò quando il dolore si fece insopportabile.

Sorrideva, baciato da quella brezza di morte, mentre il mondo intorno a lui si disfaceva in sprazzi alternati di luce e di nebbia.

Il suo ultimo pensiero lo dedicò a Cassie, al suo amore malato, al suo amore infinito.

L'ultimo suono che udì fu quello del tempo.

   
 
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