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Autore: Vago    16/09/2017    4 recensioni
Questo mondo è impazzito ed io non posso farci nulla.
Non so cos'hanno visto in me, ma non sono in grado di salvare chi mi sta vicino, figurarsi le centinaia di persone che stanno rischiando la vita in questo momento.
Sono un allenatore, un normale allenatore, non uno di quegli eroi di cui si parla nelle storie sui Pokémon leggendari.
Ed ora, isolato dal mondo, posso contare solo sulla mia squadra e sulle mie capacità, nulla di più.
Sono nella merda fino al collo. No, peggio, sono completamente fottuto.
Non so perchè stia succedendo tutto questo, se c'entrino davvero i leggendari o sia qualcosa di diverso a generare tutto questo, ma, sicuramente, è tutto troppo più grande di me.
Hoenn, Sinnoh, due regioni in ginocchio, migliaia di persone sfollate a Johto dove, almeno per ora, pare che il caos non sia ancora arrivato.
Non ho idea di come potrò uscirne, soprattutto ora che sono solo.
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Rocco Petri
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Finalmente sotto il ventre di Swellow la terra lasciò il passo alle alte onde sollevate dai venti temporaleschi.
Mi chinai ancor più sul dorso del mio compagno, cercando di proteggermi dalla pioggia che continuava a cadere imperterrita sopra di noi.
Ora che non dovevo più temere Darkrai, mi sarei potuto permettere di percorrere tutta la strada che mi separava dalla mia regione in volo.
Tre giorni di viaggio, non di più, poi avrei potuto mettere di nuovo piede nelle città che conoscevo.
Cosa avrei fatto, però, una volta arrivato?
Dovevo riuscire a procurarmi un nuovo PokèNav, quantomeno per riuscire a contattare Rocco.
E poi?
Appoggiai la fronte contro le morbide piume nere che mi stavano di fronte, concentrandomi sulle gocce d’acqua che mi colavano lungo il naso, per poi, da lì, arrivare fino al mento.
Non sapevo cosa fare della mia vita, ora.
I temporali non sembravano volersi ridurre, il Monte Corona sembrava fatto di cartone bagnato, il Monte Camino, a quest’ora, avrà già eruttato…
Potrei mettermi alla ricerca dell’allenatore della Fossa Oceanica, ma come, senza uno straccio di indizio di partenza?
Sospirai, esausto, e il braccio fasciato mi tornò a far male per qualche secondo, come per ricordarmi in che condizioni versasse.
Giusto, mi sarei anche dovuto far mettere un gesso. E avrei dovuto portare le squadre sopravvissute in un posto sicuro.
Certo, un posto sicuro. Chi non ne ha uno?
Se mi fossi provato a fidare di quel Karden? Dopotutto mi ha salvato da morte certa…
Ciclanova… ne avevo sentito parlare a Ciclamipoli. Era una specie di progetto del capopalestra Walter, all’inizio.
Doveva essere un punto di ricerca sull’energia elettrica, o forse sulle energie rinnovabili, non mi era mai interessato molto l’argomento. In fondo, il progetto fallì dopo non più di un anno.
Da allora quel posto è rimasto quasi sempre chiuso, tolti i pochi mesi in cui lo utilizzarono per alcune ricerche sulle mosse pokèmon, così dicevano i telegiornali.
Però… quell’affare è una specie di bunker. Se solo riuscissi ad entrarci, potrei utilizzarla come base per muovermi.
Magari potrei includere Rocco nel progetto. Voglio fidarmi di lui. Potremmo portare lì i feriti, per lo meno sarebbero al sicuro per un po’.
E se Karden mi stesse tendendo una trappola? Magari vuole usarmi come esca.
Aveva delle pokèball con sé?
No, non credo di averne viste.
Posso quindi immaginare che Darkrai sia l’unica cosa che può difenderlo. E Darkrai, dopotutto, è solo un pokémon.
Solo un pokémon.
Uno Zigzagoon troppo cresciuto.
Il suo tipo, quale potrebbe essere?
Buio, credo. Non dovrebbe avere anche lo Spettro.
Va bene. Buio. È il mio campo, quello. Sono io quello in vantaggio.
Cosa posso usare per metterlo in difficoltà?
Lotta, Coleottero e Folletto.
Blaziken è sempre stato l’unico pilastro anti buio di cui ho mai avuto bisogno… Considerando che uno qualunque dei miei altri pokémon può reggere benissimo più attacchi di quel tipo, tolto Swellow.
Potrei essere in grado di metterlo in difficoltà, nel caso si rivelasse anche lui ostile.
Va bene. Ciclanova.
Alzai o sguardo per guardare dove la rotta che stavamo seguendo ci avrebbe portato.
Hoenn non si riusciva nemmeno a distinguere.
Il vento continuava a ululare intorno a noi, trasportando nella sua corsa la fitta pioggia, e il cielo, ogni tanto, si illuminava del bagliore di un fulmine lontano.
Sarebbe stato un lungo viaggio.

Le spesse nubi temporalesche parvero diradarsi un poco, sospinte dal vento verso il mare, dandomi l’impressione che la luce della luna potesse effettivamente riuscire a rischiarare un poco il terreno.
Alla mia destra, a ovest, rossi lapilli di lava continuavano a fuoriuscire dalla bocca del Monte Camino, rischiarando il cielo dove venivano sparati e le pareti rocciose, dove le colate più dense scendevano.
Non dovette passare molto tempo perché la cenere sprigionata dalle continue eruzioni ci raggiungesse, costringendoci ad abbassarci di quota.
Riconobbi appena Brunifoglia quando la sorvolammo. Il terreno era ricoperto interamente da cenere e nere pietre vulcaniche, al punto da non lasciare nemmeno immaginare cosa potesse esserci sotto prima.
In mezzo a quello spettacolo monotono, un fiume di scura lava rosseggiante procedeva lento verso le Cascate Meteora, seguendo il letto naturale che la natura gli aveva messo a disposizione.
Swellow virò verso est, in modo da tenersi a distanza di sicurezza da quella fornace che non sembrava intenzionata a spegnersi.
Superammo così Ciclamipoli e i suoi cantieri, ora abbandonati, che avrebbero dovuto renderla la città più avanzata di tutta Hoenn, con i suoi tre piani previsti nel progetto.
Poteva essere Walter a portare sfiga. Quel vecchio continuava a sfornare idee destinate a fallire, in un modo o nell’altro.
Ciclanova, Ciclamare ed ora la modernizzazione della stessa Ciclamipoli.
Dovrebbero chiuderlo in un ospizio quell’uomo e smettere di finanziare le sue imprese.
La sopraelevata di asfalto e cemento che ospitava la pista ciclabile si alzò improvvisamente dal terreno, procedendo verso sud e scomparendo in un mucchio di macerie ancora prima che io potessi raggiungere la mia nuova meta.
Due chilometri, non sarà stata più lunga di quello la porzione di pista ciclabile ancora intatta.
I pilastri che ne sopportavano il peso dovevano aver ceduto, forse a causa delle scosse prodotte dall’eruzione dell’imponente vulcano lì a fianco.
Riesco quasi ad immaginare quei pezzi di cemento cadere uno dopo l’altro, trascinandosi dietro la maceria successiva come le pedine di un domino.
Swellow si abbassò ulteriormente, arrivando a specchiarsi nitidamente sulla superficie del lago, turbata appena dal piovischio che ci faceva compagnia nel nostro viaggio.
Il livello dell’acqua si era sicuramente alzato, ma la pianura che anticipava Ciclamipoli aveva permesso all’acqua di defluire dal lago, impedendogli quindi di sommergere interamente l’isolotto su cui avevano costruito l’ingresso di quel laboratorio.
Perché diavolo dovrebbero aver edificato un’entrata in un posto del genere? Tanto, costruire per costruire, potevano scavare sotto il sentiero che porta a Solarosa.
Swellow atterrò pesantemente sul terreno fangoso, cadendo a terra sotto il suo stesso peso, stremato.
Gli avevo davvero chiesto uno sforzo abissale con quel viaggio, sarebbe rimasto fuori gioco per diverso tempo.
- Grazie, amico mio. – gli dissi, scendendo dal suo dorso per inginocchiarmi al suo fianco e appoggiargli il palmo della mano destra sulla nuca – Ora riposati, te lo sei meritato. -
Il laser rosso colpì le sue piume umide all’altezza delle costole, richiamandolo all’interno della sua sfera.
Ci sarebbe voluta almeno una settimana perché potesse di nuovo scarrozzarmi da una parte all’altra della regione. Nessuno strumento da pokémon market mi sarebbe servito, in questa situazione.
Mi alzai da terra, cercando di pulirmi il pantalone sozzo dal nuovo terriccio che gli si era attaccato sopra.
Non potevo perdere tempo, non ancora. Mi sarei permesso un attimo di riposo solo quando anche i componenti delle altre squadre sarebbero stati al sicuro.
Cercai di avanzare verso la spessa serranda metallica chiusa, lottando contro il torpore che mi aveva avvolto le gambe.
Un massiccio lucchetto d’acciaio teneva chiuso l’ingresso, legando la serranda al basamento di cemento su cui questa andava a battere. Sulla superficie metallica sporca di fango, riuscii a distinguere i colori sbiaditi di quello che doveva essere stato un murales.
Presi tra le dita il lucchetto, pulendo al meglio delle mie possibilità la fessura dove la chiave si sarebbe dovuta inserire.
Non avevo tempo da sprecare in puttanate del genere.
La mia mano destra corse alla cintura, staccandone una pokèball e permettendo al pokémon che stava al suo interno di fuoriuscirne.
Blaziken mi guardò con i suoi occhi intelligenti, in attesa di un mio comando.
Sorrisi, lasciando ricadere il pezzo d’acciaio a terra.
- Distruggi il lucchetto. –
Il mio compagno dalle piume rosse raggiunse la postazione che, fino a poco prima, avevo occupato io, prendendo tra gli artigli aguzzi delle mani il lucchetto.
Preferii fare un ulteriore passo indietro.
Fiamme calde al punto da far evaporare istantaneamente le gocce di pioggia che ci cadevano sopra vennero sprigionate dai polsi del mio pokémon, avvolgendo nelle loro lingue arancioni le sue dita e ciò che esse stringevano.
Quando Blaziken si allontanò dalla serranda con un balzo, del lucchetto non rimaneva che un parallelepipedo sformato.
Sollevai la serranda di un metro, in modo da passarci sotto senza dover strisciare ed evitare che la pioggia riuscisse a invadere anche l’ambiente che quei pezzi di metallo proteggevano.
Mi ritrovai davanti a un cunicolo dalla volta in metallo, solcata da una colonna vertebrale di neon spenti.
Il mio compagno lasciò nuovamente scaturire le sue fiamme dai polsi, questa volta sotto forma di tenui fiammelle danzanti, in modo da illuminare il terreno su cui camminavamo.
Il tunnel continuava a scendere per un centinaio di metri, puntando verso nord, oltre che verso il centro della terra.
La porta d’acciaio che fungeva da termine del cunicolo si aprì cigolando sotto la pressione dell’unica mano che potevo permettermi di usare.
Una schiera di computer impolverati mi accolse in quella prima sala. Decine di cavi, fili elettrici e led spenti costellavano le pareti e il soffitto in cemento e travi d’acciaio.
Sulla sinistra, una porta in alluminio opaco era socchiusa, lasciandomi intravedere cosa ci fosse da quella parte.
Due alte capsule di vetro e metallo erano state piazzate contro la parete opposta di quell’ingresso, circondate da una decina di spessi cavi legati assieme da fascette scure che, con il tempo, si erano crepate.
Entrai in quella seconda stanza guardandomi attorno, circospetto.
I cavi che ero riuscito a riconoscere andavano a collegarsi a una lunga console su cui i tre larghi schermi erano separati da tastiere riportanti caratteri della lingua corrente, lettere Unown, numeri e simboli che, vagamente, potevano ricordare il braille.
Soffiai sul banco di lavoro, sollevando una nuvola di polvere grigia che andò ad imperlare le ragnatele che costellavano gli angoli.
Dalla parte opposta, nascosta da una finta parete in compensato, erano stati sistemati degli attrezzi da allenamento troppo recenti per essere appartenuti all’ultimo gruppo di ricerca che aveva impiegato quei locali. Il tapis roulant che occupava buona parte dello spazio era stato messo in commercio non più di dieci anni fa.
Qualcosa non mi tornava.
Due porte mi permettevano di proseguire nella mia esplorazione di quei locali.
Guardai per una attimo il soffitto, concentrandomi sulle lampade a neon su cui erano stati avvolti buona parte dei cablaggi di quella stanza.
Fossi riuscito a trovare il generatore e a riattivare la corrente, avrei sicuramente avuto meno grane.
Mi diressi quindi alle porte, soffermandomi sulle targhette appese accanto agli stipiti.
La prima che lessi riportava la dicitura “Mensa, Dormitori, Bagni”.
Nulla che mi interessava, in quel momento.
Avrei avuto modo in seguito di scoprire chi aveva utilizzato i locali di Ciclanova per ultimo.
Lasciai perdere quella targhetta, passando alla seconda.
“Laboratorio B, Laboratorio C, Laboratorio D, Sala Macchine”.
Era la mia strada, quella.
Il laboratorio A, probabilmente, era quello in cui mi trovavo io adesso.
Aprii quella seconda porta.
Uno schermo imponente occupava l’intera parete di destra, mentre quella di sinistra era adibita ad ospitare tre postazioni computer.
Forse, riattivando quelle macchine, sarei riuscito a scoprire qualcosa di più sul conto di quella stanza, come, del resto, su quello delle precedenti.
Proseguii a passo spedito, superando l’unica porta che riuscii a vedere.
Rimasi sconcertato nel trovarmi davanti una stanza imponente si era aperta oltre quell’ingresso.
A terra erano stati tracciati in bianco le linee tipiche dei campi destinati al combattimento tra pokémon, su cui erano ben riconoscibili i segni lasciati dalla potenza di mosse distruttive.
Il mio sguardo percorse tutti i sette metri del campo, andando ad imbattersi nella postazione da centro pokémon che era stata costruita alla mia destra.
Mi avvicinai all’imponente macchina abbandonata a sé stessa e al pc che gli stava accanto.
Avrei potuto usare quello per contattare Rocco, perfetto.
Il macchinario era nuovo e, probabilmente, era perfettamente funzionante.
Con la coda dell’occhio vidi qualcosa.
La stanza si allargava ancora alla mia destra, come per andare ad abbracciare la sala da cui ero appena uscito. Qui, gelido e metallico, un tavolo da sala operatorio rimaneva immobile, coperto appena da un lenzuolo bianco. Al suo fianco, stipati negli armadi dalle ante di vetro, erano state riposti decine di strumenti medici.
Mi allontanai quasi di corsa.
Dove cazzo ero finito?
Perché Karden voleva che io arrivassi fin lì?
Aprii la porta dalla parte opposta del campo di lotta, sperando di trovare qualcosa di meno macabro dalla parte opposta.
Un ragno metallico mi accolse protendendo le sue zampe appuntite nella mia direzione.
Caddi a terra, lasciandomi scappare un urlo di terrore.
Le fiamme di Blaziken arrivarono a illuminare meglio quel mostro splendente, rivelandolo per ciò che era davvero, non che questo mi tranquillizzasse molto.
Era un macchinario a misura di uomo. Quelle che io avevo scambiato per zampe erano come delle barre di sicurezza che, ruotando sui cardini a cui erano fissate, andavano ad assicurare il malcapitato alla postazione che componeva la parte centrale di quel macchinario.
A completare quel quadro inquietante, decine di sensori ed elettrodi cadevano mollemente tutto intorno a quel macchinario, pronti per essere fissati alla cavia di quell’esperimento di cui avrei preferito rimanere all’oscuro.
L’ultima porta, finalmente. Oltre a quella, in teoria, doveva esserci il generatore.
La spinsi con una punta di incertezza.
Un macchinario imponente occupava la maggior parte della stanza. Il rotore era ricoperto di ragnatele e polvere, così come la postazione di controllo che gli stava a fianco.
Mi avvicinai a quel mostro di metallo con un timore quasi riverenziale, come se quel generatore, in realtà, nascondesse un pokémon leggendario al suo interno.
Devi calmarti immediatamente, Nail! Non fare il coglione!
Ora vedi di accendere quest’affare, quanto potrà essere difficile?
Nella postazione di comando non sembravano esserci né scomparti per inserire una chiave, né codici da inserire.
I miei occhi si illuminarono quando misero a fuoco la scritta sbiadita che campeggiava sopra un grande, meravigliosamente vistoso, bottone rosso.
“On/Off”.
Che parole meravigliose.
Lo premetti con forza, sobbalzando non appena il rotore si avviò con un fragoroso ronzio.
Era fatta. Per una volta la buona sorte mi aveva sorriso.
Pochi secondi dopo, le luci della sala si accesero, rischiarando le pareti asettiche in metallo e i turbini di polvere che avevo alzato con il mio passaggio.
Ottimo.
Ora non dovevo far altro che capire cosa dovessi farci io in questo posto di merda.
Tornai sui miei passi fino alla prima stanza che mi aveva accolto in quel bunker, degnando appena di uno sguardo l'imponente monitor a parete del Laboratorio B, ora acceso e fisso su quella che sembrava una mappa in tempo reale della regione, precipitandomi invece ad accendere uno dei sette computer che lì mi stavano aspettando.
Nessuna password mi impedì di accedere all’account dell’ultimo utente.
Non c’era nulla che potesse interessarmi, almeno a una prima e frettolosa vista.
Tabelle riguardanti le spese di gestione, caselle di posta elettronica vuote, copie elettroniche delle ricevute dei macchinari più comuni che avevo trovato nelle altre sale.
Nulla che mi interessasse davvero, dovevano essere le postazioni della segreteria, quelle.
Superai ancora una volta la porta sulla parete di destra, sedendomi sulla sedia dietro il bancone collegato alle capsule, già in funzione.
I tre schermi mostravano quelli che potevano sembrare parametri vitali, tutti accompagnati dalla cifra zero. Riuscii a riconoscere nel marasma di diciture una linea piatta che sembrava appartenere a un elettrocardiogramma, immediatamente sopra a quello che mi parve essere la misura di un termometro.
Misi da parte i rilevamenti, provando invece ad accedere ai file salvati, trovandomi davanti a una decina scarsa di cartelle.

Soggetto codice H. – Chiuso
Soggetto codice L.. – Chiuso
Soggetto codice G. – Chiuso
Soggetto codice S. – Chiuso
Soggetto codice M. – Attivo
Soggetto codice T. - Chiuso
Soggetto codice ||| - Inizializzato

Mi passai una mano tra i capelli, cercando di capire quelle poche cartelle cosa potessero rappresentare.
Posai il polpastrello del medio sulla freccia verso il basso che la tastiera mi metteva a disposizione, facendo calare il cursore dalla prima alla seconda cartella, per poi passare alla terza.
Cosa potevano voler significare quelle diciture? Chiuso, Attivo, Inizializzato…
Il cursore si fermò sulla quinta cartella.
Soggetto codice M. – Attivo
Cosa era attivo?
Premetti con forza sul tasto invio.
Sullo schermo comparve un’ingombrante finestra accompagnata da una casella di testo vuota, pronta per essere riempita dalla password che mi veniva richiesta dalla nota immediatamente superiore.
Provai con un’altra cartella, ma, nuovamente, la richiesta di una parola chiave mi bloccò.
In quel modo non sarei riuscito a capire nulla di quel luogo, avrei dovuto andare a controllare cosa si nascondesse nei dormitori, forse, lì, avrei trovato qualche risposta alle mie domande.
- Sei venuto fin qui, alla fine. –
Mi voltai verso la porta d’ingresso.
Karden mi stava guardando con uno sguardo soddisfatto negli occhi. Alle sue spalle, incombente, fluttuava lo stesso Darkrai che mi aveva tormentato notte dopo notte negli ultimi tempo.
- Si, sono qui, ma non ho ancora capito nulla. –
- Cercherò di spiegarti qualcosa. – mi rispose avvicinandosi a me, incurante del Blaziken pronto ad attaccare che mi stava accanto.
   
 
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