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Autore: Nausicaa Di Stelle    18/09/2017    6 recensioni
Questa storia si situa cronologicamente dopo "Rebirth", poco dopo la conclusione della vicenda, ma credo che possa essere goduta tranquillamente anche senza aver letto il prequel.
Per me, si tratta di una promessa che finalmente riesco a mantenere, e forse qualcuno sa il perché.
Frequentavo la sua cabina ogni notte. Dopo l’ultima trasformazione, scivolavo nella stanza insieme al sonno e lo guardavo dormire. Era così stanco da parermi di nuovo inerme come quel giorno, nudo e freddo dentro la capsula. E nudo lo era ancora, sotto le coperte. Lo sapevo ma non mi bastava: desideravo vederlo ancora una volta. Desideravo il suo corpo.
Genere: Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harlock, Raflesia
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Il prezzo da pagare

 
 
 
Frequentavo la sua cabina ogni notte. Dopo l’ultima trasformazione, scivolavo nella stanza insieme al sonno e lo guardavo dormire. Era così stanco da parermi di nuovo inerme come quel giorno, nudo e freddo dentro la capsula. E nudo lo era ancora, sotto le coperte. Lo sapevo ma non mi bastava: desideravo vederlo ancora una volta. Desideravo il suo corpo.
Di giorno (semmai nello spazio esiste il giorno) combattevamo l’una contro l’altro fino alle sfinimento. Ma poi passavo notti insonni accanto al suo letto, senza permettere nemmeno a lui di riposare davvero.
La mia brama lo svegliava spesso di soprassalto, dopo che ero riuscita a rubargli un bacio tra la mascella e il collo o ne avevo percorso con l’indice il viso dalla fronte al mento. All’inizio bastava questo per destarlo, ma mano a mano che cresceva la stanchezza, la sua soglia di sopportazione si è innalzata, e io mi sono fatta più audace.
Sedevo sul letto (gli ologrammi mazoniani sono ben più reali di una semplice immagine quadridimensionale) e restavo ad ascoltarne il respiro finché non si faceva pesante e regolare, poi avvicinavo le labbra alle sue e lasciavo che un alito del suo fiato mi entrasse nella bocca. Con baci leggeri lo inducevo a dischiudere di più le labbra, finché non riuscivo a introdurre la lingua. A quel punto, immancabilmente, si ridestava dal sonno.
Mi piaceva tormentarlo, era un gioco. Un gioco un po’ sadico, come quello tra due gatti in amore che si graffiano e mordono prima di lasciarsi montare.
Me ne andavo appena in tempo per non farmi vedere, ma a volte riuscivo a scorgerlo mentre si rigirava nel letto, sprofondando il viso nel cuscino, la mano che arruffava i capelli con  frustrazione per non essere riuscito a cogliere sul fatto il nemico invisibile che lo tormentava.
E io ridevo fra me mentre la cabina pirata si sfocava e mi ritrovavo sola nella sala del trono della Dokras, in quel luogo in cui potevo godere indisturbata dei miei successi mentre gustavo il sapore della sua pelle sulle labbra. Nessuno aveva accesso a quella sala senza il mio permesso, nessuno poteva distogliermi dal mio godimento.
E ogni notte, immancabilmente, finivo per ripromettermi: “La prossima volta ci andrò nuda”.
 
 
Ogni notte si ripeteva lo stesso sogno.
Ogni notte mi sembrava che lei tornasse a baciarmi proprio com’era successo poco prima del mio risveglio nella capsula. Era una sensazione insopportabile.
Forse davvero ero sua preda mio malgrado, ogni notte, e ciò che si confondeva con il sogno non era nient’altro che realtà celata dalle tenebre.
A questo gioco così subdolo non potevo sottrarmi. Dovevo cercare di dormire, ogni fibra del mio corpo me lo chiedeva, e non avevo alcun mezzo per impedirle di entrare, nella mia stanza come nella mia testa, insinuandosi tra il sonno e la veglia e costringendomi alla sua compagnia.
Le sensazioni che provavo erano così vivide che mi pareva di vederla mentre mi accarezzava, scivolando sulla pelle fino a punti in cui mai le avrei consentito di arrivare. Sentivo le sue dita scorrere come acqua sopra i muscoli che ancora non riuscivano a rilassarsi, indugiare sul petto, sfiorare con l’unghia un capezzolo, scendere lungo l’addome, disegnare piccoli cerchi attorno all’ombelico e seguire un’immaginaria verticale fino al pube.
Quando si fermava era già troppo tardi: mi svegliavo cercando di afferrarle la mano, gettavo via le coperte, ma non c’era più nessuno.
Desideravo che quel tormento finisse, e avrei voluto chiedere a Mime di restare con me a vegliare per l’intera notte, ma non potevo farlo, lo sapevo bene.
Così la lotta continuava, nella mia cabina come sul campo di battaglia e le sconfitte che le infliggevo con le armi erano sempre più fulminee, sempre più feroci, mano a mano che le cedevo terreno sull’altro versante. La sospensione dello stato di veglia era un momento che ormai desideravo e temevo con tutto me stesso, poiché il bisogno pressante di riposo si legava inesorabilmente alla sua presenza.
Ciò che più spesso riusciva a rubarmi in quei momenti era il contatto intimo con le mie labbra, ma non erano i baci appassionati di un’amante. Possedevano una natura predatoria, assomigliavano al calare spietato della sua flotta su di un mondo che non aveva armi per opporsi. Di notte quel mondo era il mio corpo, ero io.
 
 
La nostra guerra era ininterrotta, le mie incursioni sull’Arcadia sempre più temerarie e assolutamente indisturbate. Costringevo Harlock a combattere con armi che non gli erano famigliari: la sua bocca, il petto, ogni parte più intima di lui. Non avevo mai goduto tanto nel batterlo. Il più abile stratega che la Terra possedesse era del tutto inesperto in questo campo e soccombeva ad ogni mio assalto. O forse era soltanto la stanchezza a renderlo tale, e se i nostri fossero stati veri preliminari amorosi, probabilmente avrebbe soddisfatto le mie più alte esigenze.
Ma anche questo sadico gioco al quale accettava di sottoporsi mi dava grandi soddisfazioni. Ormai le mie mani conoscevano ogni centimetro della sua pelle, ogni piega dei muscoli, ogni palmo di quel corpo ringiovanito. Mi mancavano solo i suoi occhi, che ancora non mi avevano vista, nuda, in quella stanza, solo per lui.
Mi piaceva guardarlo dormire bocconi, quando, dopo avere gettato via le coperte con furia per aver avvertito la mia presenza, si riaddormentava semiscoperto. Ne baciavo la schiena nuda, seguendo un’invisibile costellazione maschile, scendendo giù fino a dove le lenzuola lasciavano intravvedere la piccola “v” delle natiche. Talvolta, quando il suo sonno era talmente pesante da permettermelo, scostavo piano le coperte e accarezzavo il piccolo solco del sedere, fermandomi prima che il dito arrivasse a sfiorare i testicoli. Volevo guardarlo indisturbata per un poco prima di destarlo di nuovo con carezze più audaci, prima di prendermi un altro pezzo di lui.
Ma l’ultima notte ho infine abbandonato ogni remora, comparendo accanto al suo letto con addosso solo la corona. Volevo che si ricordasse che ero una regina.
Lo trovai che era di nuovo sdraiato bocconi, un braccio allungato sopra la testa a stringere il cuscino.
Mi sono seduta su di lui, prestando attenzione a non svegliarlo. Il contatto dei suoi glutei sodi con il mio sesso glabro mi ha sferzata di piacere. Ho serrato le labbra per non ansimare, guardandolo per un istante soltanto, steso lì sotto di me. E se in mano avessi avuto una spada? Come sarebbe stato facile prendermi la sua testa! Ma quella sera volevo ben altro da lui. Volevo l’uomo che stava chiuso dentro le vesti del pirata che tante volte mi aveva combattuta, e al posto di un’infinità di baci rubati nel corso di quelle notti, volevo che fosse la sua bocca a prendere la mia. Ma soprattutto avrei voluto qualcosa che non mi era concesso, qualcosa di inconfessabile.
Lentamente mi sono stesa su di lui, premendogli i seni contro la schiena. Riuscivo ad avvertire la sensazione della sua pelle maschile, più spessa e ruvida della mia, e il contrasto del mio petto caldo contro quei muscoli che ormai si erano raffreddati, il mio calore che si trasmetteva al suo corpo come in un’osmosi che preludeva ad altre intimità.
Riuscii ad avvertire tutto questo prima che lui si svegliasse.
La sua reazione non fu veloce come me l’aspettavo, probabilmente perché perdurava ancora il dubbio che le mie visite non fossero altro che semplici sogni. Così si è sollevato appena su di un braccio, girandosi verso di me, l’incertezza dipinta in viso. I nostri occhi si sono incrociati per un breve istante. Credo di avergli sorriso con un piccolo cenno. “Sono io”, volevo dirgli “Sono sempre stata io, nel lungo stillicidio di queste notti insonni.”
Sono saltata giù dal letto artigliandogli la schiena giusto in tempo per non essere scaraventata a terra, fermandomi a pochi passi di distanza, ritta in piedi, nessuna espressione sul viso che potesse tradire le emozioni confuse che provavo.
Lui stava di fronte a me, dall’altro lato del letto, incredulo e nudo. Mi sono concessa d’indugiare con lo sguardo su quel corpo che mi ero così duramente conquistata, notte dopo notte (meritavo il mio premio!), prima di lanciarmi sulla sua spada.
L’avevo adocchiata fin dalla prima volta. Sapevo dove appendeva il fodero, su quale lato della testiera, lì, per avere le armi sempre vicine, come se il pericolo potesse sorprenderlo all’improvviso anche in camera da letto. Non aveva tutti i torti.
Sono riuscita ad afferrare l’elsa, ma non a sguainare la lama: me lo sono ritrovato addosso senza quasi riuscire a vederlo, veloce come un leone su una gazzella. Mi ha cinto ai fianchi con le braccia, gettandomi a terra insieme a lui.
Mi stava addosso con tutto il suo peso, aderendo con  il corpo al mio. Faceva esattamente ciò che volevo senza che avessi bisogno di ordinarglielo.
Avvertii i suoi addominali, duri e tesi, contro il ventre, le ossa del bacino che sfioravano le mie  anche e il suo sesso che scivolava su di me, fra l’inguine e la coscia, mentre si sollevava un poco e con un braccio cercava di raggiungere il fodero che ancora stringevo, tenendolo in alto vicino al petto.
Lo colpii al viso con la parte della Gravity Saber che fuoriusciva dal fodero, costringendolo a distaccarsi da me quel tanto che bastava per sgusciare un poco dalla sua presa. Non volevo allontanarmi, dovevamo avere solo abbastanza spazio per giocare.
Sono stata scorretta, lo ammetto: l’ho costretto a partecipare senza prima spiegargli le regole. Ma ero sicura che la vita avesse fatto così con lui già tante volte che di certo avrebbe fatto in fretta ad imparare. Del resto in quel momento la sua insegnante era molto esigente e non gli avrebbe permesso di sbagliare nemmeno una mossa.
Ero quasi in piedi quando ho sentito una mano che mi stringeva la caviglia, tirandomi di nuovo a terra a strusciare contro la moquette ruvida. In un attimo Harlock è stato sopra di me, percorrendo il mio corpo dal basso verso l’alto con il suo per avvicinarsi di nuovo a quelle armi che era convito fossero davvero la posta in gioco. Non immaginava che, con ognuno dei suoi tentativi, mi stava dando proprio ciò che volevo: la vista del suo corpo sempre più accaldato, con i muscoli inturgiditi dagli sforzi, e il contatto intimo delle nostre persone.
L’unica cosa che volevo, quella notte, era lui.
 
 
Il fatto che Raflesia in persona fosse nella mia stanza era impensabile quanto normale.
In fin dei conti, dopo tutti quegli incubi, non mi aspettavo altro che di vederla davvero in carne e ossa accanto a me.
Eppure c’era qualcosa di strano in lei, qualcosa che mi faceva sospettare che non si trattasse di una presenza reale. Del resto sarebbe stato davvero imprudente per la regina di Mazone introdursi nella mia stanza, tutta da sola. Pensavo che uno dei suoi sottoposti potesse aver preso le sue sembianze, o che quello fosse un semplice ologramma.
In entrambi i casi, chiunque fosse colei che avevo davanti, ciò che voleva era piuttosto evidente. Almeno, così pensavo all’inizio.
La verità era ben altra e, come una lezione che si impara solo mano a mano che si segue, l’ho scoperto contatto dopo contatto, letteralmente sulla mia pelle.
L’ipotesi dell’ologramma restava comunque la più probabile. In certi momenti tra noi avvertivo una tensione quasi elettrica, una sorta di corrente elettrostatica che scaturiva soprattutto quando i nostri corpi si sfregavano lungamente l’uno contro l’altro. E ciò accadeva piuttosto spesso.
Raflesia mi tratteneva in ogni modo accanto a lei. Addosso a lei.
M’intrappolava una gamba fra le sue, si gettava sopra di me per riprendere il fodero che ero appena riuscito a sottrarle, strusciava impudicamente il seno contro il mio petto, si sedeva a cavalcioni sopra il mio bacino. Accaldata, sudata, scarmigliata.
Vergognosamente bella.
E ogni volta la allontanavo nei modi più bruschi, gettandola a terra con un colpo di mano che affondava sulle sue nivee rotondità, o afferrandola per i polsi e ribaltando la posizione, così da essere di nuovo sopra di lei. A volte mi sorrideva, incoraggiante. Mi sembrava di essere un allievo che ha eseguito bene una mossa prestabilita, che ha ubbidito al maestro.
Finché d’un tratto ha smesso di giocare.
Eravamo di nuovo a terra, e io la trattenevo premendole una mano alla gola, mentre con l’altra avevo riconquistato le armi. Raflesia aveva entrambe le mani libere.
Le è stato sufficiente un istante per affondarmene una fra i capelli, aggrappandosi con l’altra alla mia schiena. Mi ha tirato leggermente verso di lei, sollevandosi al contempo verso di me. E le mie labbra sono state sue. Suo il mio respiro affannato, ogni angolo della mia bocca.
E mentre lei si prendeva ciò che voleva io facevo altrettanto, dando battaglia alla sua lingua, affondando ripetutamente in quella cavità umida. Era un assalto predatorio al quale lei rispondeva con le unghie e con i denti, mordendomi le labbra, graffiandomi la schiena.
Trasformandosi in un rampicante irto di spine.
Le gambe intrecciate contro il mio sedere, le braccia strette contro la schiena, è riuscita ad aderire il più possibile a quel corpo che si era faticosamente conquistata. Il mio sesso era ormai scivolato contro il suo e io riuscivo a percepire con chiarezza la sua calda intimità. Un brivido mi scosse a quel contatto. Questa vicinanza piena di ardore e furia non era ciò che volevo.
Ubriacato dai suoi baci, lottai per staccarmi da lei, sciogliendomi dalle sue spire.
La guardai. Il suo volto, solitamente sempre pallido, era arrossato come se su lino candido fosse caduto del vino. Una feroce voluttà ne aveva mutato un poco i tratti e il suo sguardo era meno duro, gli occhi meno fieri, le labbra più turgide e vermiglie.
Raflesia sorrise prima di afferrare la spada che era caduta accanto a lei. Mi colpì a un fianco con forza, facendomi gridare. Scivolai di lato, e allungai una mano per afferrarla. Troppo tardi. Lei era già in piedi sopra di me.
Non aveva alcun ritegno, alcuna vergogna nel mostrarsi e io, che non potevo rischiare di toglierle gli occhi di dosso, non avevo quasi più nulla da immaginare di quel corpo.
Sollevò appena la spada e mi posò l’estremità sotto al mento, costringendomi ad alzare di più il viso. Mi accarezzò con la Gravity Saber. Era un tocco così freddo sulla pelle troppo accaldata e io detestai me stesso. Mi detestai per averla desiderata, e perché la desideravo ancora.
Afferrai veloce la lama e la tirai verso di me con uno strattone deciso.
Raflesia mi cadde addosso con un grido, una mano che si appoggiava contro il mio petto, mentre con l’altra si aggrappava alla schiena, saliva fino alle spalle e di nuovo le artigliava.
Ignorai il dolore, mi bastava avere il possesso della spada.
Ma a lei non importava. Non gliene era mai importato niente, fin dall’inizio.
Era stato anche quello solo un gioco, un gioco che avevamo condotto da svegli.
E adesso, che aveva ottenuto ciò che voleva, le bastava prendere commiato. Così si accomodò fra le mie gambe, tornando a baciarmi ancora, facendo scivolare un’ultima volta la destra giù dal petto e fino al pube. E mentre ci giocava, con la lingua mi penetrò a fondo nella bocca, costringendomi a respingerla di nuovo con la mia.
Ma proprio nel momento in cui cercavo di liberarmi dai suoi baci, pensavo a ben altro che a mandarla via. Che pensiero inconfessabile fare l’amore con lei!
La Gravity Saber scivolò a terra e io lasciai che Raflesia la raccogliesse.
Si rialzò, stringendola al petto, coccolandola fra i seni.
Indietreggiò, un passo dopo l’altro, allontanandosi da me. Sorrise, un guizzo freddo e divertito negli occhi di giada, prima di scomparire nel buio della cabina poco illuminata.
Rimasi a fissare quel punto mentre anch’io mi rimettevo in piedi.
Era stato solo l’inizio, quello. Un assaggio. La prima di altre notti che non potevo ancora immaginare.
Perché lei sarebbe ritornata per riportarmi la spada.
   
 
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