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Autore: ellyb1611    18/09/2017    5 recensioni
Una giovane donna, manager di successo . Una notte con uno sconosciuto che le cambierà per sempre la vita, fino alla scoperta del “vero” amore eterno. Che va oltre l’amore tra due persone.
Questa storia partecipa alla “sfida dei cliché” indetta su FB. La mia consegna chiedeva questo: A si risveglia improvvisamente all’interno di una stanza d’albergo tra le lenzuola di un letto matrimoniale. Ha vaghi ricordi di ciò che è successo la notte prima. Dopo un po’ di tempo fa una visita ginecologica per scoprire perché sta poco bene.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                               Eternal love

PARTE PRIMA

Il suono metallico della sveglia mi rimbombò nelle orecchie. Senza neppure aprire gli occhi allungai la mano con la speranza di mettere fine a quella tortura.
Accidenti! Perché avevo il brutto vizio di metterla sempre così lontana? Pensai mentre a fatica cercavo di raggiungere quell’arnese diabolico.
Perché sei una donna responsabile e dedita al lavoro e quando suona la sveglia, ti costringi ad alzarti.
Ringraziai la mia vocina interiore e mi decisi ad aprire gli occhi, ma qualcosa non andava.
La testa mi girava vorticosamente e la mia bocca era arida come il deserto del Sahara. Che diavolo avevo combinato ieri sera?
Mi guardai attorno e vidi i vestiti buttati a casaccio sul pavimento. Quanto avevo bevuto ieri sera per spogliarmi in giro per la stanza? Sicuramente non poco, visto che non ricordavo neppure di esserci tornata nella stanza e soprattutto di aver dormito … completamente nuda.
Girai quasi terrorizzata la testa verso l’altra metà del letto, sincerandomi di tener chiusi gli occhi.
«Fa che non ci sia nessuno! Fa che non ci sia nessuno!», pronunciai ad alta voce mentre li riaprivo.
Vidi il guanciale sgualcito, ma non c’era traccia di un uomo o di donna, perché a questo punto poteva essere accaduto di tutto.
Sospirando per il sollievo, mi decisi ad alzarmi convinta che ieri sera l’unica cosa che avevo combinato era stata alzare un po’ troppo il gomito.
Trascinandomi arrivai al bagno, mi guardai allo specchio e quasi trasalii. Il perfetto trucco di ieri sera era spalmato su tutta l’area del mio viso, dando origine a delle vere e proprie opere astratte. Mi buttai sotto la doccia e dopo poco più di mezz’ora ero tornata nuovamente me stessa.
Indossai un abito comodo per il viaggio in aereo e controllando di non aver lasciato nulla in camera, scesi nella hall.
L’hotel era davvero uno dei più lussuosi che avessi mai avuto la fortuna di vedere. La grande hall aveva tutt’attorno dei comodi divanetti di velluto rosso che contrastavano con l’oro del grande lampadario che pendeva al suo centro.
Dopotutto essere una manager aveva i suoi vantaggi, pensai avvicinandomi al banco della Reception.
Un giovane uomo di bell’aspetto con cui la sera prima avevo scambiato qualche parola, mi accolse con un sorriso cordiale.
«Buongiorno Miss Logan. Spero che il soggiorno sia stato di suo gradimento», disse sorridendo sornione.
«Al di sopra di ogni aspettativa … Tim», risposi cordialmente cercando di ricordare il suo nome in quella nebbia che gli eccessi della sera prima avevano inevitabilmente creato nella mia testa.
Mantenendo lo stesso sorriso di poco prima mi consegnò la ricevuta e mi salutò cordialmente. Mi parve quasi di sentire una leggera carezza sulla mia mano, ma mi tolsi subito dalla testa il pensiero di quel gesto indubbiamente poco professionale.
Presi il mio bagaglio e gli girai le spalle per avvicinarmi all’uscita.
«Miss Logan …», sentii la voce di Tim che richiamava la mia attenzione.
Forse avevo dimenticato qualcosa sul banco della Reception.
Mi voltai e lo vidi porgermi un biglietto. Lo guardai dubbiosa pensando che forse l’impressione di poco prima non era del tutto errata.  Tim dovette leggermi nel pensiero perché subito dopo ritrasse la mano.
«No Miss Logan …», cominciò visibilmente imbarazzato, «… non è da parte mia. Il suo accompagnatore di ieri sera mi ha chiesto di lasciarle questo messaggio».
Il mio accompagnatore di ieri sera? Non avevo nessun accompagnatore? O forse sì!
 Guardai Tim e abbassando lo sguardo per evitare che mi leggesse la vergogna negli occhi lo ringraziai e presi quel foglietto infilandolo nella tasca della giacca.
 L’avrei letto più tardi solo per capire di cosa diavolo stesse parlando.
Fortunatamente non c’era traffico per le strade di Miami, osservai dal finestrino del mio taxi le lunghe spiagge di colore bianco iniziare a popolarsi di giovani uomini e donne alla ricerca di un meritato relax.
Pensai che se mai avessi deciso di concedermi una vacanza sarei di certo tornata qui. Abbassai il finestrino e inspirai l’aria salmastra tipica delle zone di mare, prima di perdere di vista l’oceano.
Arrivata in aeroporto e, dopo aver eseguito le formalità d’imbarco, salii a bordo del Boeing che mi avrebbe ricondotto a casa. Non avevo dimenticato il messaggio dallo sconosciuto accompagnatore, ma fortunatamente avevo imparato a tenere a bada la mia curiosità e avevo rimandato ulteriormente la decisione di leggere il messaggio che Tim mi aveva consegnato.
Eravamo quasi giunti a destinazione quando mi decisi che finalmente era giunto il momento di estrarlo dalla tasca della giacca.
Titubante lo rigirai tra le mani più volte prima di decidermi ad aprirlo e scoprire così il suo contenuto.
Il dubbio che fosse accaduto qualcosa di sconveniente mi turbava.
Che cosa ricordavo della sera prima?
Ero stata a quel convegno sul “Budgeting & Manager Decision” e a parte il signore anziano seduto accanto a me non avevo scambiato parola con nessun altro e dubitavo che l’accompagnatore misterioso fosse quel simpatico nonnino.
Dopo il convegno, insieme con gli altri, ci spostammo al ristorante, dove era stato allestito il buffet.  Parlai con qualche collega e trovai alcuni potenziali clienti cui ricordavo di aver lasciato un mio biglietto da visita.
Ricordavo anche di essere tornata in hotel e di essermi seduta al bar per ordinare una tisana prima di andare a dormire. Avevo scambiato qualche parola con Tim prima che montasse di turno e lo avevo trovato davvero brillante trascorrendo così un finale di serata davvero piacevole.
E poi?
 Poi mi arrivò una telefonata da mia madre che come sempre non perse l’occasione di rimproverarmi che a trentacinque anni suonati ancora non avessi trovato un uomo, che aveva il timore che diventassi una vecchia zitella acida, che voleva fare la nonna …
È stato dopo aver chiuso con lei che Tim, ignaro ascoltatore dell’ennesima scenata di mia madre, ordinò per me qualcosa di decisamente più alcolico prima di congedarsi con un sorriso.
E se fosse stato Tim il misterioso accompagnatore? Allontanai immediatamente quel pensiero da me. Tim aveva iniziato a lavorare e di certo non si sarebbe allontanato dalla postazione neppure per “salvare” una povera donna che aveva affogato le sue frustrazioni in un bicchiere di troppo.
Aprii finalmente il biglietto ormai spiegazzato nelle mie mani.
“ Ho trascorso davvero una bella serata. Spero di incontrarti nuovamente. J.”
J.
Chi diavolo era questo J.?
Con la mente tornai nuovamente a ieri. Con chi avevo parlato? Con Tim, con il barista del locale di cui non ricordavo il nome e con …
Fu allora che mi tornò in mente quel ragazzo dall’aria annoiata che mi fissava dall’altra parte del bancone.
Come si chiamava? James? No, non era James … Jack forse … mi maledissi per aver bevuto tanto. Odiavo perdere il senso della ragione, ma parlare con mia madre mi faceva da sempre questo effetto.
Ricordavo di aver parlato con questo ragazzo per diverso tempo, chissà forse lo avevo pure annoiato con le paranoie che puntualmente mi faceva venire mia madre. Possibile che poi avessimo deciso di combinare qualcosa?  No davvero! Il messaggio non lasciava intendere niente di quel genere, forse avevamo solamente parlato e forse mi ha accompagnato nella mia stanza … ma ero più che certa che non fosse entrato. E poi che senso avrebbe avuto lasciare il biglietto in reception se fosse entrato in camera mia?
Più ci pensavo, più mi convincevo che non fosse accaduto nulla. Riposi il pezzo di carta nella giacca mentre l’assistente di volo ci disse gentilmente di allacciare le cinture.
Ero finalmente tornata a casa. Da domani sarei tornata alla mia vita e questo J.  chiunque fosse, sarebbe stato solo un lontano ricordo.  

PARTE SECONDA

«Sembri appena uscita da un film Horror, Lizzy!», esclamò Sharon la mia collega e amica fidata.
«Buongiorno anche a te Sharon», dissi storcendo il naso.
«No davvero Lizzy …», continuò avvicinandosi, «… sei pallida come un cadavere. Sei sicura di stare bene?»
«Sono solo un po’ stanca.», la tranquillizzai, «E ho un po’ di nausea tutto qui!».
«Non dirmi che hai ordinato ancora cibo d’asporto da Chen», mi ammonì.
«Non capisco cos’hai contro Chen… i suoi involtini primavera sono una delizia», mi difesi, anche se sapevo che lei, salutista convinta non condivideva per niente il mio stile di vita poco … sano.
«Lo sai che finirà con l’ucciderti!», esclamò porgendomi una tazza di caffè.
«La solita esagerata! Un po’ di cibo…», non finii la frase perché non appena l’aroma del caffè giunse al mio naso la nausea divenne qualcosa d’incontrollabile.
Mi alzai velocemente nella speranza di raggiungere in tempo il bagno, cosa che fortunatamente successe.
Sentivo Sharon seguirmi di corsa e tenermi i capelli sollevati mentre vomitavo l’impossibile.
«Credo di aver preso l’influenza.», esclamai non appena la nausea cessò.
«Sai …» attaccò Sharon mentre si sistemava il trucco come se nulla fosse successo, «… mia sorella ha scoperto di essere incinta perché il caffè le faceva venire voglia di vomitare».
Alzai lo sguardo impallidendo ancora di più se possibile. Incinta? Da quanto tempo non mi veniva il ciclo? Presa com’ero dal lavoro, non avevo neppure fatto i conti. E poi erano secoli che non stavo con qualcuno … intimamente.
Fu allora che mi vennero in mente il convegno a Miami, il biglietto e … J.
Sharon mi guardò senza capire.
«Tranquilla, non è il tuo caso Lizzy … sono secoli che non stai con un uomo!», esclamò.
Silenzio.
 Poi sgranò i suoi grandi occhi azzurri. «O c’è qualcosa che non mi hai raccontato?».
«No …», balbettai
«Lizzy…», disse posando le sue mani sui fianchi in attesa di sapere perché titubavo tanto.
«Insomma non lo so…», mi giustificai
«Che cosa vuol dire non lo so? Non ti ricordi di essere andata a letto con qualcuno? Magari non è stato un granché, ma io mi ricordo di tutti quelli con cui sono stata»
Le raccontai per filo e per segno quello che era successo, o meglio che mi ricordavo, durante la convention a Miami. Le dissi del biglietto e di questo J. di cui non ricordavo assolutamente nulla.
Sharon ascoltava senza parlare. Le braccia incrociate al petto e lo sguardo di chi stava già meditando una possibile situazione.
«Ecco cosa faremo.», disse dopo qualche minuto di silenzio. «Ti prendo un appuntamento dal mio ginecologo. È una persona in gamba e riservata e se costaterà che sei in dolce attesa andremo a cercare questo J.»
«Tu sei pazza!», esclamai ridendo, «Se davvero fossi incinta credi che andrei a cercare un uomo con cui ho avuto una notte di sesso e di cui poi non ricordo nulla?».
Sharon alzò gli occhi al cielo. Prese il telefono e chiamò il suo dottore.
Non potevo davvero credere che fosse possibile. Ero sempre stata attenta, responsabile. Non potevo essere stata così incosciente.
«Sei fortunata.», esordì la mia amica dopo aver chiuso la telefonata, «Gli si è liberato un posto tra un’ora, quindi sbrighiamoci e andiamo a vedere cosa ti sta capitando».
«Ho un sacco di lavoro da fare, la riunione della prossima settimana …».
«Oh avanti Lizzy! Sei l’amministratore delegato della compagnia e lavori più di tutti gli altri. Prenditi un giorno di malattia e non accetto un “non posso” come risposta.», mi minacciò bonariamente Sharon.
Sapevo che aveva ragione, ma avevo paura di quello che avrei scoperto.  Se davvero fossi stata incinta? Cosa ne sarebbe stata della mia vita? Della mia carriera? Sospirai e alla fine acconsentii ad andare dal medico. Prima avrei scoperto la verità prima avrei messo fine a questa storia.
Mezz’ora dopo era nella sala d’attesa dell’ambulatorio del DR. Robinson. Le pareti verdi chiare davano un senso di tranquillità e se non fosse stato per le tante donne con pancioni enormi, avrei quasi finito per dimenticarmi di questa brutta storia.
«Miss Logan»
La segretaria del dottore mi chiamò, Sharon mi fece coraggio e mi avvicinai alla porta, dove la giovane donna che mi aveva appena chiamato mi aspettava.
«Si accomodi pure Miss Logan, il DR. Robinson sarà subito da lei».
Sorrisi senza dire nulla e mi accomodai sulla poltrona davanti alla scrivania di legno massiccio.
Le pareti erano decorate da numerose targhe di cui il DR. Robinson era stato insignito. Senza dubbio era un ottimo professionista e la cosa mi tranquillizzò maggiormente.
Pochi istanti dopo fece il suo ingresso un uomo distinto dai capelli bianchi e da baffi dello stesso colore. Si sedette alla scrivania e bonariamente mi guardò da sopra gli occhiali.
«Buongiorno Miss Logan», salutò porgendomi la mano, «Allora se non le dispiace prima di visitarla vorrei farle qualche domanda.  Così da valutare il suo stato di salute»
Annuii e lui iniziò a interrogarmi. Mi chiese se avevo mai avuto dei problemi ginecologici, se in famiglia c’erano stati casi di tumore all’utero e via dicendo. Solo quando giunse alla fatidica domanda, mi bloccai.
«Miss Logan … nell’ultimo mese ha avuto rapporti regolari?».
Che cosa potevo rispondergli? Non lo so? Non mi ricordo? Che figura ci avrei fatto?
Il DR. Robinson mi guardò nuovamente con insistenza, ma prima che avesse il tempo di riformulare per l’ennesima volta la domanda mi decisi a vuotare il sacco.
«Credo di sì …», risposi infine.
«Crede?», domandò senza capire il medico.
 «Miss Logan …», continuò l’uomo togliendosi gli occhiali e incrociando le mani sulla scrivania «… non sono qui per giudicare le sue scelte. Non m’interessa chi frequenta e quante persone incontra. Sono qui per vedere se ha qualche problema di salute. Non sono un moralista, ne ho viste di tutti i colori in trent’anni di attività. Non deve vergognarsi di nulla. Quello che dirà resterà unicamente in questa stanza».
La sua voce era calma e comprensiva.
«A dire il vero non lo ricordo.», feci un profondo respiro e continuai, «Lo scorso mese sono stata a Miami per un Convegno di lavoro. Dopo una serata difficile in cui credo di aver alzato un po’ troppo il gomito, mi sono svegliata completamente svestita nella mia camera d’albergo. Non c’era nessuno accanto a me, ma alla reception mi hanno consegnato un biglietto da parte di un accompagnatore di cui non ricordo assolutamente nulla.».
L’uomo ascoltò senza pronunciar parola. Ed io continuai.
«Quindi sì, a questo punto potrei aver avuto dei rapporti completi con qualcuno.».
Annuendo comprensivo il Dr Robinson mi fece accomodare. Mi spogliai del superfluo e mi accomodai sul lettino.
Delicatamente mi visitò e mi tranquillizzò sul fatto che non c’era nulla di grave, nessuna cisti o altro.
Poi sempre delicatamente mi scopri l’addome e mi versò il gel. Rabbrividii al contatto o forse era quello che avrei scoperto da lì a poco a mettermi agitazione.
Guardai il monitor, senza vedere nulla di particolare. Mi stavo quasi convincendo che l’attacco di nausea di questa mattina fosse solo influenza quando sentii qualcosa che mi fece mancare il fiato.
Un puntino sullo schermo e il rumore veloce di un battito di cuore. Sapevo già cosa avrebbe detto il Dottore.
Quel puntino era un bambino. E quel bambino stava già crescendo in me … e quel bambino non aveva neppure un padre, perché io non sapevo chi fosse.
Chiusi gli occhi cercando di trattenere le lacrime. Perché era capitato proprio a me? Perché per una volta che avevo abbassato la guardia, mi ero cacciata nei guai? Non sapevo cosa pensare, cosa fare …
Il Dr Robinson parve leggere tutto lo sconforto sul mio volto.
«Miss Logan …», esordì, «… come le dicevo prima, non sono qui per giudicarla. Tuttavia le chiedo di non prendere decisioni affrettate che potrebbero avere ripercussioni negative sulla sua vita. Pensi bene a quel che vuole fare, quando avrà le idee più chiare non esiti a ricontattarmi».
E così dicendo mi lasciò sola.
Mi rivestii con calma, quasi stessi vivendo un’altra vita.
Che cosa dovevo fare? Per la prima volta dopo molto tempo non avevo più certezze.
Uscii dallo studio e cercai lo sguardo di Sharon nella sala d’aspetto. I suoi occhi incrociarono i miei quasi subito e soavemente si alzò dalla sua poltrona e mi raggiunse.
«Allora?», chiese Sharon dopo essere uscite dalla clinica.
«Sono incinta», risposi senza guardarla negli occhi.
«E …», continuò cercando di capire cosa provassi.
«E non lo so!», esclamai. «Mi sembra di vivere in un incubo. Ho sempre creduto che alla fine avrei avuto dei figli, ma non così, non senza sapere neppure chi sia il padre.».
Sharon mi guardò negli occhi e poi mi abbracciò stretta.
«Adesso ti dirò cosa farei io se fossi nella tua situazione.», aveva lo sguardo deciso di chi la sapeva lunga e la lasciai continuare. «Primo, visto il dono che ti è arrivato dal cielo, non penserei minimamente a … ci siamo capite.».
 Annuii.
«Secondo …», continuò, «… mi prenderei un paio di settimane di ferie e tornerei a Miami. Vorrei sapere chi è il padre di mio figlio, non tanto perché vorrei una vita insieme con lui, ma per conoscere il cinquanta per cento di quello che diventerà mio figlio.».
Sospirai.
«Terzo … e se fosse l’uomo della tua vita? Che ne so … un fico pazzesco. No, proprio sarei curiosa di vederlo. E se poi fosse brutto come … beh la cosa più brutta che ti viene in mente, me ne tornerei diritta a casa sperando che non erediti nulla da lui.»
Mi strappò una risata, nonostante tutto.
Non sapevo davvero cosa avrei fatto senza di lei. Il mio bastone nei momenti bui.
«Allora cosa ne pensi?», chiese infine
Pensai che nonostante tutto avesse ragione. Quel bambino capitato così per caso era già una parte di me, l’avevo capito nel momento in cui avevo sentito il suo battito in me. Una cosa così emozionante non poteva essere brutta. Vero? E poi avevo già trentacinque anni e se non ne fossero arrivati altri? Sarei vissuta con il rimpianto di non aver visto crescere quel piccolo cuoricino.
E con il padre? Non sapevo se fosse una buona idea andare a cercarlo. Non ricordavo neppure che faccia avesse, ma sentivo che dovevo cercarlo. Non perché volessi qualcosa da lui, ma perché non volevo privarlo di questa magia cui pochi istanti prima avevo assistito.
Inspirai tutta l’aria possibile, poi prendendo le mani di Sharon che ancora mi stava guardando, pronunciai.
«Andiamo a Miami a cercarlo!»

PARTE TERZA

Nonostante fossero trascorsi poco più di cinque mesi da quando avevo calpestato le strade di Miami, tutto mi sembrava diverso. Da quando avevo scoperto di essere incinta, non facevo altro che vedere enormi pancioni, donne felici mostrare con orgoglio il piccolo che cresceva dentro di loro.
Dopo la prima visita dal Dott. Robinson ne erano seguite altre tre e ogni volta l’emozione era sempre maggiore. Ero sempre più convinta di aver fatto la scelta giusta, anche quando mia madre mi aveva per l’ennesima volta rimproverato.
«Ma insomma Elizabeth», aveva detto con quel suo solito tono di disappunto, «come hai potuto essere così stupida! Non sai neppure chi è il padre di tuo figlio. E se fosse un poco di buono? Ci hai pensato Elisabeth … cosa penserebbe la gente?».
Non la guardai neppure negli occhi. Non importava se mi ero laureata con il massimo dei voti, se a trent’anni mi avevano affidato la direzione di una delle maggiori compagnie finanziarie d’America. A lei non sarebbe mai andato bene nulla di me. Per lei restavo la figlia che a trentacinque anni non aveva ancora un marito, che era costretta a lavorare come una pazza, che aveva deciso di fare un figlio senza un uomo accanto.
Inspirai cercando di calmarmi. Riposi la tazza di te sul tavolino di cristallo e senza dire una parola mi alzai dal suo perfetto e immacolato divano, presi la mia borsa e mi recai verso l’uscita.
«Elizabeth …», chiamò stupita e anche un po’ infastidita, «… dove credi di andare?».
Mi fermai, stringendo il pugno per cercare di calmarmi.
«Lontano da qui», sussurrai e imboccai la porta d’uscita. Non volevo ascoltare oltre. Non volevo giustificarmi per l’ennesima volta a causa di un comportamento che “lei” non reputava degno. Ora stavo diventando madre e speravo in cuor mio di somigliarle per niente.
«A cosa stai pensando?», chiese Sharon riportandomi alla realtà.
«Mi stavo chiedendo se sarò una brava madre», dissi sorridendole amaramente.
«Basta che farai l’esatto opposto di quello che ha fatto tua madre e sarai perfetta», disse con la sua solita ingenuità, poi accorgendosi delle sue parole cercò di rimediare «cioè intendevo dire che se sarai un po’meno ottusa …».
«Tranquilla Sharon …», la interruppi, «… stavo pensando la stessa cosa!».
Scoppiammo a ridere e quasi non mi accorsi che il taxi era già arrivato all’hotel.
Sharon ed io avevamo deciso che quello sarebbe stato il nostro punto di partenza. Se Tim, il concierge, si ricordava di J. sarebbe stato più facile trovarlo.
Sharon avanzò decisa all’interno della hall.
«Perché a voi dirigenti danno sempre questi alberghi? A noi umili impiegati riservano solo qualche hotel di ultima categoria.», disse Sharon mentre si guardava attorno strabiliata.
«Ne farò rapporto alla prossima riunione dei vertici», le dissi strizzandole l’occhio cosa che la fece sorridere illuminando il suo viso.
Arrivammo al banco della reception e cercai con lo sguardo Tim, ma di lui nessuna traccia. Probabilmente non era di turno. Al diavolo!
Un uomo di mezza età con i capelli radi e un’espressione stanca ma cortese si avvicinò a noi.
«Come posso esservi utile Mesdames?», ci disse sorridendoci.
«Buongiorno, mi chiamo Elizabeth Logan e qualche mese sono stata vostra ospite…», guardai l’uomo che m’incoraggiò a continuare, «… ecco… io avrei bisogno di parlare con uno dei vostri dipendenti. Un ragazzo sui trent’anni di nome Tim.»
L’uomo mi guardò dubbioso poi sollevò il ricevitore dell’interfono e qualche istante dopo apparve davanti a me Tim. Il ragazzo alzò il sopracciglio come se stesse ricordando un viso che aveva già visto, poi sgranò gli occhi.
«Elizabeth Logan …», esordì, «… che piacere rivederla. In cosa posso esserle utile?», domandò gentilmente.
«Buongiorno Tim, mi fa piacere che si ricordi di me perché ho bisogno del suo aiuto».
Tim mi guardò senza capire poi il suo sguardo andò verso il basso e non dovetti aggiungere altro.
«Congratulazioni!», esclamò.
«Sì, grazie … Tim si ricorda che il giorno della mia partenza mi ha consegnato un biglietto da parte di “un accompagnatore”? domandai titubante. Lui annuì. «Ecco può darmi qualche indizio su chi è questa persona?».
«È passato molto tempo Miss Logan …»
«Oh avanti Tim …», lo interruppe Sharon, «… hai riconosciuto subito Elizabeth, di certo ti ricorderai anche chi era con lei e chi ti ha lasciato quel messaggio».
Tim la guardò, poi spostò l’attenzione verso di me.
«Josh Hiddings, qualche volta suona al nostro piano bar», disse infine sospirando.
Josh … ora ricordavo.
«Non sai, dove posso trovarlo?», dissi passando da un tono formale a uno più colloquiale. Tim si guardò attorno, poi prese un post-it e vi scrisse qualcosa in bella grafia.
«Io non vi ho mai detto niente», si raccomandò consegnandomi il biglietto in una sorta di deja-vu.
Gli sorrisi mettendo una mano sopra la sua per ringraziarlo. Lui ricambiò il mio sorriso e poi mi lasciò andare.
N.3 Coconut Grove, Miami
Lessi ad alta voce l’indirizzo, mentre il cuore mi batteva all’impazzata. Ancora pochi minuti e mi sarei trovata davanti a Josh comunicandogli la notizia che tra meno di quattro mesi sarebbe diventato padre.
Non ero più sicura che fosse la scelta più giusta, ma ormai ero giunta a quel punto e non sarei tornata indietro.
Sharon mi strinse la mano senza parlare ed io ricambiai.
Sapevo che comunque fossero andate le cose lei non mi avrebbe abbandonata.
 
PARTE QUARTA
 
Non passò molto tempo e il taxi arrivò all’indirizzo richiesto. Ci trovammo davanti ad un vecchio locale di musica blues che mi ricordava quelli visti durante uno dei miei viaggi a New Orleans.
Nonostante i ricordi offuscati di quella notte iniziavo a ricordare qualcosa di Josh. Mi aveva colpito per quel suo aspetto “maledetto”, forse proprio perché era il genere di ragazzo che mai mia madre avrebbe approvato, per poi scoprire un ragazzo di una dolcezza sconfinata. Avevamo bevuto insieme e brindato alle madri che non ci capivano e poi … poi mi ero ritrovata in dolce attesa.
Sospirai e sempre accompagnata dalla mia fedele amica, entrai nel locale.
Nonostante fosse primo pomeriggio, il locale era avvolto dal buio, quasi avessimo varcato una soglia che ci proiettò in quel mondo sospeso in un’atmosfera magica.
Non appena i miei occhi si abituarono alla penombra lo vidi. Se ne stava seduto su una sedia di legno abbracciando la chitarra come se al mondo non esistesse altro al di fuori di lei. Mi sedetti a osservarlo e provai le stesse emozioni di quella sera. I capelli arruffati gli scendevano sugli occhi dandogli un’espressione, se possibile, ancora più malinconica.
Le sue dita si muovevano agili sulle corde della chitarra da cui proveniva un suono celestiale. La piccola dentro di me si mosse dolcemente, probabilmente estasiata da quella musica.
Quello è il tuo papà pensai tra me e me osservandolo. E fu allora che lui sollevò lo sguardo, quasi avesse percepito qualcosa. Si alzò dalla sua scomoda sedia e si avvicinò a noi.
«Accidenti è carino», bisbigliò Sharon.
Annuii.
Una parte di me voleva alzarsi e scappare. Che diritto avevo di stravolgergli la vita? Avevamo trascorso una notte insieme ed ero restata incinta. Ma potevo davvero gettarlo in un incubo che non aveva chiesto?
«Scusate …», disse Josh avvicinandosi, «… il locale è …», s’interruppe nello stesso momento in cui mi riconobbe. «Elizabeth …», pronunciò dolcemente, «. che piacere rivederti».
Mi alzai a fatica e lui guardò prima la pancia e poi me.
Sospirai.
«Ciao Josh …», dissi titubante, «… mi sa tanto che dobbiamo parlare».

PARTE QUINTA

«Tutto bene?», disse Sharon mentre occupavamo posto sull’aereo.
«Benissimo!», esclamai.
«Hai fatto la scelta giusta … ora sta a lui decidere cosa fare», mi rassicurò.
Non potevo smettere di pensare a quello che ci eravamo detti.
«È quello che penso? Se non fosse mio non saresti qui vero?», disse Josh occupando posto vicino a me.
«Mi vergogno un sacco Josh, ma non ricordo quasi nulla di quella sera. Insomma fino a quando non ho scoperto di essere incinta non sapevo neppure di essere stata a letto con te», dissi vergognandomi.
«Beh questo non mi fa onore!», esclamò Josh storcendo il naso.
Strabuzzai gli occhi, non mi ero accorta di aver fatto una figuraccia.
«No, non volevo dire che non mi è piaciuto … anche se tecnicamente non lo so … insomma sono convinta che tu sia un bravo ragazzo, ma io ero ubriaca e …», balbettai.
«Tranquilla», disse il ragazzo sorridendo,«non sarebbe dovuto succedere e basta. Anch’io come te avevo passato una serata pessima e parlare con te credo che sia stata la cosa più bella che mi fosse capitata nell’ultimo periodo. È stato tutto così naturale …e bellissimo e la mattina non sarei voluto scappare come ho fatto. Ma guardami.», disse indicandosi, «Io non sono il tipo che si addice a una come te, ho avuto...paura.».
Lo presi per mano ricordando che la stessa emozione che avevo provato quella sera. Quel ragazzo così lontano dal mio mondo mi aveva per un attimo fatto sentire realmente apprezzata, non per quello che ero diventata con l’impegno e la dedizione al lavoro, ma per quello che ero sempre stata.
Fu solo in quel  momento che ricordai tutto o almeno la parte emotiva e mi scese una lacrima.
«Sei molto più vicino a me di quanto credi», sussurrai.
Josh mi guardò negli occhi smarrito. Sapevo perché ero andata fin da lui e così continuai.
«Mi spiace, non volevo che finisse in questo modo, ma è accaduto e volevo che tu lo sapessi. Non pretendo niente da te, la scelta di tenerla è stata mia e mia sarà il compito di crescerla … non so mi sembrava solo giusto renderti partecipe della cosa».
Le parole uscivano tutte d’un fiato senza lasciargli il tempo di metabolizzare la notizia.
«Non volevo turbarti o sconvolgerti la vita …», continuai.
Josh era immobile in stato di trance.
Nessuna parola.
Nessun gesto e forse, nessun respiro.
«Forse non avrei dovuto … mi dispiace», dissi infine alzandomi e ricacciando indietro una lacrima.
«È una bambina?», chiese lui mentre ero ormai vicina all’uscita.
Annuii.
«Hai già scelto il nome?» chiese ancora
Scossi la testa rendendomi conto che ancora non sapevo come si sarebbe chiamata la mia bambina. Per tutti questi mesi l’avevo chiamata “pulce” e pulce continuava a essere.
«Mi spiace Elizabeth … io non avevo mai pensato ad avere un figlio, non ora almeno. Non so se sono pronto per tutto questo. Io …»
Lo guardai sorridendo. Non ce l’avevo con lui, come avrei potuto. Ero stata io l’incosciente ed ero stata io a decidere di mettere al mondo una figlia da sola. Sapevo di aver fatto la scelta giusta, da parte mia.
Per la prima volta ammettevo a me stessa che volevo un figlio. Volevo qualcuno cui dare l’amore che mia madre mi aveva sempre negato. Non cercavo nessun uomo, nessun marito. Avevo tutto ciò che desideravo. Una bambina.
«Lo so Josh», dissi infine, «Non sono venuta qua per importi la mia scelta o perché voglio che tu ti assuma le tue responsabilità. Sono venuta qua perché quando ho visto battere il suo cuore per la prima volta non volevo privarti di questa gioia. Se e quando vorrai, sappi che la porta sarà sempre aperta. Se il destino ci ha fatto incontrare e se ha deciso di darci questo meraviglioso dono qualcosa vorrà pure dire. Sentiti libero di scegliere se e quando vederla. », conclusi lasciandogli il mio numero.
Lui mi guardò, lo sguardo triste e senza chiedermi nulla e senza darmi della pazza o della bugiarda appoggiò la mano sulla pancia. Quando la piccola si mosse lui sussultò.
«Potresti chiamarla Christine …», disse, «… è il nome della mia sorellina».
«Christine … bel nome. Lo terrò presente», conclusi baciandolo sulla guancia e uscendo dal locale.
 
«Sì, sarà lui a decidere», risposi a Sharon mentre l’aereo decollava e lasciava Miami e Josh per sempre.
 
PARTE SESTA
 
Non avrei mai pensato che fosse così doloroso.
Al corso pre-parto non erano state così esplicite riguardo ai dolori che avremmo sentito.
Urlai così forte che l’ostetrica accorse allarmata.
«Tutto bene Elizabeth?», chiese.
«No, non va tutto bene. », esclamai esasperata, «Non può fare così male … c’è qualcosa che non va!».
L’ostetrica mi sorrise dolcemente. Mi si avvicinò e mi sorresse.
«È tutto normale Elizabeth e tu sei bravissima. Tra poco conoscerai la tua splendida bambina»
Urlai ancora più forte. Ogni volta che arrivavano le contrazioni, sembrava che qualcuno mi sottoponesse a una di quelle torture medievali che si leggono sui libri. Urlai ancora e ancora e poi sentii qualcosa di diverso. Sentii qualcosa scivolarmi via.
 Sentii la mia piccola piangere e il mio cuore esplodere di gioia.
Ero una mamma. Ed era la cosa che al momento desideravo di più.
«Come si chiama questa bella signorina?», chiese l’infermiera porgendomi quel fagottino avvolto in un telo rosa, mentre mi riportava nella mia stanza.
«Christine.», dissi .
«Bel nome!», esclamò una voce dietro di me.
Mi girai di scatto e non volevo credere ai miei occhi.
Lui era qui.
Josh si avvicinò sorridendomi. Con quell’espressione che ormai associavo a lui ogni volta che mi ritrovavo a pensarlo.
Prese la piccola dalle mie mani e con delicatezza la baciò sulla fronte.
«Sono il tuo papà, piccolina … e forse non sarò quello che ha scelto la tua mamma, ma qualcuno una volta mi ha detto che il destino ci ha messi sulla stessa strada e che forse c’è un motivo perché tutto questo è accaduto. E chi sono io per non dare retta al destino?».
Josh sollevò lo sguardo verso di me. L’espressione di chi ha trovato l’amore della vita. Quell’amore che sarebbe durato per sempre.
Lo sapevo bene, perché era la stessa cosa che avevo provato io nel momento in cui quel cuoricino aveva iniziato a battere.
Indipendentemente da quello che sarebbe successo tra noi due.
  
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