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Autore: Iryael    19/09/2017    1 recensioni
Aprile 5396-PF, Veldin, Kizyl Plateau
A Lilith, dopo una penitenza finita male (ma che poteva finire malissimo) non resta che cercare qualcosa a cui aggrapparsi per arrancare senza esplodere.
A Sikşaka, dopo una serata cominciata apatica e finita dolorante, non resta che salvare il salvabile lottando contro il senso di responsabilità.
Nessuno dei due crede che si arriverà a un terzo incontro. Ignorano che, negli anni a venire, di quelli ne perderanno anche il conto.
È tempo di spacchettare i keikogi.
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[Galassie Unite | Scorci | 6 anni prima di Rakta]
[Personaggi: Nuovo Personaggio (Lilith Hardeyns, Sikşaka Talavara)]
Genere: Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ 03 ]
La giacca e il coltellino
Lilith riaprì gli occhi al trillo della sveglia. Il display segnava le 7:15 del 20 aprile. Sabato. Un ultimo giorno di tortura, poi la scuola le avrebbe dato un giorno di tregua.
Si alzò come al solito, s’infilò in bagno come al solito, e quando tornò in camera per vestirsi... incappò in una giacca piuttosto vecchia. Una giacca che non era sua né di suo padre.
Una dodicenne qualunque avrebbe messo la testa fuori dalla porta e avrebbe gridato alla madre di fornire spiegazioni. Lilith, però, era sola in casa. La madre non si vedeva dai tempi del divorzio e suo padre era a fare consegne dall’altra parte delle Galassie Unite. E comunque non le servivano spiegazioni. Rivisse in pochi flash la sera precedente, e d’improvviso perse ogni voglia di uscire di casa.
* * * * * *
Raggomitolata sotto le coperte, dentro di lei infuriava una battaglia tra ragione e coscienza. Succedeva ogni volta che percepiva qualcosa di particolarmente negativo, come un voto pessimo in qualche interrogazione. In quei casi, di solito, la battaglia interna durava al massimo due minuti e si concludeva con la decisione di raccontare una balla al genitore. Un’aggressione però era su un altro livello. Non si poteva metabolizzarlo in due minuti, soprattutto non nel modo caotico con cui viveva quei momenti. E così, prima che se ne rendesse conto, erano passate le 19:00.
A svegliarla dalla sua condizione confusa fu lo stomaco, che emise un brontolio inequivocabile. Dopotutto non aveva mangiato né bevuto per tutto il giorno.
Spinta dal bisogno fisico, si allontanò dal suo piccolo rifugio di stoffa. Abbandonò la camera e scese al pian terreno. La cucina l’accolse con il familiare ronzio del frigo e l’odore di cucinato sparso nell’aria. Lo stomaco reagì subito, brontolando ancora più forte.
Dopo aver riempito a dovere la pancia, la ragazzina tornò in camera, dove si trovò di nuovo davanti a quella giacca dall’aria vecchiotta. Era appoggiata sul servomuto, proprio davanti al letto. Forse era di ecopelle. Di certo era stata conservata con la naftalina, l’odore non mentiva. Il tizio della sera prima gliel’aveva appoggiata sulle spalle prima della zuffa e poi non gliel’aveva più richiesta indietro.
Bisogna che gliela riporto.
(Bene, il primo pensiero decente della giornata!)
Com’era che si chiamava? C’era una esse...
(Una esse, eh? Dèi, che memoria di merda.)
Spero che ci sia scritto il suo nome da qualche parte.
(Improbabile. Mica è un cucciolo d’asilo. Spera in qualche documento, altrimenti hai una giacca da portare all’ufficio oggetti smarriti. O da tenere, se preferisci.)
Non le restava che controllare.
Tolse la giacca dal servomuto e l’aprì sul letto. Una tastata sommaria le fece capire che nelle tasche esterne, al massimo, avrebbe trovato degli scontrini. Passò direttamente alle tasche interne. Dalla prima tirò fuori solo uno stick per le labbra, ma nella seconda c’era una vecchia patente di guida. La ragazzina rigirò il tesserino tra le mani. La foto era sbiadita, ma raffigurava sicuramente il tizio che l’aveva tirata fuori dai guai.
Sikşaka Talavara. Avevo ragione a ricordare una esse.
(Peccato che ti mancassero tutte le altre.)
Gli occhi corsero all’indirizzo sotto il nome.
I bassifondi... – la parola rimbalzò in ogni angolo del suo cervello, procurandole un brivido lungo la schiena. Per sicurezza voltò la tesserina.
È scaduta l’anno scorso.
(Non cercare scuse. L’indirizzo può essere ancora valido.)
Posso fare un pacco e inviargliela.
(Certo, magari senza neanche un biglietto di ringraziamento. Bella stronza che sei.)
Così non dovrei scendere di nuovo laggiù.
(Quel tizio ti ha salvato la coda. Un ringraziamento di persona glielo devi.)
Girò di nuovo la patente per guardare la foto. Un ringraziamento glielo doveva, era fuori discussione. Però l’idea di tornare nei bassifondi le dava la tremarella.
Alla fine decise che ci sarebbe andata il giorno dopo. Forse.
* * * * * *
Ci volle tutta la notte prima che Lilith prendesse seriamente in considerazione l’idea di avvicinarsi al portone. E ci volle qualche altra ora prima che trovasse il coraggio di vestirsi per uscire. Ma alla fine, quando l’orologio segnava le 10:35 di domenica 21 aprile, la lombax comparve in cima alle scale, ben vestita e con una borsa di carta in pugno.
Scese le scale fino al piccolo ingresso, afferrò il pomolo del portone, e d’improvviso le venne meno il coraggio.
Non ce la faccio.
(E non ce la farai mai se non apri il portone.)
Non voglio uscire.
(Questa è un’altra storia. E comunque non vuoi nemmeno tenerti quella giacca puzzolente.)
Qui sto bene.
(Bugiarda.)
In casa sto bene.
(Sai che non è vero. Uscire è importante.)
Non voglio uscire.
(Ma riportare la giacca è giusto.)
Posso riportargliela domani.
(No, lo farai oggi. Perché domani dirai “domani” e così via. Quel tizio ha bisogno della sua giacca.)
La ragazza scoccò un’occhiata alla maniglia. “Combattuta” era un eufemismo. Dentro di lei c’era una guerra in piena regola, e l’idea di uscire di nuovo le chiudeva lo stomaco. Ad un certo punto sentì anche l’impulso di vomitare, eppure non si mosse di un passo.
Alla fine serrò le dita attorno al pomolo, con lo sguardo sofferente e i denti conficcati nel labbro inferiore. E aprì il portone.
* * * * * *
Mezz’ora più tardi, ore 11:15
Kyzil Plateau, Bassifondi est
 
L’edificio davanti a lei era simile a tutti quelli che aveva intorno. L’ingresso era sottostrada, in una nicchia ben riparata dalla pithil e dalla sabbia. Dalla strada i muri si alzavano per due piani, e sul tetto si poteva intravedere il bucato che svolazzava. Per sicurezza, Lilith confrontò l’indirizzo con quello sulla patente. Per corrispondere, corrispondevano.
Fece qualche passo incerto verso il portone. Che avrebbe fatto se ad aprirgli fosse stato un tizio completamente diverso? E se fosse stata una donna? Che gli avrebbe detto? “Scusi, sa, ieri suo marito/fratello/zio/cugino mi ha salvato da un ubriaco con brutte intenzioni...”
Già mentre lo immaginava le orecchie scesero per l’imbarazzo. No, non poteva andare bene una frase del genere. Magari poteva fingere di aver trovato la giacca, mollarla e andarsene. Sì, suonava come un ottimo piano. Prima, però, doveva suonare il campanello.
Suonò una volta sola, brevemente, sperando che non ci fosse nessuno. Invece qualcuno c’era, lo capì dai passi che udì all’interno. Si rassegnò ad una colossale figuraccia mentre la sua coscienza, nel profondo, le suggeriva che sarebbe stata una cosa breve e liberatoria.
 
Alcuni interminabili secondi più tardi il portone si aprì, e Lilith si trovò davanti un lombax dal vello del colore della iuta, con le striature scure e le iridi color ruggine. Non aveva dubbi che fosse il suo salvatore.
«Ah...buongiorno...» balbettò. «Sono venuta a riportarle la giacca.»
L’altro aggrottò le sopracciglia, sinceramente stupito. Aveva riconosciuto la chioma rossa e il vello biondo, e non credeva che la ragazzina si sarebbe avventurata così presto nei bassifondi.
«Molto gentile da parte tua» rispose. «Come hai scovato l’indirizzo?»
Lilith scattò come una molla. «Sì, certo, che scema.» Si frugò in tasca e tirò fuori la patente scaduta. «Era nella giacca» disse, porgendogliela assieme alla borsa di carta. Sikşaka guardò il tesserino con un misto di sorpresa e sollievo.
«Ah, ecco dove l’avevo lasciata» commentò, prima di farsi leggermente da parte. «Perché non entri? Anch’io ho qualcosa da renderti. E poi vorrei scambiare due parole con te.»
Una serie di sorpresa, sconcerto e anche paura lampeggiò negli occhi di Lilith, che sussultò e s’irrigidì. Un mezzo passo indietro le venne istintivo.
«È questione di pochi minuti.» cercò di rassicurarla Sikşaka. «Ovviamente potremmo parlarne anche qui, ma la signora che abita di fronte è una ficcanaso terribile.»
La ragazzina si girò e scoccò un’occhiata al fulmicotone alla residenza di fronte. Vide una tendina muoversi, e nella sua mente esplose un coro di improperi.
Una volta in casa lo seguì per un corridoio che costeggiava una parete vetrata. La stanza attirò subito l’attenzione di Lilith: era spaziosa, alta due piani, e completamente vuota.
Il lombax la guidò fino a una delle porte in fondo, che rivelò essere l’ingresso di una cucina. Lilith squadrò l’ambiente e le venne in mente un solo aggettivo: mignon. Tuttavia si limitò a sedere al tavolino e aspettare che l’altro le dicesse le due parole promesse. Non voleva stare in quel posto per più dello stretto necessario.
Sikşaka spense l’olovisore e la guardò dritta negli occhi.
«Prima di tutto grazie per la giacca» disse. «Immagino che rimettere piede qui ti abbia fruttato un bel po’ d’indecisione.»
Un lampo di sorpresa passò per le iridi verdissime della ragazzina. Poi, di colpo, la vena al centro del tavolo divenne molto interessante.
«Ho pensato che un ringraziamento diretto fosse meglio di una lettera» si schermì.
«Non posso negare di apprezzarlo.» breve pausa. «Come va? Ti senti meglio?»
«Sì, un po’.»
«Mi fa piacere.»
Calò un breve silenzio. Sikşaka si aspettava che la giovane dicesse qualcosa, magari anche banale, ma l’imbarazzo era evidente. Così prese in mano la situazione.
«Prima ho detto di volerti parlare... Be’, è perché l’altra sera hai fatto qualcosa che merita di essere discusso.»
Aprì il cassetto del tavolo e ne tirò fuori una barretta di metallo dai fianchi rigati. Lo sguardo della ragazzina riconobbe immediatamente i meccanismi nascosti dietro le lamine, e ancora prima di notare le lettere LH incise sulla superficie sapeva di essere davanti al suo coltellino multiuso.
«Ma questo... come fa ad avercelo..?» balbettò, stupita.
«Ieri sono tornato nel vicolo. Era per terra» spiegò lui. «Sapevo che fosse tuo perché l’altra sera, quando sono intervenuto, stavi cercando di piantarglielo in corpo.»
Le orecchie della ragazza caddero in picchiata. Non ci credeva.
«Io... ecco, non lo so... magari ho pensato di azzopparlo e telare...»
Non se lo ricordava per nulla, in verità. Faceva parte di quel pezzo di serata che aveva rimosso dalla memoria.
«Non sto biasimando la tua mossa. Anzi: la logica è buona» la rassicurò Sikşaka. «Ma l’applicazione proprio no. Chi è il tuo maestro?»
Lilith impiegò un istante ad afferrare il senso della domanda. C’erano più palestre a Kyzil Plateau: immaginò che si riferisse agli istruttori.
«Nessuno» e si strinse nelle spalle. «Non faccio combattimento.»
«Ah no?» la voce del lombax salì di tono per la sorpresa. «Allora ci sei versata, signorina.»
Lilith tornò a fissare la vena sul legno, trovando quel complimento bizzarro ma gradevole.
«Allora sono io che dovrei chiederle chi è il suo maestro. Voglio dire, lei è piovuto dal nulla e ha rigirato quel bastardo come uno straccio sporco! Se imparassi quelle mosse poi non avrei problemi nella vita.»
Sikşaka drizzò le orecchie.
«Nel senso che elimineresti con la forza chi ti dicesse di no?»
Lilith si sentì avvampare e, di colpo, tutta l’aria intorno a lei si scaldò. L’altro, colto alla sprovvista, riparò il volto dietro gli avambracci.
Termoalterante!
Conosceva le potenzialità di un esper con quel dono. Apparentemente non erano nulla di che, ma nelle giuste condizioni potevano essere molto insidiose. E la ragazzina le aveva rilasciate senza pensarci due volte.
Lilith ritirò la sua abilità in fretta. «Cavoli, non volevo! Dico davvero! Mi è presa male e... e ‘sti giorni non lo controllo tanto bene» balbettò a mo’ di scusa.
«Non è niente...» si guardò rapidamente intorno per controllare. «Non è successo nulla. Dicevi?»
La ragazzina impiegò un istante per recuperare il filo del discorso. La figuraccia le stringeva lo stomaco peggio di un’interrogazione imminente; trovare le parole adatte a spiegarsi si fece più difficile.
«Io non dicevo in quel senso. Non le userei con chi dice no, ma con chi mi maltratta.»
“Maltrattare” era senza dubbio un concetto ambiguo, ma Sikşaka dubitò che intendesse il suo senso più manipolato. Poco prima s’era indignata veramente tanto.
«...è un’idea comune, la tua» concesse. «Ma, se la metti in termini di autodifesa, allora va bene.»
«Posso sapere che tipo di arti marziali fa?»
«Si chiama arte delle lame. Però so cosa stai pensando, e devo avvisarti che non fa per te.»
La voce della ragazzina si fece delusa. «Ha detto che ci sono portata, però.»
«Sei versata al combattimento» la corresse lui. «Ma per imparare l’arte delle lame bisogna conoscere a fondo le basi delle arti marziali. Se vuoi cominciare, parti con qualcosa di tradizionale come l’aikido o la nabla hai.»
Nella mente di Lilith si delineò subito una scala delle priorità. «Quanto ci vuole per imparare le basi?»
L’ingenuità della domanda strappò un sorriso al padrone di casa. «Mesi, o forse anni. Dipende dallo studente.»
Facciamo mesi. – decise Lilith fra sé. «E dopo dove posso andare?»
«Credo che la scuola più vicina sia ad Asteroid City. Intanto, però, comincia qui. So che hanno dei buoni corsi base.»
Asteroid? – pensò con sconforto la ragazzina. C’era un’ora di volo fra Kyzil Plateau e la città. Sarebbe stata una rottura di palle enorme. – Vabbé, c’è comunque il corso per le basi. Poi vedrò.
* * * * * *
La prima cosa che fece, una volta rientrata a casa, fu una ricerca in rete. Sikşaka le aveva consigliato l’aikido o la nabla hai, per cui puntò direttamente a quelli. Quando vide i prezzi della palestra, però, si sentì frenare. Tre lezioni a settimana costavano uno sproposito. Al massimo se ne sarebbe potuta permettere una, e comunque avrebbe dovuto parlarne a suo padre. Parlargliene e spiegargli il perché di una simile decisione.
Si sentì tornare al punto di partenza. Scoraggiata, si afflosciò davanti alla tastiera e strinse i denti.
Come poteva raccontargli cos’era successo? Con che parole? E dirgli che l’aveva fatto per una stupida sfida persa, per di più!
No, no, doveva puntare a una balla. Meglio convincerlo che aveva deciso di cominciare a fare sport sul serio. Sì, poteva funzionare.
Andò a prendere il chatter.

 

   
 
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