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Autore: Willow Gawain    21/09/2017    0 recensioni
In un futuro in cui le protesi sono all’ordine del giorno, un ragazzo che ha visto morire la madre scienziata rifiuta qualsiasi cosa sia artificiale. Quando la sua mente viene definitivamente spezzata dallo stress post-traumatico, lo psicologo che si prende cura di lui cerca di convincerlo a tentare un’operazione che potrebbe salvargli la vita.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autrice:

Mi sembra giusto dare un minimo di spiegazioni a chi dovesse ritrovarsi a leggere questa shot, dal momento che, per vari motivi, ho preferito limitare l’azione interna ai due soli protagonisti, senza dilungarmi in approfondimenti sull’ambientazione.

In un futuro in cui le protesi sono all’ordine del giorno, un ragazzo che ha visto morire la madre scienziata rifiuta qualsiasi cosa sia artificiale. Quando la sua mente viene definitivamente spezzata dallo stress post-traumatico, lo psicologo che si prende cura di lui cerca di convincerlo a tentare un’operazione che potrebbe salvargli la vita.

Uno dei due personaggi, Giles Morgan, compare inoltre in Twisted Mind, l’ultima long che ho postato su questo sito. Questa shot è comunque da considerarsi una AU.

 

Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Humans +” a cura di Fanwriter.it!

Numero Parole: 979

Traccia: 13. “L’essenziale è invisibile agli occhi.” (Il piccolo principe)

 

 

SHUTDOWN

 

«Non possiamo più aspettare. Stai morendo.»

Una sentenza di morte che non ammetteva ulteriori repliche.

Fredde e contrite, quelle parole penetrarono il silenzio come un sasso lanciato in un lago, e allo stesso modo lasciarono spazio solo ad altro silenzio.

Avevano combattuto l’uno contro l’altro, senza darsi tregua, per mesi: da un lato il morituro, Ael, i cui occhi azzurri sembravano di giorno in giorno sempre più simili a pozzanghere opache di fango; dall’altro lato lui, Giles, la persona che lo costringeva a vivere.

Non aveva neanche accettato il ricovero ospedaliero, Ael, perché gli ospedali lo terrorizzavano. Aveva trascorso i primi anni della sua vita nascosto dietro il camice di una geniale madre scienziata, attraverso la quale aveva visto come il potere avveleni la mente e come giocare a fare dio distrugga l’anima. Quando, infine, l’inevitabile era accaduto ed Ael era rimasto solo, aveva giurato a se stesso che quel mondo non avrebbe avuto anche lui.

Non si sarebbe certo rimangiato ora le sue parole, anche se significava che non avrebbe visto il sole levarsi.

«E allora?» sussurrò, tanto stanco da faticare ad articolare poche parole.

Non riusciva a racimolare abbastanza coraggio da distogliere gli occhi dal soffitto bianco e posarli su Giles, fermo innanzi alla finestra.

L’uomo lo redarguì, con voce graffiante «Smettila di far finta di non capire.»

Sapeva benissimo quali fossero i pensieri che affollavano la mente di Giles. Lo conosceva bene, ormai: stava pensando a sua sorella morta, mentre con lo sguardo vagava perso sullo skyline della città imbruttita dalla pioggia scrosciante.

Gli dava le spalle, ma Ael riusciva a immaginare senza difficoltà l’espressione di rabbia trattenuta sul suo volto.

Aveva perso Fanny e ora non accettava di perdere anche lui. Del tutto comprensibile, almeno da un punto di vista logico. Se gli avessero chiesto di individuare l’emozione corrispondente, avrebbe detto sofferenza senza pensarci due volte, ma anche senza capire il reale peso di quella parola.

«Perché dovrebbe importarmi se muoio?»

«A me importa.»

Sentirgli pronunciare quelle parole, ammettere senza alcuna remora che gli importava di lui ebbe su Ael l’effetto di un pugno dritto nello stomaco. O forse di una pugnalata al cuore. Non lo sapeva più.

Da quando aveva perso la sua anima, le emozioni e le sensazioni si erano tramutate lentamente in un diagramma piatto: il diagramma della sua vita, che senza ulteriori stimoli scorreva inesorabilmente verso la fine.

Un’anima non era qualcosa di rimpiazzabile, nessuna protesi avrebbe potuto farne le veci, e Ael non aveva la minima intenzione di mettere piede in un ospedale.

Era testardo, Ael, ma vedere Giles stringere i pugni per poi uscire furiosamente dalla camera lo fece traballare, come se un residuo della persona che un tempo era stato si fosse risvegliato per farlo sentire in colpa. Non era da lui sentirsi in colpa, non lo era stato neanche quando aveva avuto un’anima e delle emozioni.

Si lasciò andare ad un sottile e muto sospiro, osservando Giles sparire oltre la porta. Infine, allo stremo delle forze, spostò lo sguardo verso la finestra, osservando l’impeto della pioggia che giocava col vento.

In quel mondo folle, in cui persino i cuori avevano smesso di battere per sete di vita, lui non ci voleva vivere.

 

***

 

Giles Morgan non aveva il potere di salvare vite. Non era un medico: era uno psicologo della peggior specie, uno di quelli meschini, che più di una volta si lasciano pervadere dalla carezzevole sensazione di saper esercitare del potere sulla psiche delle persone.

Eppure si era votato all’impresa di aiutare quel ragazzo problematico, talmente problematico da riuscire a distruggere l’unica parte del corpo che l’umanità non era in grado di ricreare.

Dopo notti insonni e ricerche interminabili, aveva rintracciato una scienziata disposta a tentare una disperata operazione all’amigdala, la parte del cervello addetta al controllo delle emozioni. “La sua anima”, come la chiamava Ael. Un flebile ma luminoso raggio di speranza, che era stato condannato alle tenebre dall’irremovibile volontà dello stesso ragazzo: aveva scelto di morire lentamente in un letto, in una cupa notte di tempesta.

Giles aveva fatto del suo meglio per salvarlo, e invece avrebbe dovuto assistere al suo funerale. E questo trasformava ogni fibra del suo corpo in frustrazione.

 

***

 

Verso le cinque la porta si aprì un’ultima volta, con uno scricchiolio prolungato che ridestò Ael da un sonno ormai da tempo privo di sogni.

Prima di rendersi conto della situazione e prima che i suoi occhi riuscissero a delineare i contorni dell’arredamento, il ritmico (ed inconfondibile) incedere di Giles lo colse di sorpresa. Ma ancor più sorprendente fu vederlo procedere spedito verso di lui e, senza alcuna delicatezza, scaricare sulle sue povere gambe una custodia nera di medie dimensioni e dal peso non indifferente.

«Hey!» si lamentò il ragazzino, infastidito «Che modi!»

Giles non era delicato, ma neanche così brusco di solito.

«Non tentare la sorte, ragazzino.» rispose lo psicologo, apprestandosi a svelare ciò che era celato nella valigetta.

Fece scorrere da lato a lato la zip con un rapido movimento, e davanti agli occhi di Ael si materializzò tutto ciò che desiderava avere nei suoi ultimi momenti: il suo violino. La gola gli si seccò, trasformando in un breve mugolio incostante quel briciolo di emozione che il suo cervello riuscì ad elaborare.

Nel frattempo, Giles era tornato a guardare fuori dalla finestra e gli dava le spalle, in un dolceamaro chiudersi del cerchio. Sul vetro, Ael poteva vedere riflesso il suo volto rassegnato ma stranamente quieto: stavolta non aveva paura di guardarlo.

«Che ne dici di Danse Macabre, un’ultima volta?» propose Giles, incrociando gli occhi azzurri del ragazzo attraverso il riflesso.

Ael annuì lentamente, ricacciando in fondo alla gola lo strano fastidio troppo forte per essere ignorato, ma troppo debole per essere chiamato emozione. Le dita ossute sfiorarono lo strumento musicale con devozione, quasi fosse l’unico modo rimastogli per esprimere ciò che aveva dentro di sé.

«Danse Macabre sia.»

 

 

 

  
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