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Autore: MrsShepherd    22/09/2017    1 recensioni
Koral Hataway, è una ragazza saccente e impulsiva, forse troppo. Crede di sapere già tutto del mondo e che la vita si possa controllare con la disciplina e attraverso una conoscenza attenta della psicologia. Wellington Camp cambierà le sue convinzioni e rimetterà tutto in gioco. In un luogo dove l'etica umana viene messa quotidianamente in discussione Koral riuscirà a trovare se stessa e a capire che aspettative e pregiudizi spesso si allontanano dalla realtà.
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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5. Zenaida Areli
 
PAZIENTE 3: ZENAIDA ARELI
ETA’: 14
RUOLO: PICCHIATORE
ABILITA’: SCUDO DI OSSA
ORIGINI: LATINOAMERICANE
RECAPITI FAMILIARI: IGNOTI
Nota d’inizio: purtroppo non è stato possibile condurre una seduta in modo consono alle modalità richieste. La paziente, nonostante conoscesse bene la lingua americana si è rivolta alla sottoscritta esprimendosi solo con il suo idioma d’origine. Chiederò ai responsabili del materiale audiovisivo di poter revisionare la registrazione per poterne studiare meglio i dettagli prossemici e non verbali. Proverò ugualmente a riportare la frammentaria (e poco ordinata) conversazione inserendo le opportune considerazioni personali a fine colloquio.
 
K.H.: Zenaida sei pronta? (Z.A. si siede a gambe larghe, incrocia le braccia)
K.H.: Allora, questa è una telecamera e registrerà le nostre chiacchierate. Possiamo cominciare? (silenzio). Lo prendo come un sì. (sfoglio la cartella). Dunque, ruolo picchiatore,…abilità…wow, scudo di ossa! (Z.A. guarda fissa davanti a sé).
Zenaida, in che cosa consiste esattamente la tua abilità? (Z.A. non risponde). Che cosa guardi? (silenzio).
(attendo pochi secondi, agito una mano di fronte al suo viso per accertarmi che le pupille siano reattive).
K.H.: Non sei cieca; però sarebbe buona cosa che tu mi rispondessi. (silenzio) Sarebbe un atto di cortesia. Di solito quando una persona, un adulto ti pone una domanda è giusto rispondere.
Z.A.: (sorride e alza le spalle).
K.H.: Ti fa ridere quello che ho appena detto? (silenzio) Perché?
Z.A.: (alza gli occhi al cielo).
K.H. : (respiro profondamente) Sto cercando di COMUNICARE, Zenaida. Di fare conversazione. In fondo sono qui per aiutarti.
Z.A.: (risponde in spagnolo)
K.H.: Allora parli! Perfetto, mi sento più sollevata. Credevo fossi muta, e se così fosse stato, avrei dovuto usare altri canali di comunicazione e mi avresti messo DAVVERO in difficoltà. Ti ringrazio…
Z.A.: (mormora qualcosa in spagnolo e si agita sulla sedia)
K.H.: Sono contenta che tu abbia deciso di parlare, davvero. Purtroppo però non conosco lo spagnolo, quindi dovrai comunicare in inglese.
Z.A.: (si avvicina al tavolo, parla nuovamente in spagnolo).
K.H.: Zenaida, capisci quello che ti sto dicendo?
Z.A.: (parla in spagnolo e ride)
K.H.: Zenaida!?
Z.A.: (urla irritata in spagnolo e appoggia entrambe le mani sul tavolo, il resto del corpo è ancora nella penombra.)
K.H.: C’è qualcuno qui che capisca lo spagnolo?
Z.A.: (ride e parla)
K.H.: (mi alzo) Qualcuno di là? (silenzio) mi rispondete?
Z.A.: (appoggia le braccia scoperte sul tavolo , mi guarda negli occhi e parla in spagnolo. Nota: sospetto che reciti scioglilingua per prendersi gioco di me).
K.H.: (guardo le braccia e noto dei lividi zona bicipiti) Che cosa hai fatto alle braccia?
Z.A.: (incrocia le braccia e ritorna seduta nella posizione iniziale, si nasconde nella penombra).
K.H.: (sorrido) Allora comprendi quello che ti sto dicendo. E hai anche smesso di parlare.
Z.A.: (parole non udibili in spagnolo)
K.H.: Massì, parla pure. Non mi interessa. Non sono io che ho bisogno di aiuto qui. E poi, dovremo parlare per un anno quindi, o farai il voto del silenzio o ti deciderai ad aprire bocca. Non importa in quale lingua: vedrai che alla fine del nostro percorso insieme, riusciremo ad intenderci.
Z.A.: (parla a voce bassa, nuovamente in spagnolo)
K.H.: Penso che gli ufficiali non gradiranno il uo comportamento di oggi. (silenzio). Avrai delle ripercussioni?
Z.A.: (alza le spalle, parla spagnolo)
K.H.: Zenaida? (guardo in giro). Non importa, abbiamo ancora più di mezz’ora. Possiamo anche non dirci nulla, ma farai la fatica di rimanere qui. Come tutti i tuoi compagni.
Z.A.: (mi guarda, poi torna a fissare il muro).
K.H.: (sospiro). Se non a parlare, quantomeno a riflettere. È una buon palestra.
Z.A.: (conclude la conversazione in spagnolo. Poi smette definitivamente di parlare).
 
Nota finale: Z.A. si è mostrata DIFFIDENTE e OSTILE nei miei confronti, ma non aggressiva. Sembra restia ad accettare il mio aiuto, ma ricerca spontaneamente il dialogo. Prova di ciò che ho affermato, i continui interventi e feedback da parte mia che ricerca per mantenere la conversazione sotto il suo controllo. Nonostante comunichi in un idioma differente e sicuramente in grado di capire e parlare inglese, essendo cresciuta nell’ area 51, su suolo americano. Quindi è possibile stabilire con lei una comunicazione alla pari. Approfondire l’origine dei lividi alle braccia.
 
 
Camminiamo in silenzio: l’infermiera dai capelli rossi, l’ufficiale capo Green e collaboratori ed io. Stiamo raggiungendo la terza ed ultima arena della giornata, il sole sta tramontando, le nostre ginocchia sono gonfie per il camminare e nessuno ha molta voglia di parlare. Jacob Green prende la parola: - Bene.- dice fermandosi sulla porta di un edificio che dall’esterno pare una grande palestra. – Zenaida dovrebbe arrivare a breve.- apre la porta e allunga la mano in segno di cortesia: - Può aspettarla direttamente dentro.-
- Come? Da sola?- Jacob Green abbassa lo sguardo, per poi tornare a fissarmi. La sua bocca assume un sorriso, cortese, ma stentato. Mi tocca leggermente la spalla e mi trascina delicatamente verso il centro della palestra. Poi alza una mano, mi saluta e si allontana: - A dopo, questione di minuti.-
- Aspetti! Dove state andando?- chiedo leggermente confusa.
- Si fidi e rimanga ferma lì.-
- E perché voi non rimanete con me?- cerco di guardare l’infermiera, che però viene portata via. Non riesco più a vederla.
- Si fidi. Non le succederà nulla.-
Mi guardo intorno nervosa. Quella che chiamano “arena” non è altro che una palestra chiusa, piuttosto sobria, con pochi attrezzi. In ogni lato sono ancorati degli “spara palline”, come li chiamavo io da piccola. Li vidi per la prima volta quando a 9 anni mio nonno mi portò a vedere l’allenamento dei Washington Senators, dalla tribuna d’onore ovviamente. Noi Hataway amiamo fare le cose in grande. L’attrezzo lanciava la pallina ad una velocità che allora mi sembrava pari a quella di una Ferrari in corsa e il battitore l colpiva con la mazza, producendo un sonoro TOC, che rimbombava per tutto lo stadio. Poi siamo dovuti andare via, per un allarme bomba. Lo stadio esplose alla fine, ma non quel giorno. Da un vetro molto spesso, posto sulla parte alta della palestra posso intravvedere Jacob Green e la piccola infermiera, lui calmo e stoico, con il suo solito sorriso, tutt’altro che tranquillizzante, lei visibilmente preoccupata. Sento il rumore di una porta che si chiude e subito mi volto per vedere chi è entrato.
- Zenaida!- Cerco di sembrare tranquilla, ma la mia voce mi appare insicura. Lei non parla e si avvicina, mi si piazza davanti e attende. È alta più di me, con le fattezze quasi da adulta; porta una canottiera elastica color avorio, che le lascia la schiena scoperta. Le sue scapole sono costellate da lividi.
- Perché hai tutti questi segni?- allungo la mano per toccarla, ma lei si ritrae, guarda verso il vetro e fa un cenno di OK con il pollice. Chiude gli occhi. Faccio un passo indietro.
Comincio a sentire una serie infinita di scricchiolii che mi fanno rabbrividire, come una biglia di vetro che cade su terreno asfaltato, come migliaia di ossa spezzate. La sua schiena comincia a stortarsi e deformarsi, quasi fosse posseduta; le sue scapole si muovono avanti ed indietro a scatti. Mi inginocchio a terra e copro gli occhi con le mani. Decido di riaprirli quando gli scricchiolii sono terminati. Zenaida ha già sfoderato la sua abilità: dalle scapole partono due ali a forma di foglia di fico. Mi avvicino e ne ammiro sbalordita la fisionomia: no, non sono due ali, sembrano due corna di alce, ricoperte da un sottile strato di pelle ambrata, tesa come un tamburo.
Mi chiedo, cosa possano essere: forse delle scapole, troppo grandi per essere vere, ma lo sono.
Sento un rumore sordo provenire dal fondo della palestra, Zenaida preme le sue mani sulle mie spalle e mi sbatte a terra. Una pallina, due, tre , quattro, dozzine di palline, vengono lanciate dalla macchina verso di noi. Mi rannicchio e porto le mani alla testa. Zenaida mi si para davanti, si muove tracciando un cerchio intorno a me , proteggendomi da ciò che in una situazione reale potrebbe essere causa di morte certa. Rimango talmente frastornata che non mi accorgo neanche che in poco tempo la priva è finita.
- Puoi alzarti ora.- dice Zenaida seria, in perfetta lingua inglese. Non ho la forza per farglielo notare, anche perché queste “protuberanze” sulla sua schiena attirano tutta la mia attenzione.
Ed ecco che si ricontorce di nuovo: con scricchiolii sequenziali ed esperti la schiena ritorna di nuovo ad essere “normale”. La vedo ansimare e trattenere urla di dolore, forse cerca di non impressionarmi, ma lo strazio che sta provando ad ogni movimento è palpabile e percepibile anche da me, che fino ad un mese fa mi consideravo un’esperta del genere umano. Sulla sua schiena sono comparse nuove costellazioni di lividi. Decisamente, quelle non sono ali. E non c’è nulla di angelico in tutto ciò.
Qualcuno mi sussurra all’orecchio, mi volto di scatto alzando i pugni, come se servisse a qualcosa.
-Tutto bene…?- chiede il capo Green, mettendo le mani davanti al viso. Non so se è più una domanda o un’ “affermazione rassicurante” la sua.
Nessuna di noi due risponde.
 
 
Sulla navetta di ritorno, parliamo poco. Qualche ufficiale cerca di carpire qualche informazione sul mio conto, ma quando si accorge che la musica dei miei auricolari copre il suono della sua voce decide di smettere. Vorrei chiudere gli occhi e dormire, ma ciò comporterebbe spegnere la musica, per sentire se qualche soldato buontempone parla di me, o della mia figura di merda di questo pomeriggio. Così rimango sveglia e li fisso di tanto inn tanto, giusto per leggere il labiale e rimarcare a mia presenza, come se non fosse già evidente. Una donna afroamericana in mezzo a tutto questo testosterone. Magnifico. Mia madre  ne sarebbe ammaliata.
Quando arriviamo ai piedi dei dormitori dello staff, uno tra gli ufficiali che mi ha accompagnato nel pomeriggio, apre la porta dell’ascensore e mi lascia salire. Rifiuto gentilmente spiegando che ho bisogno di aria e che prenderò il prossimo. Per fortuna non mi fanno domande. Certe volte adoro la semplicità maschile e maledico quella femminile, interessata ad ogni singolo stramaledetto irrilevante dettaglio.
- Prendo anche io il prossimo.- dice (con mia sorpresa) il capo Green. Non oso obiettare e mi preparo rassegnata a sfoderare le mie doti conversative, ahimè piuttosto inconsistenti.
- Ridimmi il tuo cognome scusa,…tu sei?-
- Hataway. Koral Hataway.-
- Koral, sì giusto. Devi scusarmi, ma vedo così tante facce nuove che mi è impossibile ricordarvi tutti.-
- Non fa niente.-
- No, ora mi ricorderò.-
Sorrido ed entriamo in ascensore.
- Sai, l’hai presa piuttosto bene, tutto sommato.- sussurra lui guardando per terra.
- Cosa?-
- La prova di oggi. Qualche volta facciamo fare “esperienza diretta” ai nuovi arrivati. Giusto per far capire chi comanda.-
- Ah, beh…cosa devo dire. Ti ringrazio per l’onestà!- dico io un po’ stizzita.
- Non che io sia pienamente a favore di questa politica, ma fare il capo a volte significa accontentare un po’ tutti…sia dall’alto che dal basso.-
- E questo trattamento è riservato a tutti o solo al “sesso debole”?
- Hataway…non siamo tutti dei mostri misogini.-
Jacob Green mi guarda e fa un sorriso spento, che lascia intendere forse più di quanto dovrebbe. Rimaniamo in silenzio per un po’, attendendo il nostro piano.
- Beh, comunque l’hai pesa piuttosto bene. Qualcuno ha dato veramente di matto gli anni scorsi.-
Sospiro. – Cerco di controllarmi quando sono in pubblico.- dico quando l’ascensore si apre sul piano degli ufficiali.
- Lo vedo.- dice Jacob Green uscendo dall’abitacolo. Ridacchia dolcemente e fa un cenno di saluto con il capo: - Lo vedo.-
Appena entro nella mia stanza, un odore di chiuso penetra nelle narici, lasciandomi un sapore di stantio in bocca. Corro subito verso il bagno e vomito tutto.
Ripenso a Zenaida, alla sua schiena spezzata, alle stupide logiche di potere che governano questo posto e ho la sensazione di essere sbagliata. Una persona sbagliata nel posto sbagliato. Mi accascio inerme sul letto, senza neanche togliermi le scarpe. Mi chiedo se sia possibile sentirsi GIUSTA, autentica, senza doversi sforzare per essere sempre perfetta.
Nel posto esatto e al momento giusto.
Mi porto le mani al viso e sospiro:
- Fanculo, Wellington Camp.-
 
 
 
 
 
   
 
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