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Autore: PawsOfFire    23/09/2017    4 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Note iniziali:
Buondì ~ come sempre sono una frana quando si tratta di aggiornamenti e non riesco ad essere mai puntuale.
Chiedo umilmente perdono. In ogni caso cercherò di pubblicare almeno un capitolo una settimana sì ed una no con la speranza di riuscire ad aggiornare ogni settimana.
Ultima cosa: questa capitolo, a differenza dei precedenti, giocherà su due punti di vista completamente diversi: per facilitare la lettura ho deciso di lasciare in carattere normale la storyline cardine del capitolo (ovvero il PV di Daniel) mentre il Capitano avrà il suo specialissimo in grassetto.
Perchè è il capitano, oh. Pretende un certo trattamento (?)
Vi lascio al capitolo senza ulteriori indugi.


 

~


Tum
Tu-tum
Tum

Fischiava e strideva il lungo treno carico di soldati in licenza.
Io, Daniel Kemple, trovavo confortante il loro forte vociare. Eravamo stipati in massa, accavallati uno contro l’altro e non ce ne curavamo perché stavamo tornando tutti in patria. Se non fosse stato per i vecchi sedili di legno e stoffa sfibrata avrei pensato che si trattasse di un carro bestiame, dato lo sporco e la puzza che affliggeva tutti noi ma di cui, ancora una volta, non ci importava.
Il clima era saturo di allegria. I più parlavano col vicino, intrattenendosi come se si conoscessero da una vita. Qualcuno giocava a carte, altri dormivano.
Io leggevo Signal, pregustandomi il nuovo numero che avrei acquistato appena giunto a destinazione. Avevo questi tre giorni di libertà ad Amburgo e non avrei dovuto sprecarli per nulla al mondo. In treno ero riuscito ad ottenere il mio angolino, stipato tra il finestrino ed un grosso aviatore dal sonno rumoroso e pesante.
Cosa avrebbe potuto mai nuocere al mio sfavillante stato d’animo?

Lessi per una buona ora. Il treno si fermava spesso nelle stazioni, raccogliendo sempre più gente nonostante non ci fosse nemmeno più lo spazio per respirare.
“Kemple?”
Sussultai. Non a caso, doveva pur capitare qualche mio conoscente. Conoscevo molto bene quella voce.
“Schneider?”
“E chi altri, se non io?”
“Da quanto fottuto tempo, amico mio!”
riposi la rivista all’interno della giacca mentre lui si faceva spazio in quella panca abbondantemente occupata.
Hans Schneider era il mio grande amico fin dai tempi della sabbiera. Eravamo cresciuti nello stesso quartiere, conoscevamo le stesse persone, frequentavamo la medesima scuola, gli stessi ambienti. Lui era un più vecchio di me di un paio di anni, ma non importava.
Beh...era anche più alto di me di almeno un palmo, grosso di spalle e con occhi e capelli chiari. E, soprattutto, aveva una doppia S sul colletto della divisa che faceva di lui un membro d’elitè, nonostante la sua divisa verde muffa non fosse molto diversa dai reparti Heer.
“Hai fatto carriera” constatai, osservando distratto la sua uniforme.
“In realtà non è andata esattamente così” Schneider si accese una sigaretta, soffiandomi il fumo addosso “C’era stato un bombardamento e noi della gioventù Hitleriana eravamo stati mandati a spalare pietre. Ad un certo punto si sono presentate le SS. C’è stato un gran trambusto, ci hanno messi tutti in fila e, di noi, ne hanno preso una decina, tutti i più vecchi, ordinandoci di presentarci l’indomani in stazione. Tu eri già partito”
“Comunque” fece un anello di fumo e lo osservammo gravitare verso il soffitto, prima di dissolversi “con me sono venuti anche Baum, Bach, Kalb e Wurfel. C’era anche Herz ma una mina se l’è portato via”
“Oh”
Non c’era che una lieve nota triste nella sua voce e mi sorprese il distacco con cui annunciò la morte del nostro amico. Cristoph Herz, quello fissato con i cani…
“Ho tre giorni da passare ad Amburgo e poi tornerò in Russia. Voglio buttare tutti i miei soldi tra le puttane e l’alcool e dimenticarmi di tutto. Sei con me, Kemple?”
Deglutii, stringendo i pugni per mantenere la calma e soffocare l’imbarazzo.
“In realtà io non bevo, non fumo e non vado a prostitute. E’ nei dettami del vero soldato tedesco...”
“Che vita di merda” Schneider mi sorrise, schiacciando la sigaretta fumante con il tacco della scarpa.
“Oh, voglio vivere a lungo”
Lo sentii imprecare e scoppiammo a ridere come due idioti. Un vecchio soldato tirò fuori un mazzo di carte e ci invitò a giocare. Si passarono un po’ d’alcool, sfumazzando e cantando canzoni oscene alle quali mi rifiutavo di prendere parte.
Poi, colti tutti da una feroce sonno arretrata, ci addormentammo gli uni sopra gli altri, dimenticandoci le disgrazie che, improvvisamente, sembravano appartenere ad un altro mondo, lontano.

 

Il nostro fu un sonno piuttosto breve, ahimè.
Nel momento culmine del nostro pisolo uno schianto secco ci destò all’improvviso, facendoci cozzare gli uni contro gli altri.
Il pilota che russava accanto a me tirò fuori la Luger* e la ricaricò con uno schiocco.
“Ci stanno bombardando.”
L’arma non sarebbe servita ad un cazzo in un attacco aereo ma, in qualche modo, la sua prontezza di riflessi ci fu di conforto.
Le carrozze di testa, con noi annessi, continuarono a filare per un po’, fino a quando una seconda bomba venne sganciata ed il treno emise un raglio metallico, scardinandosi dai binari e schiantandosi fischiando contro il campo di foglie brune, rovesciandosi fumante e senza vita su un fianco.

 

~
 

“La Furia va che è una delizia” commentò Tom, intento a lucidare con certosino impegno lo scafo  colmo di schifezze raccolte durante il nostro passaggio.
“E questa merda qua?” Sbottò, sfilando dai cingoli qualcosa di bruno e puzzolente che si era incastrato sotto al carrello.
“Una lepre, Weisz”
“Ah”
grugnì il pilota, lanciando la carcassa rigida e scomposta dell’animale. Fiete, poco lontano, intravide la traiettoria di tiro e la colse al volo, prostrandola ai miei piedi con ludici intenti.
“Siamo in servizio, Herr Fiete, conservi le energie per la vittoria finale” sopirai, facendo volare il coniglio abbastanza in alto da far saltare il cane che, tutto soddisfatto, afferrò la preda a mezz’aria prima di fuggire al galoppo nella sua sottospecie di cuccia, masticando avido il cuoio infeltrito della sua vittima.

 

~
 

Era buio.
O almeno, questo fu la prima cosa che notai quando riuscii a riaprire gli occhi. Il sole al tramonto proiettava ombre lunghissime ed il treno, oramai spento, dava un sensazione di tragico abbandono. I vetri erano esplosi nell’impatto ed una buona parte dei passeggeri era stata sbalzata fuori, spargendosi grottescamente nella campagna circostante.
Ero incastrato sotto un cumulo di cose e non riuscivo a distinguere.
Intravedevo solo il finestrino e la tappezzeria giallo marcio del vagone.
Valigie, ecco cos’erano. C’erano anche dei corpi, ancora caldi, che i vivi scavalcavano senza troppa cura per provare ad uscire da quel tunnel di morte.
“Aiuto” mugolai senza riuscire a sentire la mia voce. Udivo solo un fischio doloroso ed infinito, come se le bombe non avessero mai smesso di pioverci addosso. Provai ancora a parlare e mi spaventai per essere diventato così, sordo ed impotente di fronte agli eventi.
Raccogliendo quel poco coraggio che avevo, mi sforzai di riemergere tra le cataste di cianfrusaglie che si erano ammassate intorno a me. Dovevo raggiungere il finestrino a tutti i costi.
Mi sentii così stupido per aver ignorato tutti i consigli dei veterani nella mia fottuta presunzione.
Per quanto cercassi in tutti i modi di spingermi fuori, la gamba sinistra non voleva sapere di uscire. Mi accorsi dopo, con orrore, di averne perso la sensibilità.
La paura annebbiava il dolore. Dovetti contorcermi per cercare di liberare l’arto incastrato, levando due pesanti valigie cadute dal portabagagli.
Ero finito.

~
 

“Arrivano i rinforzi!” ululò Martin correndo trafelato verso di noi.
Ci lanciammo tutti come mosche sui cadaveri fuori dal nostro rifugio, pregustandoci speranzosi allegri battaglioni umani di novellini da sbattere in prima fila, imbottiti di balle e più dediti al sacrificio rispetto a noi.
Invece, falciando i campi secchi a grandi passi fino a vedere oltre la nebbia, scorgemmo solo piccoli furgoncini da lavoro carichi di cavoli, patate, barbabietole ed acqua.
Affamati ci scagliammo sulle casse, scaricandole con velocità inaudita ma, appena ci voltammo per contemplare il vasto carico di viveri, i furgoncini erano già spariti nell’orizzonte, terrorizzati dal pericolo imminente.

 

~

 

Con uno sforzo erculeo riuscii ad uscire dal treno. L’aria fredda sferzava il mio volto, facendomi tremare. A quattro zampe, trascinando la gamba rotta, riuscii a scendere dal vagone, rotolando sulla terra morta ed il fogliame dalla brina.
Doveva essere notte oramai.
Avevo fame, sete e, soprattutto, ero spaventato. Colto dalla disperazione provai a masticare alcuni fili d’erba per idratare la mia gola, cercando di non vomitare per il gusto terribile e velenoso della gramigna.
Avrei dovuto cercare qualcosa per coprirmi, sicuramente. Il mio bagaglio chissà dov’era finito. Ovunque, disseminati per la linea, c’erano corpi.
Morti, vivi, difficile capirlo. Alcuni tentavano di sopravvivere avanzando nel buio, a carponi, e si muovevano, indistinti, come ombre.
Poco distante scorsi la figura di un cappotto. Uno bello, tipo da ufficiale. Sapevo in cuor mio che non avrei dovuto rubarlo ma...dannazione, io volevo vivere. Non avrei lasciato che il freddo ed il dolore l’avessero vinta su di me.
Mi avventai sulla figura dell’uomo, cercando a tutti i costi di strappargli quel prezioso capo di dosso. Irrigidito dal freddo, il corpo morto desisteva dal cedermi il salvifico indumento. Mi arresi con un ringhio sordo, rotolando disperato nella terra, piangendo lacrime che gelavano a contatto con l’aria.


~
 

“Weisz, lo vede anche lei, laggiù?”
“Cosa, il cervo?”
Nascosti dietro ad un cespuglio secco miravamo alla maestosa creatura che, incurante, smuoveva con lo zoccolo il terreno aspro e duro, leccando alcuni licheni e masticando umido e sostanzioso muschio.
Appoggiando saldamente i gomiti a terra caricai la carabina con uno schiocco metallico, mirando alla testa dell’animale.
Bastò un colpo. Stomi di corvi neri si levarono spaventati in volo.
Solo per un istante.
Quando capirono che il mammifero era oramai morto, avidi si lanciarono su di lui per banchettare e fummo costretti a sparare altri colpi per mandarli via.
Portammo il nostro bottino al campo. I soldati, agitati, si offrirono per ogni tipo di mansione pur di poter mettere le mani su almeno un quarto di coscia.
Ebbi più favoritismi di qualsiasi genere quel giorno che in tutta la mia vita, escludendo la storia dei conigli di qualche mese prima.
Confortati dalle luci del tramonto, accendemmo un grosso braciere e sistemammo enormi brani di carne in cottura.
Perfino il colonnello, un tipo serio e ligio al dovere, si avvicinò cautamente al nostro bel gruppo. Temevamo volesse ammonirci per il nostro stupido comportamento.
In un atto di fervido cameratismo abbandonai la cottura della coscia per inventare le migliori scuse da dire al mio superiore. I miei uomini avevano bisogno di distrazione, ora più che mai. Presto i russi ci sarebbero stati addosso, non potevamo piegare in ritirata e nessuno ci avrebbe spedito in rinforzi.
L’ufficiale ci sorprese. Si sedette malinconico su un ceppo marcio, sfregandosi le mani intorpidite dal freddo. Chiese a che punto fosse la cottura, ricordando i vecchi tempi in cui andava a caccia di fagiani.
Avevamo da mangiare, eravamo al caldo ed avevamo l’alcool. Così, ebbri di festa, banchettammo tutta la notte intonando canti molto sconci e poco patriottici,  incuranti del possibile pericolo che, peraltro, non avvenne.

 

~
 

Dovevo essere svenuto.
Non so per quanto tempo. Sapevo solo che, quando mi rialzai, non avevo ancora recuperato l’udito e la gamba continuava a farmi malissimo, nonostante avessi i sensi intorpiditi dal dolore.
Arrancai per qualche metro strisciando, mordendomi le labbra per restare sveglio.
Oramai non c’era più luce in cielo. Solo qualche malinconico puntino di sigarette accese qua e là, come lucciole d’estate.
Toccai qualcosa.
Una valigia! Preziosa e sacra valigia! Lo sforzo, estenuante e terribile, mi dava la forza di vivere. Pur mancandomi anche il fiato in gola e muovendomi di spasmi, scassinai con dita frementi la serratura, aprendo il prezioso baule.
Non c’era molto ma, quel poco, me lo feci bastare. Ero giovane e minuto, ancora in crescita dei miei diciassette anni. L’ho detto? Ho falsificato i documenti per poter servire la nazione ma non pensavo che sarebbe finita così.
Oramai non aveva più senso mentire, giusto?
Il cappotto divenne una coperta. E poi guanti, camicie, calzini. Mi addobbai come un albero di natale ma almeno non avevo più freddo.
Almeno, non tanto quanto ne avessi prima.
Soddisfatto e stremato, caddi a terra come un peso morto, lasciando che la brina mi ricoprisse come una crisalide nella speranza di poter rivedere l’alba.

 

Note:

*Luger: Pistola semi automatica.

 

   
 
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