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Autore: Adeia Di Elferas    23/09/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina respirava lentamente, standosene sotto le coperte, accoccolata contro Giovanni, che la stringeva a sé con un braccio.

Il calore della pelle del fiorentino, tersa da un velo di sudore che si confondeva con il suo, per la Contessa era una benedizione. Erano in silenzio da parecchi minuti, entrambi persi nei propri pensieri, intenti ad assaporare quel momento di completa tranquillità.

La Casina stava offrendo loro una parentesi di calma, in mezzo a un mondo in burrasca. Fuori si sentiva ancora il vento fischiare e dal camino arrivava ancora qualche crepitare indeciso del legno che ardeva, ma loro, sul quel pagliericcio che faceva da letto, si sentivano al sicuro ed estranei a ogni pericolo.

La Leonessa teneva premuto il viso contro il collo del fiorentino, restando un po' addosso al corpo snello di quell'uomo, esile, confrontato con il suo, e ogni battito del suo cuore faceva da eco a quello di Giovanni, come due tamburi che suonavano all'unisono.

La sensazione completa di pace con se stessa che avvertiva era qualcosa che le era stato estraneo per così tanto tempo che quasi non riusciva a riconoscerla. Forse, volendo essere spietatamente sincera, non era mai stata così bene nemmeno quando si chiudeva nel Paradiso assieme al suo Giacomo.

“Ancora non posso crederci...” sussurrò il Popolano, dopo ancora qualche minuto di perfetto silenzio, gli occhi persi nel fissare il soffitto di travi su cui il fuoco ormai morente del camino gettava le sue ombre incerte.

“A cosa?” chiese Caterina, stringendosi ancora di più a lui, assaporando l'odore della sua pelle e desiderando con tutta se stessa che quel momento potesse non finire mai.

“Al fatto che tu sia stata mia.” rispose il fiorentino, chiudendo un momento le palpebre e mordendosi pian piano il labbro, come se stesse rievocando tutto quello che era successo poco prima: “Fosse anche solo per stanotte, sarei a posto per tutta la vita.”

La Contessa sbuffò, quasi divertita da quella strampalata affermazione e, puntellandosi su un gomito, guardò il volto regolare e armonioso del Medici.

Gli accarezzò lentamente la fronte e poi gli diede un bacio leggero: “Sei tu che sei stato mio, non il contrario.”

Per sedare qualsiasi recriminazione, la donna lo baciò di nuovo, con più insistenza, zittendolo.

Giovanni, che aveva passato gli ultimi minuti in una sorta di stupito torpore, sentì crescere dentro di sé di nuovo il desiderio che l'aveva guidato fino a quel momento.

Imponendosi sulla donna con fermezza, seppur con un movimento molto gentile, la fece stendere sulla schiena e le disse, baciandola sul collo, poi sulla clavicola e sempre più giù: “Se vuoi, posso esserlo ancora... Manca parecchio a domani e fino ad allora non possiamo certo tornare alla rocca, sfidando la tempesta di neve e le creature della notte...”

Caterina non trovò un motivo valido per negarsi e così sussurrò, con un sorriso che le si accendeva sulle labbra, mentre il fiorentino passava le sue bellissime mani sul suo corpo: “Hai ragione, dobbiamo sfruttare questi momenti, prima che il mondo ci travolga di nuovo...”

Giovanni annuì appena e poi, mettendosi con più decisione sopra di lei, iniziò a dire: “Si qui quid cupido optantique obtigit umquam insperanti, hoc est gratum animo proprie. Quare hoc est gratum nobisque...”

“Est carius auro, quod te restituis, Lesbia, mi cupido...” intercalò la Tigre, scoprendosi a conoscere a memoria quelle parole che tante volte aveva letto nelle lunghe notti passate insonni a inseguire i suoi fantasmi.

“Restituit cupido atque insperanti, ipsa refers te nobis. O luce candidiore nota...” proseguì l'uomo, mentre la sua voce si faceva appena un soffio e poi i baci zittirono entrambi e i versi di Catullo restarono ad aleggiare nella Casina mentre l'ambasciatore e la Contessa tornavano alla scoperta l'uno dell'altra.

 

Pandolfo Malatesta sentiva le mani scosse da un lieve tremore, ma non aveva alcuna intenzione di desistere.

Aveva visto coi suoi stessi occhi Castracani portare la figlia in quel convento e uscirne da solo. La ragazza doveva essere ancora lì.

Con un buco nello stomaco che gli ricordava come da giorni non mettesse nulla sotto i denti, sfamandosi unicamente con qualche sorso di vino rubato nelle peggiori locande di Rimini, il Pandolfaccio proseguì il suo giro attorno al muretto di cinta del convento.

Doveva esserci un punto debole, per forza. Quella era una casa di religiosi, di donne, per giunta, dunque di norma non c'erano soldati. La madre superiora non avrebbe mai permesso che la presenza di qualche uomo turbasse le sue educande e le sue novizie.

Pandolfo si arrestò di colpo nel sentire due voci maschili che parlottavano, dietro l'angolo del muretto. Restò in ascolto e capì che quei due erano al soldo di Castracane e che stavano facendo la guardia proprio a quella ragazza.

Svelto e silenzioso come un gatto affamato, il Malatesta tornò sui suoi passi e infine riuscì a trovare un punto un po' più basso.

Si issò sul muro e saltò giù dall'altra parte, atterrando con una certa delicatezza, facendo solo un piccolo rumore sordo. Attraversò l'orto, immobile nel silenzio della notte e coperto di neve che andava sciogliendosi. La pappetta che si era formata, impastando neve sciolta e fango, gli bagnò le scarpe e i piedi, ma il signore di Rimini non se ne accorse nemmeno.

Il convento era immerso nel buio, eppure la tenera luna che filtrava tra le nubi permetteva al Pandolfaccio di scorgere ogni dettaglio dell'edificio che gli stava davanti.

Si chiese dove potesse essere la figlia di Castracane, ma, per quanto gettasse per aria il naso affilato e lungo come avrebbe fatto un cane da riporto, non poteva sperare di indovinarlo.

Cercando di camminare con passo felpato, il signore di Rimini riuscì infine a trovare una finestra che s'affacciava su un corridoio. La toccò un momento e si accorse con sorpresa che non era stata chiusa.

Deglutendo a fatica, si sollevò oltre il davanzale e, quando fu dentro, sentì una frenesia prendere possesso del suo corpo così bellicosa che non riuscì a governare più i propri gesti.

Folle di dolore e desiderio, mescolati in un'unica esplosiva mistura, il Malatesta andò di porta in porta, spalancandole tutte, in cerca della giovane che aveva visto il giorno del funerale di sua madre e che voleva far sua.

Spaventò una, due, tre camerate di suore e di novizie, che fuggirono per i corridoi gridando come pazze e poi, prima che potesse avvedersene, le guardie che Castracane aveva messo alla porta arrivarono dentro al convento e lo inseguirono, le spade alte e in bocca minacce e ammonizioni di ogni sorta.

Seguendo l'istinto di sopravvivenza, Pandolfo dimenticò per qualche istante la ragazza che voleva rapire e tornò fortunosamente alla finestra dalla quale era entrato.

Si gettò fuori, cadendo malamente sulla neve mezza sciolta e poi fece andare le gambe secche veloci come mai aveva fatto in vita sua e in breve, sfruttando la sua capillare conoscenza dei vicoli di Rimini, fu fuori dalla portata dei due soldati.

 

Il terreno, sotto al portale della chiesa di Santo Stefano, era macchiato di sangue e sopra la pozza stavano il Duca di Milano e i suoi assassini. Avevano i pugnali ancora sollevati, le mani imbrattate di rosso e uno sguardo folle che si specchiava in quello attonito e agonizzante di Galeazzo Maria Sforza.

Caterina sentiva il cavallo imbizzarrirsi sotto di lei, provava a tenere le redini e a gridare, ma nulla usciva dalle sue labbra.

Provò a voltarsi indietro, in cerca di aiuto, ma alle sue spalle vide solo un branco di uomini immersi nell'oscurità della sera che trascinavano in terra Giacomo, strappandolo dalle redini a cui si era aggrappato, trafiggendolo con spade, lance e coltelli, colpendolo con calci e pugni.

Incapace ormai di governare il proprio cavallo, Caterina ruzzolò giù dalla sella e avvertì il colpo contro il suolo gelido, e, quando si rialzò, si trovò nel centro di una chiesa.

Il tanfo che la pervadeva era irrespirabile e tutt'attorno a sé non vedeva altro che cadaveri disfatti, corpi di donne fatti a pezzi, gli abiti strappati e i volti resi irriconoscibili dalle percosse e dalle ferite.

Si coprì un attimo gli occhi con le mani, sopraffatta da quella catastrofe e poi, quando sbirciò tra le dita, non vide più le donne di Mordano, massacrate nella chiesa in cui avevano creduto di poter trovare la salvezza, ma bensì le segrete della sua rocca, e davanti a sé trovò un corpo esangue che in un primo momento non riconobbe...

“Caterina! Sveglia! Sveglia!” la voce di Giovanni squarciò lentamente il buio in cui la mente della Tigre si era impantanata: “Stai sognando, è solo un incubo! Svegliati!”

La donna spalancò gli occhi e si accorse di avere il fiato corto e la fronte imperlata di sudore. Le ci volle qualche minuto per calmarsi e capire che tutto andava bene e che quello da cui era appena uscita altro non era che uno dei suoi soliti incubi.

La Casina era immersa nel buio quasi totale, eccezion fatta per la tremula luce che arrivava dal camino morente. L'aria era satura dell'odore del legno che era bruciato tra le braci e della selvaggina.

Caterina fece un profondo sospiro e si aggrappò a Giovanni, che si era proteso verso di lei per svegliarla.

Cercando di tornare presente alla realtà, annusò con forza il sentore della sua pelle e si lasciò rassicurare dal suo calore, prima di riuscire a dire: “Perdonami, non volevo...”

“L'importante è che sia passato.” la fermò il fiorentino, accarezzandole lentamente la testa e chiedendosi cosa avesse sognato di preciso.

L'aveva già vista preda dei suoi incubi e più o meno lo schema era sempre lo stesso. Anche quella volta l'aveva sentita chiamare il padre, in un sussurro strozzato, poi fare il nome di Giacomo, spillare qualche imprecazione contro i francesi e poi fare il nome di Ludovico Marcobelli. Come che fossero collegate di preciso tutte quelle cose, non doveva in ogni caso essere stata una bella visione per lei.

“Vuoi un sorso di vino?” chiese il Popolano, sentendo come il tremore della Tigre si fosse placato solo in parte.

Caterina annuì in silenzio, tirandosi le coperte fin sotto al mento, mentre il fiorentino si alzava dal letto per prenderle da bere.

Dandole le spalle, Giovanni raggiunse la brocca che stava sul tavolo e afferrò il calice lasciato lì il giorno prima, versandoci il vino che era rimasto.

La Tigre cercò di distrarsi, di non ripensare a quello che aveva rivissuto in sogno. Troppe volte il suo passato le aveva angustiato le notti. Voleva concentrarsi solo sul presente.

La schiena di Giovanni era liscia e abbastanza ampia, e la luce bassa della Casina la rendeva ancora più pallida di quanto non fosse.

Quando l'uomo si volto e si mise a sedere sul letto, porgendole il calice, Caterina si tirò su, puntellandosi contro l'unico guanciale di cui disponevano, e lo ringraziò silenziosamente con un cenno del capo.

Mentre beveva, i suoi occhi corsero di nuovo al corpo dell'uomo che le stava accanto. Era rimasto scoperto, e, benché fosse nudo, non sembrava avere freddo. Stava aspettando che lei finisse di bere, per poter rimettere il bicchiere sul tavolo, prima di ricoricarsi accanto a lei.

“Cosa c'è?” chiese il Popolano, corrucciandosi appena, con lo sguardo incuriosito che seguiva il movimento continuo degli occhi verdi della Contessa.

La Leonessa scosse il capo, poi, bevendo l'ultimo sorso e ridandogli il calice, sentì il bisogno di dire quello che le passava per la mente: “Stavo solo pensando che, magro come sei, hai un fisico da ragazzo, più che da uomo della tua età.”

“E..?” la incalzò il fiorentino, alzandosi di nuovo e andando a tavolo.

Caterina arrossì violentemente. Non si era mai sentita così in imbarazzo nemmeno con Giacomo. Si sentiva come una ragazzina che non sapeva come muoversi. Sotto certi punti di vista, era tutto nuovo, per lei.

Con Giacomo, soprattutto all'inizio, si era da subito sentita in una posizione di superiorità. Era più vecchia, era più potente ed era più sicura di sé di lui. Lui era un ragazzo, aveva appena diciassette anni, ed era ancora del tutto innocente, quando si erano conosciuti. Lei era stata la prima donna, per Giacomo, e l'unica. Era stato solo suo, di nessun'altra.

Con Giovanni, invece, le cose erano molto diverse. Il Popolano era un uomo, e anche se aveva quattro anni meno di lei, non le era inferiore praticamente in nulla. Era istruito quanto lei, era responsabile e conosceva il mondo. Aveva una sicurezza in sé diversa da quella apparente che aveva avuto Giacomo. Il fiorentino sapeva quanto valeva e ne faceva una forza.

Caterina, con lui, si sentiva alla pari. E, dunque, senza la sensazione di potere che aveva provato con Giacomo, si sentiva molto più scoperte e indifesa.

Giovanni parve cogliere quella sua difficoltà, e un po' ne approfittò, permettendosi per la prima volta di stuzzicarla con l'arroganza che lei stessa diceva essere propria dei suoi conterranei.

Incrociò le braccia sul petto e si appoggiò al tavolone, inclinando la testa di lato e restando voltato verso la Contessa, senza nascondersi e senza dire nulla.

La Tigre non riusciva a fare a meno di guardarlo, anche se avrebbe tanto voluto sembrare superiore e fare qualche battuta di spirito, smorzando il tentativo dell'uomo di metterla ancor più in difficoltà.

L'unica cosa che fu capace di dire fu solo: “E niente... È una cosa che non mi dispiace affatto, se proprio lo vuoi sapere.”

Giovanni fece un sorrisetto compiaciuto e allargò di più le spalle, come un gallo che mette in mostra il proprio piumaggio, ma tutto il suo ardire si spense un po', quando la donna riprese a parlare.

Rimettendosi coricata e badando bene a restare coperta, Caterina disse: “Tu, invece sarai rimasto un po' deluso, da me.”

Giovanni si accigliò e, abbandonando la sua posa statuaria, vinto anche dal freddo, la raggiunse tra le coperte: “Perché dici una cosa simile?”

“Be'...” rispose la donna, sfuggendo il suo sguardo: “Con tutto quello che mi è successo in questi anni... Non sono più giovane, ho avuto molti uomini e ho anche partorito sette figli... Non sono più com'ero una volta.”

Serissimo, Giovanni le passò con delicatezza una mano sulla guancia e poi sul collo, scendendo sempre di più: “Tu sei una donna vera. Sei tutto quello che cercavo e che non era mai riuscito a trovare da nessuna parte.”

Caterina non sapeva nemmeno se credere a quelle parole o pensarle come il frutto di un'abile mente da oratore, ma, quando il Medici riprese a baciarla, decise di non rompersi la testa su simili dettagli e cercò di godersi quello che la notte ancora poteva offrirle.

 

Simone Ridolfi si passò una mano sul volto, cercando di togliersi di dosso un po' di stanchezza.

Voleva fare una grande impressione sulla Sforza e, per riuscirci, aveva lavorato tutta notte ai conti che lei gli aveva chiesto di sistemare. Anzi, aveva fatto anche di più, andando a revisionare le spese e gli introiti degli ultimi tempi e facendo un rapido bilancio per il futuro.

Ormai era mattina e la neve stava cadendo lenta e silenziosa sulla rocca di Ravaldino. Simone aveva passato tutto il tempo seduto alla scrivania del castellano, a consumarsi gli occhi alla luce della candela, ma ne era valsa la pena.

Recuperando tutti i suoi incartamenti, mentre in lontananza si sentivano le campane della chiesa che richiamavano i fedeli alla messa domenicale, Ridolfi lasciò lo studiolo e andò in cerca della Contessa.

Voleva mostrarle subito il suo lavoro e, se le condizioni l'avessero permesso, voleva anche farle un paio di domande, ardite, forse, ma che avrebbero dimostrato la sua attenzione come contabile e amministratore. In più, se fosse riuscito ad aggiudicarsi il posto come Governatore di Imola, gli sarebbe stato necessario capire a fondo come ragionava quella donna, in ambito economico e politico.

Cercò la Tigre per tutta la rocca, ma nessuno sembrava averla vista da nessuna parte. Anche se la Contessa era a detta di tutti sempre molto mattiniera, Simone pensò che si fosse presa la domenica mattina libera per dormire e provò anche ad andare a bussare alla porta della sua camera, ma non ottenne alcuna risposta.

Siccome la stanza di Giovanni era proprio lì accanto, Ridolfi, sconfortato, pensò che forse il cugino avrebbe saputo dirgli dove trovare la Contessa, così batté il pugno contro il legno, ma nemmeno lì trovò risposta.

Non l'aveva visto, in giro per la rocca, e dunque aveva creduto che almeno lui fosse ancora in stanza. Di certo non era uscito per la Messa, non a quell'ora, almeno. Giovanni era moderatamente religioso, ma non un fedele abbastanza fervente dall'alzarsi all'alba per correre in chiesa.

Simone restò un momento fermo sul posto, poi, colpito da un'idea improvvisa, si sentì allo stesso tempo sul punto di scoppiare a ridere e di sentirsi angosciato per quello che sarebbe successo da quel giorno in poi.

Cercando di darsi un tono, si disse che Giovanni e la Tigre non per forza dovevano essere insieme chissà dove a fare chissà cosa. Poteva essere benissimo un caso che nessuno dei due si trovasse a Ravaldino.

Così, le sue carte sotto al braccio, si rassegnò a tornare allo studiolo e attendere Cesare Feo, nella speranza che almeno lui sapesse dirgli dove accidenti era andata a cacciarsi la Leonessa di Romagna.

“Madonna Bianca, buongiorno.” salutò Simone, passando accanto alla figlia della Contessa, che stava camminando a passo svelto con una lettera stretta al petto.

La ragazzina chinò appena il capo e lo ricambiò: “Buona giornata a voi, messer Ridolfi.”, ma non si intrattenne a chiacchierare, benché il fiorentino si fosse fermato come se volesse cominciare a ciarlare, tanto per perdere tempo in attesa della Tigre.

Sperando di non essere sembrata troppo scortese, Bianca proseguì senza fermarsi fino ad arrivare nella sua stanza.

Una volta sola, chiuse con cura la porta e poi guardò la missiva. Era una lettera scritta su un pezzo di pergamena riutilizzato, probabilmente salvato tra gli scarti di qualche scribacchino. Arrivava da Imola e non era sigillata.

Bianca era riuscita a strapparla di mano a Cesare Feo nel momento in cui era arrivata alla rocca. Si era accorta del fatto che non vi fossero sigilli e aveva subito pensato che non si trattasse quindi di una lettera di Tommaso Feo o di qualcuno di simile.

Quando, poi, era stato detto al castellano che era da consegnare espressamente alla Contessa Sforza Riario, la ragazzina non aveva potuto fare altro che buttarsi, sperando che Cesare Feo non volesse comunque prima leggerla per sicurezza.

Con il cuore che batteva per l'agitazione e la paura, la ragazzina fece un profondo respiro e cominciò a scorrere le righe vergate da una mano incerta e capace di grossi errori linguistici.

Come aveva subodorato fin dal principio era una lettera del ragazzo che lei stessa aveva convinto a partire per Imola, il giovane soldato che si era vantato di aver conquistato sua madre e che avrebbe voluto fare altrettanto con lei.

Il ragazzo aveva cominciato la sua lettera con una richiesta di perdono che, se fosse stata letta dalla Tigre, avrebbe messo Bianca in guai più che seri.

Si scusava per aver cercato di sedurre 'la vostra giovane e bellissima figlia', senza dimenticarsi, comunque, di sottolineare come Bianca paresse d'accordo, in un primo momento, anzi, desiderosa di concedersi a lui.

Dopodiché, diceva di non voler tornare a Forlì, ma solo di voler avere la conferma di essere stato perdonato, perché altrimenti vivere nel dubbio lo avrebbe a lungo andare logorato.

Infine, forse con la folle idea di rabbonire a quel modo la Contessa, aveva preso qualche riga per rinverdire il ricordo della notte passata assieme qualche mese addietro.

Bianca lesse senza fare una piega il resoconto anche troppo dettagliato che il soldato si era permesso di fare e poi, con una nausea che la costringeva a continuare a deglutire per non dare di stomaco, la figlia della Tigre fece in tanti piccoli pezzi la lettera e la gettò nel fuoco.

 

Quando Caterina e Giovanni si risvegliarono, il sole era già alto e la luce, resa ancora più sfolgorante da tutta la neve che li circondava, entrava con prepotenza dalla finestra, gettando su di loro un fascio chiaro e caldo, quasi piacevole.

Benché non fosse per niente presto, l'ambasciatore e la Contessa si presero il loro tempo per svegliarsi e per mettere qualcosa sotto i denti, attaccando il formaggio e i salumi che erano ancora sul tavolo.

Si vestirono lentamente, aiutandosi a vicenda e scambiandosi di quando in quando qualche bacio e qualche frase. Una volta pronti, uscirono dalla Casina portando con sé le piccole prede che non avevano fatto in tempo a fare arrosto e andarono a prendere i cavalli.

Attraversarono la riserva stando attenti a non restare intrappolati nella neve, che in molti punti s'era fatta tanto alta da rendere difficoltosa la cavalcata.

Erano entrambi abbastanza rilassati, quando, senza preavviso, il purosangue di Caterina si alzò sulle zampe posteriori. La donna si tenne con forza al collo della bestia e riuscì a non farsi disarcionare.

Sia lei sia Giovanni si guardarono attorno, cercando ciò che aveva spaventato lo stallone e in mezzo al bianco sfolgorante e ai tronchi spruzzati di neve videro due piccoli occhietti neri che li fissavano.

Senza dire una parola, la Tigre smontò di sella e porse le redini del suo cavallo a Giovanni. Afferrò la lancia da cinghiale che aveva assicurato alla sella e avanzò circospetta, senza curarsi del gonnellone che si impantanava nella neve.

La bestia grufolò un po'. Dalle sue nari uscivano piccole nuvolette di condensa. Il suo pelo era folto e scuro e dalla bocca uscivano storte zanne ingiallite. Era abbastanza lontano, ma era chiaro che li avesse puntati.

Il Popolano avrebbe voluto fare qualcosa, ma aveva capito che Caterina non gli avrebbe permesso di intromettersi di nuovo tra lei e la sua preda. Così, pregando tra sé che tutto andasse per il meglio, restò in disparte a guardarla.

La donna si avvicinò al cinghiale fino a spaventarlo, provocandolo. Muovendo il testone con furia, l'animale cominciò a correre, a fatica e scivolando un po', con le esili zampette che a volte perdevano il ritmo della corsa.

Caterina attese che le fosse a meno di un metro e poi sollevò la lancia e, non appena l'ebbe a portata di tiro, lo colpì con tutta la sua forza nel mezzo del collo, uccidendolo all'istante.

Il Medici aveva ancora gli occhi puntati sulla sua donna, mentre lei, il volto schizzato di sangue, estraeva l'arma dalle carni dell'animale e lo controllava, esclamando: “Era un maschio... Ecco perché era da solo...” e sentì un brivido gelido corrergli lungo la schiena.

Vederla mentre con tanta freddezza e precisione toglieva la vita a un essere vivente, benché fosse solo un animale, aveva risvegliato in Giovanni un antico timore, che però aveva subito rimesso a tacere. Ormai, se ne rendeva conto con riluttante entusiasmo, non poteva più tornare indietro. A lei non avrebbe rinunciato per nessun motivo.

“Carichiamolo sul tuo baio.” propose la donna, mentre l'uomo la raggiungeva per aiutarla.

Il sangue del cinghiale aveva chiazzato la neve di un rosso scuro e l'odore ferrigno aleggiava tra la Contessa e l'ambasciatore riempiendo le loro narici e agitando i due cavalli.

Giovanni non ebbe da obiettare e, con qualche fatica, riuscirono ad assicurare la carcassa al suo cavallo.

La Contessa si ripulì il volto e le mani e poi anche la lancia. Dopo averla fatta tornare lustra come uno specchio, la riagganciò alla sella.

“Avanti, saliamo.” lo invitò Caterina, indicando con un cenno del capo lo stallone.

“Non sarà un problema farci vedere insieme? Quando arriveremo alla rocca, ci sarà pieno di gente, ormai, a quest'ora...” disse piano il Popolano, mentre, però, già montava in sella alle spalle della Tigre.

La Contessa si sporse in avanti per legare le redini del baio a quelle dello stallone, in modo da poter governare entrambe le bestie a tempo, e poi diede di tacco al ventre del purosangue per indurlo a mettersi in marcia: “Come se te ne importasse qualcosa...” sussurrò, con un breve sorriso.

Il Medici l'avvolse con le braccia, lasciando completamente a lei la guida del cavallo, e le premette il viso contro il collo: “Hai ragione, non me ne importa proprio nulla.”

 
   
 
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