Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    24/09/2017    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
---
[On going: dicembre 1941]
---
[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

142. Parole nascoste e Parole ritrovate

 

 

Italia si rimboccò il bavero della giacca sotto la gola, riparandosi da una folata di vento freddo che era soffiato attraverso i rami degli alberi, e compì gli ultimi passi lungo la stradina sterrata che imboccava i cancelli della prigione. Si immerse nell’ombra della facciata di sbarre, lunga e sottile, e i due ufficiali di guardia stazionati sotto le torrette si voltarono verso di lui, attirati dallo scricchiolare della sua camminata.

I due uomini irrigidirono, fecero scivolare i fucili ai fianchi, raddrizzarono le spalle, e unirono le gambe con uno schiocco. “Signore.” Entrambi batterono un saluto.

Italia si affrettò a sventolare la mano, mostrò un piccolo sorriso imbarazzato. “Ah, n-no...” Agitò anche l’altra mano come per abbassare le loro braccia tese verso la fronte. “Riposo, riposo.”

Gli ufficiali di guardia obbedirono e sciolsero il saluto. Uno dei due rivolse lo sguardo oltre una spalla di Italia, e scavò con gli occhi nella penombra gettata dalla vegetazione che rivestiva la stradina sterrata da cui era arrivato, come in cerca di qualcun altro. Sollevò la frontiera del copricapo, mise il viso in luce, e si rivolse a Italia con sguardo più morbido. “Non dovrebbe essere qui, signore, potrebbe essere pericoloso per lei.”

Italia annuì. “Sì, lo so.” Intrecciò le dita sul ventre, spostò il peso da un piede all’altro, e si strinse nelle spalle giocherellando con le unghie. Le mani prudevano di nervosismo, cominciarono a sudare. “Volevo solo...” Lo sguardo di Italia scivolò oltre i due uomini e valicò le sbarre dei cancelli d’entrata. Altri uomini in uniforme, armati, marciavano lungo la stradina che circondava l’edificio della prigione, due automezzi erano parcheggiati sotto le torrette di guardia, e quattro soldati stazionavano davanti alle porte. Italia tornò indietro con le spalle, i suoi occhi intristiti si riempirono del grigio delle nuvole che erano scivolate davanti al sole. Li rivolse di nuovo alle due guardie. “Lui come sta?”

I due ufficiali si scambiarono un’occhiata rapida, e quello che aveva risposto a Italia sollevò le sopracciglia, mostrò un’espressione dubbiosa.

Fu il secondo a rispondergli. “È cosciente, signore,” disse. “Ha riposato, non è riuscito a mangiare nulla, ma ha bevuto dell’acqua. Pare sia ancora molto debole per le ferite riportate.” Annuì, come per rassicurarlo. “Ma è vigile e lucido.”

Italia tornò a stringere le mani intrecciate, si punse la pelle con le unghie, e un soffio di vento lo riportò con i piedi sull’Acropoli, davanti all’ombra della bandiera morente che era stata tranciata dall’asta da Grecia stesso. “È stato lui a chiedervi di farlo uscire per recuperare la bandiera?”

La guardia annuì. “Sissignore. Quando si è svegliato siamo tutti rimasti stupiti, non pensavamo che ce l’avrebbe fatta. Ma comunque era debole, sorvegliato da quattro guardie, e disarmato.” Si strinse nelle spalle e sistemò il fucile che ricadeva sul fianco. “Abbiamo pensato che forse avremmo anche potuto concedergli un’ultima volontà.”

Italia annuì a sua volta. “Avete fatto bene. Ora però vi chiedo...” Si posò la mano sul petto e i suoi occhi riacquistarono un forte riflesso di luce. “Di concedere un desiderio anche a me.”

Le due guardie si scambiarono un’occhiata cauta, e una sottile ruga di dubbio attraversò il volto di entrambi. La prima che aveva risposto a Italia tornò a guardarlo negli occhi. “Di che cosa si tratta, signore?”

Italia inspirò a fondo, raddrizzò le spalle per irrigidire la postura, e raccolse un nodo di coraggio nel petto che fece battere il cuore più intensamente. “Vorrei vederlo.” Strinse i pugni. “Vorrei che mi lasciaste entrare nella sua cella e...” Deglutì, la bocca era secca e amara, il battito del cuore gli soffocò la voce. “Che mi permettiate di parlare con lui faccia a faccia un’ultima volta.”

La seconda guardia aggrottò un sopracciglio, si strofinò la nuca sotto il copricapo, e mostrò di nuovo quell’espressione poco convinta. “Potrebbe essere rischioso, signore,” rispose. “Se dovesse succederle qualcosa, e se lui dovesse farle del male...”

“È ancora incatenato, vero?” lo interruppe Italia.

La guardia aggrottò un sopracciglio. “Be’, sì, ovviamente, ma...”

“E ci sono comunque altre guardie davanti alla sua cella, vero?”

I due uomini tornarono a guardarsi. Fu il primo ad annuire e a rispondere. “Sissignore.”

Italia prese un altro respiro di incoraggiamento. “Allora vi prego.” I pugni vibrarono contro i fianchi, i suoi occhi brillarono di una luce più intensa e profonda. “Vi prego, permettetemi di parlarci. È,” tentennò, “è un ordine.”

I due ufficiali si scambiarono un ultimo sguardo. Uno di loro guardò alle sue spalle, squadrò una delle torrette, e di nuovo Italia. Annuì. “D’accordo.” Sollevò un braccio e fece un cenno alla guardia stazionata sulla torretta di destra. Camminò lontano dal cancello, verso le entrate laterali, e chiamò Italia con un gesto del capo. “Venga, per di qua.” Lo seguì anche il secondo ufficiale. “Però a patto che noi rimaniamo fuori dalla cella a sorvegliarvi.”

Italia annuì e accelerò per stare al loro passo. “Sì, sì, non c’è problema.” Li seguì verso l’entrata, e una soffice sensazione di sollievo gli diede l’impressione di star camminando sulle piume e non sullo sterrato. Che ci siano le guardie o che io e lui siamo completamente soli importa poco, pensò. L’importante... Chiuse gli occhi, prese un respiro di incoraggiamento, e il battito del cuore tornò ad appesantirsi. È che Grecia sia disposto ad ascoltare quello che ho da dirgli un’ultima volta.

 

.

 

Grecia passò un’altra carezza lungo la schiena del gattino pezzato che dormiva acciambellato sulla sua pancia. A ogni movimento del suo braccio, la catena allacciata al polso strusciava sull’orlo della panca su cui si era sdraiato, urtava un angolo della bandiera che pendeva verso il pavimento, ed emetteva un sottile tintinnio. Le piaghe sotto le fasce d’acciaio cominciavano a farsi più profonde. La carne viva luccicava di bianco e di rosso ogni volta che finiva toccata dal raggio di luce entrato dalla finestra sbarrata, la pelle si stava gonfiando e tingendo di viola attorno ai segni delle catene, mettendo in risalto le reti di capillari rotti. I polsi bruciavano. Pulsazioni di dolore battevano dentro la carne mangiata e contro le ossa a ogni suo respiro e a ogni fremito.

Il gattino pezzato sollevò il muso dalle zampe, sbadigliò un miagolio, si strofinò l’orecchia, e tornò ad accoccolarsi sulla pancia di Grecia, avvolto da una piega della bandiera adagiata sul fianco del padrone.

Grecia sospirò, il suo busto si gonfiò e si abbassò muovendo anche il corpicino del gatto. Girò la guancia sfregando la nuca sulla panca e rivolse gli occhi allo spazio di luce ritagliato fra le sbarre della finestrella. Una spirale di malinconia gli avvolse il cuore. Non era più uscito dalla sua cella dopo la salita all’Acropoli, e gli mancava il tocco del sole, il profumo del vento.

Passi esterni si avvicinarono, risuonarono fra le pareti dell’anticamera della cella, e anche i due ufficiali di guardia davanti alle sbarre si irrigidirono in una posa di attenti. Il gattino pezzato sollevò di nuovo il muso, rizzò le orecchie, scosse le vibrisse tastando i nuovi odori che si erano infilati nell’ambiente, e grugnì un lamento basso. Il suo corpicino irrigidì sotto la mano di Grecia, la coda prese a sventolare di nervosismo, e la pelliccia si gonfiò. Gli occhietti si accesero come lanterne.

Grecia voltò la guancia, i capelli spettinati ricaddero davanti agli occhi, filtrarono la vista rivolta alle sbarre della cella.

Altri due ufficiali attraversarono l’anticamera, si fermarono davanti alle due guardie impietrite sull’attenti, e uno di loro fece un cenno indicando qualcosa alle sue spalle. “Concedeteci una decina di minuti,” disse l’uomo appena arrivato. Una sua veloce occhiata volò all’interno della cella, verso Grecia. “Da qui ci pensiamo noi.”

Grecia sollevò un sopracciglio, scambiò un’occhiata interrogativa con il gattino pezzato che si era messo in piedi sul suo petto, e sollevò la guancia dalla panca per guardare meglio.

Le due guardie davanti alla sua cella annuirono. “Sissignore.” Ed entrambe si spostarono, si disimpegnarono superando i due ufficiali appena entrati.

Un’ombra più piccola sgusciò in mezzo ai due uomini, compì gli ultimi passetti per arrivare davanti alle sbarre della cella, e toccò il fascio di luce che tagliava l’aria depositandosi al suolo, in mezzo ai suoi piedi. Italia sollevò lo sguardo cerchiato di stanchezza e lo posò all’interno della cella, in cerca di quello di Grecia. Gli occhi lucidi di dolore finirono abbagliati dal riverbero fitto e polveroso che diede al suo viso un aspetto ancora più grigio.

Grecia corrugò la stessa espressione di ostilità e indifferenza che gli aveva mostrato all’Acropoli, e anche il gattino tornò a rizzare il pelo, appiattì le orecchie, le unghie penetrarono nella giacca del padrone, e un sottile grugnito gli attraversò la schiena, facendo vibrare tutto il corpicino. Grecia gli passò due carezze in mezzo alle orecchie e lo calmò grattandolo dietro la nuca.

Uno dei due ufficiali che avevano accompagnato Italia si portò davanti all’entrata della cella, staccò il mazzo di chiavi dalla cinta, ne scartò tre sollevando un trillo simile a quello di monetine che vengono scosse dentro un sacchetto, e incastrò la quarta nella serratura. Cri-crack! Diede una spinta alla porta, sollevò un cigolio arrugginito che terminò in un breve fischio, e si spostò per far posto a Italia. “Solo una decina di minuti, signore,” gli disse. “Non di più.”

Italia gli camminò davanti e annuì tenendo gli occhi rivolti a terra. “Basteranno.” Valicò la soglia e l’ufficiale richiuse la porta dietro di lui. Sbam! Lo schiocco metallico lo fece sussultare, pungendolo come una scossa.

I passi dei due ufficiali si portarono all’entrata dell’anticamera, si fermarono. Ci fu uno scricchiolio del cuoio degli stivali, un fruscio di stoffa, di una delle due uniformi che veniva sistemata, e il silenzio si dilatò come una bolla all’interno delle pareti della prigione.

Italia inspirò a fondo, strinse le mani sul grembo, raddrizzò le spalle, e affrontò gli occhi di Grecia, celati dalla penombra dei capelli scivolati di traverso sulla fronte e sulla guancia. Deglutì. Parlò con tono fermo ma caldo. “Ciao, Grecia.”

Il gattino pezzato grugnì un’altra volta. Piegò le zampette per appiattirsi contro il petto di Grecia, sguainò i denti bianchi come smalto, e soffiò contro Italia. Grecia tornò a posargli la mano sulla testolina, gli strofinò la pelliccia dietro le orecchie, e il micio ritirò le unghie, rilassò i muscoli irrigiditi di tensione.

Grecia girò la guancia senza alzarsi dalla panca, rivolse quell’espressione stanca e annoiata a Italia. Sbatté lentamente le palpebre. “Ciao, Italia,” gli rispose con tono pacato. Un soffio morbido nell’ambiente polveroso e umido della cella. “Cosa fai qui?”

Italia guadagnò un altro sospiro di incoraggiamento. “Sono,” esitò, “sono venuto a...” Sfregò le mani fra loro, le dita cominciavano a sudare, e spostò il peso da un piede all’altro facendo scricchiolare le suole sul cemento. “Ad assicurarmi che stessi bene,” mormorò. “E a parlarti.”

Grecia sollevò un sopracciglio. Il suo sguardo scivolò oltre il profilo di Italia, si posò sulle schiene dei due ufficiali fermi sull’attenti nell’anticamera della cella, e tornò a guardarlo in viso. “Germania sa che sei qui?”

Italia rabbrividì. Scosse il capo tenendo le labbra strette.

Una sfumatura di delusione attraversò lo sguardo di Grecia, gli fece abbassare gli occhi al pavimento. Anche lui sospirò, sollevando e abbassando il corpicino del gatto appollaiato sul suo torso. “Che peccato.” Grecia raccolse il gattino pezzato e lo appoggiò sulla panca, accanto alla bandiera della sua nazione che aveva raccolto al volo. Scivolò sul fianco, spostando il rumore di catene che luccicavano d’argento ogni volta che sfioravano il fascio di luce proveniente dalla finestrella. Piegò i gomiti contro la panca, raccolse le ginocchia al ventre, e i piedi allacciati alle due morse di metallo tremarono di dolore assieme alle spalle. Grecia si fermò, chinò il capo per nascondere una smorfia dietro i capelli, strinse i pugni, resistette alle fitte di dolore che lo morsero fino alle ossa, e si mise seduto. Fece scivolare di nuovo a sé i piedi imprigionati, incrociò le gambe, raccolse la catena che si allacciava al polso sinistro, e la spostò dalla panca, facendola ricadere a terra. Si passò una mano fra i capelli, li scostò dal viso impallidito per lo sforzo e il dolore, e la appoggiò accanto a sé. Batté due volte il palmo sul legno. “Siediti.”

Italia sussultò, si chiuse nelle spalle e spostò un piede all’indietro. I suoi occhi scrutarono la mano di Grecia posata sulla panca al gattino pezzato, la bandiera, l’intreccio delle quattro catene, e di nuovo la mano che lo chiamava, sfiorata dal tocco di luce grigia e polverosa.

Grecia sollevò anche l’altro sopracciglio, gli lesse lo sguardo. “Non avere paura.” Alzò i polsi ammanettati, scosse le catene sollevando un trillo. “Non ti strangolerò.”

Italia smise di tremare, sgranchì di nuovo le dita, abbassò le palpebre, e spostò un primo passo verso Grecia, lavandosi la paura dal cuore. Si sedette sull’orlo della panca di legno, nell’estremità opposta a quella di Grecia, e compì un saltello per stare più lontano. Spostò con la mano una delle catene, e incrociò le caviglie. Tenne lo sguardo basso, intrecciò le mani sulle cosce, e fece dondolare le spalle. Non lo guardò in viso.

Il gattino pezzato tornò a salire fra le gambe di Grecia, strusciò la schiena sotto una sua mano, fece le fusa, sgranchì le unghiette sui suoi pantaloni, e si rimise acciambellato, la coda avvolta attorno al corpicino ronfante.

Grecia gli passò altre carezze lungo la pelliccia e si rivolse a Italia. “Hai già fatto un giro della città?”

Italia strinse le mani, le nocche sbiancarono, e scosse di nuovo il capo. Non disse nulla.

Grecia si strinse nelle spalle. “Peccato.” Girò la guancia, sollevò gli occhi al soffitto, e la luce tagliata dalle grate della finestra gli sfiorò le ciglia, circondò le palpebre gonfie e annerite. Un velo di nostalgia gli fece luccicare gli occhi ingrigiti dall’ambiente scuro della cella. “C’è un bel sole, oggi.”

Italia annuì. “Romano è salito a visitare l’Acropoli.” Snodò una mano sudata dall’altra e si strofinò la nuca, dondolò di nuovo avanti e indietro con le spalle. “Forse dopo lo raggiungerò.”

Grecia sospirò. Il velo di nostalgia si addensò in un nodo di dolore attorno al cuore. “L’Acropoli...” Gli occhi gli caddero su un lembo della bandiera che aveva staccato lui stesso dall’asta. Si rifecero tristi, pesanti. Grecia raccolse il gattino fra i gomiti e lo accoccolò contro il petto, si consolò con il suo calore e con la morbidezza del pelo che faceva correre fra le sue dita. “Chissà quando la rivedrò?”

Italia ebbe un altro sussulto. “Non...” Scosse il capo e il suo sguardo si fece più intenso, gli occhi sinceri. “Non rimarrai in prigione per molto, te lo prometto. Solo che...” La mano con cui si era strofinato la nuca passò a sfregare anche il braccio, a stropicciare la manica della giacca. La voce di Italia tremolò di indecisione. “Che ci sono ancora delle faccende da sistemare, e le battaglie non sono finite, e Germania vuole assicurarsi che tutto proceda per il meglio, mentre tu...” Un formicolio di disagio gli passò attraverso il petto e le braccia. Italia si diede un’altra strofinata alle spalle – l’umidità della prigione era penetrante – e unì le ginocchia, stringendo di più le caviglie sotto la panca. “Sai,” balbettò, “potresti ostacolarci.”

Grecia scosse il capo. Un movimento lento e stanco. “Io non ho più il potere di farvi niente, ormai.” Tornò a posare il gattino fra le sue gambe, e continuò a carezzarlo. Il gattino si girò sul fianco, unì le zampette sulle dita di Grecia, diede un paio di colpetti alla sua mano, senza estrarre le unghie, e gli rosicchiò i polpastrelli senza affondare i denti.

Italia tornò a strofinarsi le mani, a sopprimere il formicolio di disagio che gli correva nel sangue. Dondolò ancora con le spalle avanti e indietro, spinse i gomiti sul ventre che si stava annodando per il nervosismo. “Ehm...” Le parole gli formicolavano sulla lingua senza riuscire a mettersi in ordine. “Grecia, io,” esitò, la voce arrochita, “per quello...” Italia tossicchiò, deglutì per schiarirsi la gola, e guadagnò un respiro breve. “Per quello che è successo alle Termopili...” Schiacciò le unghie nei palmi, si morse il labbro, strinse gli occhi, e contenne un piccolo guaito di dolore. Scosse il capo. “Mi dispiace tanto,” gemette. Le labbra tremanti e il cuore che pulsava di dolore. “Non volevo che succedesse, e ho fatto...” Singhiozzò senza spandere lacrime, le trattenne strofinandosi le palpebre. “Ho fatto di tutto per fermare Germania.” Scrutò Grecia da dietro una ciocca di capelli, senza riuscire a guardarlo negli occhi. “Mi dispiace se è andata a finire così.” Scosse di nuovo il capo. “Mi dispiace tanto.”

Gli occhi di Grecia si appannarono di dolore come i suoi, li attraversò un luccichio di compassione nei suoi confronti. “Ti ha spaventato, vero?”

Italia annuì e si asciugò un occhio, singhiozzò ancora. “Era tutto quello che volevo evitare.” Strinse i pugni sulle cosce, le braccia tremarono, e davanti al suo sguardo rivolto al pavimento tornò a esplodere il lampo dello sparo che lo aveva fatto cadere all’indietro, in mezzo alle rocce. La stessa ondata di panico che lo aveva travolto alle Termopili si materializzò in un brivido gelido e viscido che si piantò nel suo cuore come una spina di ghiaccio. Italia si morse il labbro, la bocca tremò, il dolore batté nel petto. “E invece l’ho visto succedere davanti ai miei occhi,” mormorò. “Ho provato a proteggere Germania, ma non ce l’ho fatta.” Si posò la mano sul petto, la strinse accanto alla croce. “Nemmeno io ho questo potere su di lui.”

Grecia gli inviò una grigia occhiata interrogativa. “Proteggere lui?”

Italia annuì, si sfregò il braccio. “Da se stesso.”

Grecia socchiuse le palpebre, percorse il profilo di Italia, e il suo sguardo si fece più fine e scettico. “E tu?” gli domandò. “Tu sai come proteggere te stesso da lui?”

Italia strizzò la manica fra le dita, trattenne il respiro, e corrugò la fronte in un’espressione offesa e spaventata allo stesso tempo. “Germania non mi farebbe mai del male,” squittì. “E se lui ti ha...” Fece scivolare la mano dal braccio e stropicciò le dita sui polsini, grattando i bottoni. “Se ha fatto del male a te è solo perché stava cercando di proteggermi,” si affrettò a dire.

“Per questo ti senti in colpa?”

Italia annuì, gli occhi tornarono a intristirsi. “Sì. Perché dentro di me...” Inspirò, espirò, e pronunciò quelle parole come a scaricare un peso dalla schiena. “So di avere vinto solo grazie a lui.”

Anche Grecia trasse un sospiro, più pensoso. “Uhm.” Sa di avere vinto solo grazie a lui. Spostò la catena unita alla sua caviglia sinistra che si era aggrovigliata attorno al polpaccio, stando attento a non colpire il gattino, e si girò verso Italia. Poggiò la spalla e una tempia alla parete, facendo risposare il capo. “Hai ripensato a quello che ti ho detto durante l’offensiva di questa primavera?”

Italia sgranò le palpebre. Le guance divennero più pallide e gli occhi più bui, cerchiati da un’ombra di paura che gli aveva ghiacciato il petto e il respiro.

Grecia posò una mano sulla panca e si trascinò più vicino a lui, spingendo Italia a reclinare le spalle all’indietro. “Nike Àptera,” ripeté con lo stesso bisbiglio di quando gliel’aveva sussurrato all’orecchio. “Hai pensato a cosa significa?” La luce che lo sfiorava di profilo scuriva le ombre sul suo volto bianco e sciupato dalla guerra, il riflesso vitreo degli occhi socchiusi sembrava quello di un fantasma.

Italia tornò a stringere i pugni, lasciò che quelle parole gli scivolassero sulla pelle come quando le aveva sentite la prima volta. Scosse il capo. “Non ne conosco le parole.” Un familiare brivido di disagio corse lungo la schiena come una goccia di ghiaccio, facendogli salire la pelle d’oca. “Ma ho come la sensazione di conoscerne il significato, e di averlo già provato in qualche modo.”

Grecia annuì e il suo sguardo divenne più cupo. “Nike Àptera,” spiegò con un mormorio, “è la vittoria senza ali.”

Italia sentì quelle parole entrargli nel petto, stringergli il cuore come una mano sottile e affusolata, dal tocco familiare, che gli aveva già strozzato il respiro tanti anni prima. “Oh.” Non riuscì a dire altro.

“È questa la tua condanna, Italia,” continuò Grecia. “Io ho perso, sono in prigione, la mia nazione è sotto le catene del nemico come lo sono io.” Si posò una mano incatenata al petto, gli anelli di ferro emisero uno squillo. “Ma io dentro di me riesco ancora a percepire la rabbia della mia gente e la loro voglia di continuare a combattere per la loro libertà.” Strinse le dita, un breve fremito gli attraversò il braccio, e la voce riacquistò una fiammella di vigore. “Per questo non sono morto, nonostante Germania abbia provato a uccidermi. Tu hai vinto, ma la tua è stata una vittoria sporca, una vittoria che ti ha recato solo dolore, in quanto tu l’hai ottenuta solo grazie alle forze di Germania. Quando hai intrapreso questa campagna, non conoscevi te stesso, non conoscevi il tuo nemico.” Si strinse nelle spalle e una ruga di noncuranza gli attraversò la fronte. “Da una premessa del genere, non può scaturire altro che una sconfitta.” Sollevò la mano dal petto, seguita dal trillo della catena, portò due dita sulla spalla di Italia. “Hai vinto ma non sei in grado di elevarti,” premette piano i polpastrelli sopra la giacca, “proprio come se ti avessero tagliato le ali.” Fece scivolare la mano giù dalla sua spalla e tornò a unirla sulle caviglie incrociate. Lo sguardo di Grecia tornò buio, la voce più cupa. “Sarai tu a soffrire questa sconfitta, Italia.” Scosse il capo facendo oscillare le punte dei capelli sulle spalle. “Non io.”

Italia portò la mano sulla spalla, dove Grecia lo aveva toccato, e si massaggiò fino a raggiungere la scapola. La ferita invisibile dell’ala tagliata bruciò sotto la pelle, come quella bianca a forma di lisca di pesce che gli attraversava il cuore. “Che...” Tremò. Il peso del conflitto tornò ad aggravarsi sulla sua schiena, a schiacciarlo e a strozzargli un singhiozzo di disperazione in fondo alla gola. “Che cosa dovrei fare, allora?”

Grecia si strinse nelle spalle, i suoi occhi tornarono ad appannarsi della solita sfumatura disinteressata. “Non lo so,” soffiò. “E, francamente, non ho nemmeno voglia di pensarci. Ormai è un problema che riguarda solo te.” Reclinò il capo contro la spalla, accasciò il fianco alla parete della cella premendovi la guancia sopra, e chiuse gli occhi. La voce stanca e trascinata come se dormisse già. “Posso solo consigliarti di cominciare a chiederti cosa pensi di fare continuando a seguire un alleato di cui hai paura.”

Dentro Italia si riaccese una fiamma, schioccò come una scintilla, e lo fece scattare in piedi. “Io non ho paura di Germania!” La sua voce rimbombò fra le quattro pareti della cella, svegliò il gattino pezzato che sollevò il muso dalle zampe e sbatacchiò le palpebre, spaventato.  

Italia strinse i pugni sui fianchi, le braccia tremarono, sul suo viso ancora annacquato dal dolore comparve un barlume di ostilità. “Dopo tutto quello che abbiamo fatto per tornare assieme,” singhiozzò, “dopo tutti i sacrifici che le nostre nazioni hanno compiuto, dopo tutti gli anni in cui abbiamo sofferto rimanendo separati, e...” Scosse il capo, tornò a strofinarsi gli occhi arrossati, anche se non aveva pianto. “Io ho solo paura che,” tentennò, “che possa succedergli qualcosa di brutto, e che tutti lo vedano per come non è veramente.”

Grecia sollevò un sopracciglio e lo guardò con compassione. Un’espressione che diceva: ‘povero scemo’. “E tu invece sai com’è veramente?”

“Sì,” esclamò Italia. “Sì, lo so! Io conosco Germania!” Si girò verso le sbarre, si strinse le spalle stropicciando la stoffa delle maniche, e il battito del suo cuore accelerò, affogando nella paura. “E non tornerò a commettere lo stesso errore,” disse con tono più basso, “io non lo abbandonerò di nuovo, io non lo abbandonerò mai più, per nessun motivo. Perché sono io quello che sbaglia.” Si batté la mano sul petto, sotto la croce, e tornò a rivolgersi a Grecia. “Sono io che non ho ancora capito come funziona la guerra. E se Germania sta facendo tutto questo, se ha fatto del male a te e ad altre nazioni, è solo perché non vuole che sia io a farlo al posto suo, solo perché vuole proteggermi.” Scosse il capo con convinzione, gli occhi lucidi e rabbiosi. “Ma non succederà più. Io non permetterò mai più che si sporchi le mani per colpa mia, non mi tirerò mai più indietro e non sarò mai più pauroso. Da adesso...” Sollevò di più lo sguardo, e quel gesto fece strisciare il filo di luce dalla spalla al suo petto. Il riflesso bianco sbatté direttamente sulla croce di ferro. “Anche io farò la guerra com’è giusto che sia.”

“Signore.” Uno dei due ufficiali che lo aveva accompagnato si avvicinò di un passo alle sbarre, incontrò lo sguardo di Italia che si era girato di scatto. “C’è qualche problema, signore?” gli domandò. “Va tutto bene?”

Italia sbatté le palpebre due volte, scosso, e sciolse la scintilla di rabbia che lo aveva estraniato. “S-sì.” Si passò una manica sul viso, inspirò a fondo, e la sua voce riacquistò il tono morbido arrochito dalla stanchezza. “Va tutto bene. Potete aprire la cella.” Diede le spalle a Grecia e guardò in basso. “Stavo per uscire.”

L’ufficiale annuì. “Sissignore.” Tornò a staccare le chiavi dalla cinta e raggiunse quella che aveva usato prima. Incastrò la chiave, diede due giri, la serratura schioccò, e l’uomo afferrò una sbarra con entrambe le mani per tirarla indietro e aprire la porta. Si mise in disparte per far passare Italia e lanciò un’occhiata cauta e vigile a Grecia. La mano sul fianco accostata alla pistola.

Italia compì due passi, arrivò alla soglia, e si fermò stando a sguardo basso. Il capo chino fra le spalle leggermente ingobbite e ancora rigide. Sollevò la mano e la posò su una sbarra, senza stringere. La sua voce ruppe il silenzio come una goccia d’acqua che cade dalla parete di una grotta. “Io salverò Germania.” Voltò la guancia, toccata di traverso dal raggio di luce che entrava dalla finestrella, e guardò Grecia da sopra la spalla. Le dita appoggiate alla sbarra tremarono. “Lo salverò da se stesso, e così nessuno di noi due soffrirà più.” Italia incurvò le labbra in un sorriso speranzoso e disperato allo stesso tempo. Gli occhi luccicarono. “E allora anche le guerre finiranno.”

Un’altra stretta di compassione, più sincera e addolorata, soffocò il battito di Grecia. Lui scosse il capo mostrando un’espressione avvilita. “Tu non hai il potere di fermarlo, Italia.” Raccolse il gattino pezzato dalle gambe incrociate e lo raccolse al petto, lasciando che si distendesse sulla sua spalla. Lo carezzò sfiorandogli la testolina con le labbra. “Noi non siamo esseri umani, non funziona così con le nazioni. Tu non hai alcun potere su di lui.” Flesse il capo, e la sua espressione placida assunse una sfumatura di mistero. “Cercando di salvarlo, finirai solo per perdere te stesso.”

Italia strinse la mano sulla sbarra, le unghie graffiarono uno strato di ruggine. “Non è vero,” disse. “E lo dimostrerò a tutti.” Afferrò la croce di ferro che pendeva dal petto e si aggrappò al suo peso. “Dimostrerò a tutti che il legame fra me e Germania è più forte di quello che credete e che durerà per sempre.”

Uscì, accompagnato dai due ufficiali, e le altre due guardie tornarono a prendere il loro posto, si rimisero sull’attenti davanti alla cella.

Grecia scivolò sulla panca, si sdraiò supino, la testa e le spalle a riposare fra le pieghe della bandiera, e riprese a carezzare il gattino, toccato di striscio dalla luce del sole. Cullato dalle fusa del suo gatto e dal suo calore raccolto sul petto, si addormentò subito.

 

.

 

Bulgaria si ficcò in bocca un’abbondante cucchiaiata di yogurt greco, aspre lacrime di frustrazione scivolarono giù dalle guance, gocciolarono fra le labbra, e il sapore salato si mescolò a quello più morbido della crema. Singhiozzò, i denti vibrarono contro il cucchiaio, le labbra si incresparono in un ringhio di rabbia, e dagli occhi furenti sgorgarono altri fiotti di lacrime che rotolarono lungo la curva delle guance arrossate. “Bastardo,” mugugnò con le labbra ancora strette al cucchiaio. Ingollò lo yogurt, si sfilò il cucchiaio dalla bocca, tirò su col naso, si strofinò la manica contro gli occhi bagnati, e singhiozzò ancora. “Bastardo bugiardo di,” altro singhiozzo, “di un crucco di merda.” Affondò di nuovo il cucchiaio nel vasetto di yogurt – la posata trillò contro la parete di vetro – e lo estrasse spargendo due gocce bianche a terra. Bulgaria si infilò il cucchiaio in bocca, calpestò le due macchia bianche cadute sulla strada, e soppresse un altro singhiozzo fra le guance piene. Altre due righe di lacrime luccicarono lungo il suo viso e scivolarono fra gli angoli delle labbra, mescolando il loro sapore a quello dello yogurt.

Romania raccolse una delle tre mele rosse che reggeva fra le braccia, la rigirò – un raggio di sole brillò sulla buccia liscia e lucida come smalto –, e la fece rimbalzare sul palmo. “E smettila di frignare.” Accostò la mela alle labbra, sguainò i canini appuntiti che luccicarono a loro volta, e affondò un morso croccante. Raccolse il boccone in fondo alla guancia, masticò, e leccò una riga di succo di mela che era colata all’angolo delle labbra. “Poteva anche andarti peggio.” La mela aveva un sapore fresco e dolce, come un sorso di acqua zuccherina appena sgorgata da una sorgente di montagna che profumava di bosco.

Bulgaria aggrottò un broncio contro il cucchiaio ancora infilato nella bocca. “Ah, shì?” Ingoiò, si pulì le labbra con il dorso della mano, e scaricò un calcio a un sasso. La pietra colpì un marciapiede e tornò a rotolare sulla strada, davanti alla loro camminata. Gli occhi di Bulgaria, ancora accesi di rabbia, rabbuiarono sotto l’ombra di una fila di alberi piantati ai bordi dello sterrato. “Tanto tempo passato a ricattarmi,” brontolò, “tanto tempo perso con i suoi...” Puntò il cucchiaio davanti a sé e lo sventolò come una bacchetta, ingrossò la voce già inasprita dalla bolla di pianto incastrata in gola. “‘Oh, Bulgaria, questa tua condotta deludente avrà delle ripercussioni’, e ‘Oh, Bulgaria, come credi di conquistare qualcosa con questo tuo atteggiamento insofferente, eh?’ E io anche a rischiare di rompermi il collo per lui quando sono saltato addosso a Grecia per non farlo scappare!” Tornò ad affondare il cucchiaio nel vasetto, mescolò pescando dal fondo, dove lo yogurt si addensava assumendo la consistenza di un budino, e strinse i denti sul boccone per sopprimere un altro ringhio che gli era ribollito nello stomaco. Le lacrime gocciolarono dal mento, scavarono scie bollenti sulle guance. Il velo di pianto gli gonfiò gli occhi arrossati, rendendoli più rabbiosi e fiammeggianti. “E alla fine cosa mi ritrovo?” sbottò. “Salonicco in mano sua invece che in mano mia, ecco cosa!” Pescò altre tre cucchiaiate di seguito, le ingollò una dopo l’altra, e lasciò che il sapore fresco dello yogurt refrigerasse la brace di rabbia che stagnava nel petto.

Romania alzò gli occhi al cielo e sospirò. Diede un altro morso alla sua mela, scavando la forma del torsolo, e masticò più lentamente, godendosi il sapore del succo dolce che scivolava lungo la gola e che gli insaporiva le labbra di un retrogusto nettarino. Il suo sguardo sfilò lungo la strada su cui stavano passeggiando. Le ombre degli alberi cadevano sulle facciate delle case recintate, un cane nero legato alla catena tirò su il muso dalle zampe, quando li vide passare, e impennò le orecchie senza però uscire dalla sua cuccia. Riccioli di vapore spumoso cadevano dalle grate di una terrazza, dove una donna stava facendo bollire dei panni, e si dissolvevano prima di toccare terra, spargendo un soffice e umido profumo di sapone. Secchi di alluminio scintillavano nel lenzuolo d’erba di uno dei giardini, sotto l’ombra dei meli ancora in fiore da cui stavano sbocciando i primi frutti. Colpi secchi di legna che viene spaccata a morsi di accetta rimbalzavano ritmicamente da dietro il muretto di un’abitazione su cui erano accatastate piramidi di tronchi protette da reti d’acciaio. Fumo grigio soffiava dal comignolo annerito di uno dei tetti, e la cappa trascinò con sé l’aroma selvatico di resina affumicata e di crosta di pane abbrustolito.

Alle loro spalle, li raggiunse uno zoccolare trascinato, seguito dallo scricchiolio di ruote di legno che macinano la polvere sulla strada. Romania buttò lo sguardo all’indietro e rosicchiò un altro morso di mela. Gli passò affianco un carretto tirato da un mulo grigio che teneva le orecchie basse e che sventolava la coda per allontanare il ronzare di una mosca. Un uomo baffuto, il cappello calato sulla fronte e le maniche arrotolate fino alle spalle che lasciavano vedere la pelle abbronzata, tirava le redini e lo guidò nella prima curva a destra che imboccava la strada verso il centro. Superò Romania e Bulgaria senza nemmeno guardarli.

Rombi più acuti e graffianti seguirono la marcia dell’uomo e del mulo. Tre autocarri tedeschi li raggiunsero dalla stessa direzione, superarono il carretto, e si infilarono nella stessa curva, scaricando dietro di loro una scia nera di gas asprognolo che si mescolò alla nube di polvere gialla gonfiata da sotto le loro ruote.

Romania sventolò via un fiotto di fumo, si girò contro la spalla per dare l’ultimo morso alla mela, e corrugò un sopracciglio. “Non sei rimasto esattamente a mani vuote, comunque.” Rosicchiò il boccone, rigirò il torsolo scavato fino all’osso, e lo gettò fra le radici di un albero.

“Chissene frega,” esclamò Bulgaria, “io volevo Salonicco!” Saltellò su un piede solo e stese di lato la gamba che Grecia gli aveva trafitto con la mitragliata. “E mi sono preso anche una mitragliata alla gamba per lui.”

Romania sbuffò e le sue labbra ancora lucide di succo di mela si piegarono in un mezzo sorriso d’amarezza. “Be’, e io mi sono preso due proiettili in pancia. Da lui.” Raccolse la seconda mela e la bucò subito con i canini, strappandone un morso avido. Parlò masticando. “E io non ottevvò comunque nulla di concveto da queshta campagna.” Ingoiò il boccone, si leccò le labbra succhiando fino all’ultima goccia di succo.

Bulgaria schioccò la lingua in un moto di nervosismo e fece roteare gli occhi. “Oh, piantala.” Tornò a infilare il cucchiaio nel vasetto di yogurt, mescolò più lentamente, e raccolse un altro boccone che finì subito fra le sue labbra. Leccò il cucchiaio davanti e dietro. “Non siamo qui a giocare a chi si è fatto mitragliare di più.”

“Sei stato tu a cominciare.”

“Va bene, va bene, tregua.” Bulgaria soffiò uno sbuffo ancora inasprito da tutte le lacrime che gli erano scivolate in gola e che avevano reso il viso rosso e lucido. Si strofinò una manica della giacca sulle guance, tamponò le palpebre, e singhiozzò un’ultima volta, indurendo il tono di voce. “È solo che...” Pescò un’altra mezza cucchiaiata di yogurt e si addolcì la bocca tenendo la punta della posata fra le labbra. “Fra il viaggio, gli scontri a fuoco, l’occupazione, e...” L’ombra degli alberi si dissolse, abbagliando entrambi con i raggi del sole che battevano sulle facciate delle case e che si frammentavano fra i rami. Bulgaria soffiò un altro sospiro. Si fece aria al viso e allentò il primo bottone della giacca. “E tutto questo fottuto caldo, mi sembra di stare impazzendo.” Calciò un sasso che rotolò fino a una siepe, e sbuffò un altro soffio di frustrazione. “Perché Germania ci obbliga ad andare in giro in uniforme?” Stritolò il cucchiaio fra le dita, le nocche sbiancarono, le falangi scricchiolarono. “Non è giusto.” Digrignò i denti che si fecero aguzzi come quelli di Romania. “Io poi ce l’ho anche nera!”

Romania sollevò un sopracciglio. “Che pretendevi?” Il sole però diede fastidio anche a lui. Rivoletti di sudore scivolarono attraverso la pelle bianca e accaldata, si infilarono sotto il colletto dell’uniforme, e il solletico dei raggi lo costrinse a restringere le palpebre e ad arricciare il naso. Continuò a camminare riparandosi all’ombra di un’altra fila di alberi più fitti e rigogliosi. Strappò un altro morso alla mela. “Che Germania ci lasciasse andare a fare il bagno al Pireo?”

Bulgaria annuì con convinzione e un piccolo sorriso sbocciò fra le sue labbra. “Sarebbe stata una grande idea, sì.” Succhiò un’altra cucchiaiata di yogurt. Dovette scavare fino al fondo per pescarne un’altra, e divorò pure quella.

Romania scosse il capo con un sospiro. “E poi critichi tanto l’atteggiamento di Italia e del suo esercito.” Rosicchiò un morso di mela più piccolo e si ripulì dal succo passando il pollice sulle labbra. “Non siamo qui in vacanza, siamo nazioni occupanti.” Succhiò il dito con uno schiocco. “Tu più di me, oltretutto.”

“Ma la gente non sembra odiarci così tanto,” considerò Bulgaria. Rivolse il cucchiaio dietro di sé e indicò la strada che avevano appena percorso lasciandosi alle spalle le casette di periferia. “Quella vecchina è stata così gentile a regalarci mele e yogurt.” Ne raccolse un’altra cucchiaiata, succhiò il boccone mostrando un’espressione di appagamento, e annuì. “Forse i greci potrebbero prenderla meglio di quello che crediamo.”

Romania sbuffò, rigirò la mela rosicchiata. “Magari è tutto avvelenato.”

Bulgaria sgranò gli occhi e sbiancò come lo yogurt che si era appena infilato in bocca. Si strappò il cucchiaio dalle labbra e si girò a sputacchiare tutto fra le radici di un albero. “Pfft! Bleah!” Premette una mano sulla corteccia e finì di tossire, si ripulì le labbra e rabbrividì.

Romania nascose il sorrisetto di scherno dietro la mela e ridacchiò. “Scherzo.” Raccolse l’ultimo frutto dalla piega del suo braccio e lo porse a Bulgaria. La buccia scintillò come un rubino sotto il raggio di sole. “Ecco, prendi una. È dolcissima.”

Bulgaria si diede un’ultima strofinata alla bocca, aggrottò la fronte, squadrò di traverso la mela, poi Romania, e di nuovo la mela. Raddrizzò le spalle e acchiappò la mela con la mano che non reggeva il vasetto di yogurt. “E grazie tante,” brontolò. Si rimise a camminare e affondò subito due morsi di seguito. Il sapore dolce e succoso della mela si mescolò a quello più cremoso e asprognolo dello yogurt che ancora gli riempiva le guance.

Romania girò la sua mela per raggiungere il lato ancora integro e la finì di divorare in tre morsi. Si leccò le labbra e l’arcata dentale, fino alle punte dei canini, e gettò di nuovo il torsolo alle radici di un albero. Il profumo fresco e morbido dello yogurt avanzato nel vasetto di vetro scivolò sotto la punta del suo naso. Romania diede due annusate all’aria, lo stomaco brontolò, la bocca tornò a riempirsi di saliva, e la lingua già fremeva all’idea di dare una leccata alla crema. Tese una mano verso Bulgaria, verso il manico del cucchiaio tuffato nel vasetto di vetro, e strizzò le dita sull’aria. “Dammi un cucchiaio di yogurt, dai.”

Bulgaria si girò di scatto, sollevò il braccio che reggeva la mela rosicchiata, e protesse il vasetto di yogurt contro il petto. “No, lo yogurt è mio.”

Romania si appese alla sua spalla e saltellò per raggiungere il vasetto di yogurt stretto al suo petto. Sventolò la mano e fece gli occhioni dolci. “Dai, uno piccolo,” lo supplicò. Compì un altro rimbalzo e finì con la guancia spremuta contro il gomito di Bulgaria. Diede un’altra sventolata di mano e sfiorò il cucchiaio con le punte delle dita. “Voglio assaggiare.”

“Tieni giù i denti!”

Due braccia emersero da un vicolo, le mani acchiapparono il bavero di Bulgaria e la spallina di Romania, e li tirarono indietro, ingoiandoli nell’ombra incuneata fra le due case.

Bulgaria finì strozzato dal colletto della giacca, “Caugh!”, perse la mela rosicchiata che rotolò in mezzo ai piedi, fece stridere le unghie sul vetro del vasetto per non farlo cadere, e anche Romania gemette per lo strattone improvviso dato alla sua spalla, “Wha!”.

Le due braccia li trascinarono nel buio, passarono sopra le loro spalle schiacciandoli contro qualcosa di soffice, e due mani si aprirono contro le loro bocche, ammutolendoli. Una voce familiare vibrò attraverso il petto contro cui avevano sbattuto ed erano rimasti bloccati. “Ssh,” le mani fecero più forza contro le loro labbra, “tenete le bocche chiuse, non fatevi sentire.”

Bulgaria sgranò gli occhi che ancora bruciavano dopo il pianto furioso, si appese al braccio che lo aveva bloccato senza mollare il vasetto di yogurt, e diede due strattoni con le spalle. “Mmmh!” Mollò due calci all’aria, strizzò gli occhi, e gridò più forte contro il palmo.

Anche Romania si appese con una mano al braccio che lo aveva immobilizzato, conficcò le unghie nella manica, e tese il braccio libero verso la cinta, verso il peso della pistola infoderata. Strattonò la testa a destra e a sinistra sfregandosi contro la mano estranea per liberarsi, e il suo naso tastò l’odore di quella pelle dura e callosa che gli imprigionava il respiro. Romania si immobilizzò, annusò ancora. Un forte odore di spezie, simile a quello di Grecia, mescolato al fumo, alla terra nera, a drappi di seta profumati da aromi d’agrumi, di giada e di tè al gelsomino. Un lampo di realizzazione gli trafisse la testa. Turchia?

Turchia indurì i muscoli delle braccia per tenere fermo il corpo dimenante di Bulgaria, e anche la sua voce si inasprì. “Zitti.” Vibrò di nuovo attraverso il suo petto, contro le schiene dei due, e mormorò dietro le loro orecchie. “Non voglio farvi del male, voglio solo...”

Romania gettò il capo all’indietro, e le dita di Turchia scivolarono via dalla sua bocca, liberandogli il viso. Spalancò le fauci, i denti scintillarono, e gli piantò i canini nella mano.

Turchia raggelò, come fulminato da una scossa, e grugnì un gemito. “Ahu!” Mollò la presa ed entrambi sgusciarono via dalle sue braccia.

Romania gettò le mani sul fodero della pistola, sganciò la chiusura, impugnò l’arma, la estrasse, e arretrò di due passi contro l’altra parete, puntando la bocca di fuoco su Turchia. “Non muoverti.” Infilò l’indice nel grilletto, restrinse le palpebre per prendere la mira sul suo petto. Gli occhi si accesero di rosso e le punte dei canini premute sul labbro brillarono di ferocia.

Bulgaria si girò di scatto sbattendo le spalle al muro, estrasse il cucchiaio dal vasetto di yogurt, senza pensarci, e puntò quello addosso a Turchia. Il suo braccio tremò, una goccia di yogurt piovve dal cucchiaio e si schiantò accanto al suo piede. Bulgaria guardò il cucchiaio, si morse il labbro per contenere una smorfia di imbarazzo, e restrinse le dita attorno al manico. “Ehm. S-sì, non...” Tornò ad aggrottare la fronte, tese il cucchiaio verso Turchia con più convinzione, e imitò il tono rauco e minaccioso di Romania. “Non muoverti.”

Turchia alzò gli occhi al cielo da dietro la mascherina, scrollò la mano che Romania gli aveva morso – due righe di sangue gocciolavano già dai buchi scavati da canini – e mostrò i palmi con un gesto molle e annoiato, in segno di resa. “State a cuccia. Non voglio attaccare briga, sono disarmato.” Aggrottò un sopracciglio, li squadrò entrambi da dietro la maschera. “Davvero pensate che azzarderei una mossa così stupida?”

Romania non abbassò la pistola, girò un piede verso l’uscita del vicolo, tese di più le braccia che reggevano l’arma, i suoi occhi percorsero Turchia da capo a piedi. Tornarono a guardarlo in viso con espressione scettica. “Non si sa mai.”

Turchia sbuffò, scocciato. “Se solo...” Lo sguardo di Turchia cadde sul viso di Bulgaria protetto dal cucchiaio sguainato davanti a lui. Si soffermò sugli occhi lucidi, sulle palpebre gonfie, e sulle guance umide e arrossate come la punta del naso. Gracchiò una risata di scherno. “Ma che hai fatto?” gli chiese. “Hai pianto?”

Bulgaria trasalì strozzandosi con un singhiozzo d’aria e il suo viso si arroventò di vergogna. “Non ho pianto!” Si girò di profilo e riprese a sfregarsi gli occhi con la manica.

Turchia ridacchiò di nuovo, ma una pulsazione di dolore all’altezza della mano morsa lo fece smettere. Girò il dorso, dove il sangue continuava a gocciolare, e piegò una smorfia di disappunto. “Mi hai fatto dannatamente male.” Abbassò le mani e si ripulì il sangue da quella ferita.

Romania rilassò la tensione dei muscoli, soffiò un breve sospiro di sollievo, e calò anche lui le braccia. “Cosa vuoi da noi?” Tornò a lanciargli un’altra buia occhiata di sospetto. “Perché ci hai fermato?”

Turchia tamponò le due ferite e strofinò via l’ultima goccia di sangue dalla pelle. “Volevo solo parlarvi,” rispose con sincerità. “Lontano da Germania, ovviamente.”

Romania tornò a gettargli un’occhiata di ostilità, le dita si chiusero di più contro la pistola, e gli occhi divennero più affilati. “Germania sa che sei ad Atene?” I nervi tornarono a tendersi e a bruciare, si rimisero in guardia facendogli salire la pelle d’oca.

“Mi prendi in giro?” sbottò Turchia. “Certo che no, non sono qui in vesti ufficiali, nemmeno il mio governo sa che sono ad Atene. Avete idea del disastro che esploderebbe se la notizia girasse?” Spostò lo sguardo fuori dal vicolo, piegò leggermente le spalle in avanti, chiuse l’orlo del cappuccio fra due dita e lo tirò più in basso, facendosi ombra al viso. Una lieve ruga attraversò la fronte e donò una sfumatura preoccupata al suo viso. Lo rivolse a Romania. “Lui dov’è?”

Romania esitò, allargò le palpebre e gli occhi persero la luce di ostilità, si lasciarono ammorbidire. Abbassò le braccia, sfiorato da un soffio di compassione che rilassò la tensione dei muscoli, e si scambiò un’occhiata di sbieco con Bulgaria. Bulgaria si tolse il braccio dal viso, dopo essersi sfregato le guance e le palpebre, e inarcò un sopracciglio. Scosse le spalle. Romania sospirò e calò del tutto la pistola, tornò a infilarla nel fodero. “In prigione.” Agganciò la chiusura e si mise a braccia conserte. Lo sguardo di nuovo duro e intransigente, animato dalle scintille che brillavano sulle punte dei canini. “Ma non posso dirti in quale. Ed è anche inutile che provi ad avvicinarti, è sorvegliata in ogni centimetro.”

Un’altra smorfia di preoccupazione attraversò il viso mascherato di Turchia, rimanendo nascosta. “Sta bene?”

Bulgaria scivolò accanto a Romania e gli parlò da sopra la spalla tenendo nascosti i movimenti delle labbra. “Sai, non credo dovremmo dirglielo.”

Romania fece roteare lo sguardo e lo ignorò. “È vivo,” rispose, ignorandolo. “Respira, parla, dorme. Soprattutto dorme.” Fece tamburellare le dita sulle braccia conserte. “È esausto ma per lui ormai non dovrebbero esserci più conseguenze. La sua nazione ha capitolato, il popolo si è arreso, e ormai mancano solo le ultime isole da conquistare.” Sospirò a lungo e si chiuse nelle spalle. Un breve sentimento di sconforto appesantì anche lui. “È finita.”

Turchia annuì con un debole gesto del capo. “Lo immaginavo.” Scivolò di un passo all’indietro, appoggiò la schiena al muro di mattoni, rilassando le spalle, e accavallò una gamba all’altra. Si massaggiò il collo sotto il cappuccio e soffiò un sospiro stanco. “Be’, almeno lui è vivo. Per un attimo ho davvero creduto che avrebbe fatto la fine di Polonia.” Tornò a scrutare Romania e Bulgaria con un’occhiata penetrante che riuscì a raggiungerli nonostante la maschera. “Com’è che Germania vi ha ricompensato per il lavoretto, eh?”

Romania aggrottò la fronte, indurì un muso da offeso, e scosse il capo. “Io non ho ottenuto nulla, la mia nazione non era coinvolta.” Rivolse un indice fuori dal vicolo. “Germania ha ottenuto la Macedonia orientale e centrale, Salonicco compresa, poi Atene assieme a Italia, e l’Isole dell’Egeo Settentrionale.” Abbassò il dito e indicò Bulgaria con un gesto del capo. “Lui ha preso la Tracia, e Italia tutto il resto, compresa la parte di Atene assieme a Germania.”

Turchia annuì, un sospiro più rauco gli appesantì la voce. “Ho capito.”

Bulgaria mosse le dita contro il vasetto di yogurt che non aveva ancora mollato, e un rivolo bianco colò fra le falangi. Si spostò dal muro, compì un passo verso Turchia. “Tu...” Rinfilò il cucchiaio nel vasetto di vetro e inarcò un sopracciglio. “Tu che farai ora?”

Turchia brontolò a bocca chiusa. “Uhm.” Scosse il capo, si mise a braccia conserte. “Difficile a dirsi, ancora non lo so.” Scrollò le spalle con un gesto molle e rassegnato. “Certo, mettermi a combattere in queste condizioni sarebbe da suicidio. Penso che l’idea migliore per rimanere vivo sarà stare al gioco dell’Asse. Cedere il dominio del Mediterraneo a Germania è un’idea che mi dà la nausea,” scosse il capo, impotente, “ma ormai è finita.”

“No, non è finita,” rispose Romania. “C’è ancora Creta.”

Turchia aggrottò un sopracciglio, di nuovo squadrandoli con sospetto. “E Inghilterra che fine ha fatto?”

Bulgaria volse i palmi al cielo, stringendosi nelle spalle. “È là che ci aspetta, immagino.”

Turchia rise. “Be’, buona fortuna.” Fu una risata amara e un po’ cattiva.

Romania fece roteare gli occhi. “Già. Fortuna.” Il suo sguardo si perse oltre le sagome dei tetti che sbucavano dall’alto del vicolo, finirono catturati da una macchia bianca che si ergeva contro l’azzurro del cielo. Romania aggrottò la fronte, restrinse le palpebre. “Ce ne servirà molta, temo.” La punta dell’Acropoli continuava a fissarli con il suo occhio di ostilità e carico di minaccia con cui li aveva accolti durante l’entrata ad Atene.

 

.

 

Romano tese il braccio verso il cielo, divaricò le dita, raccolse nel palmo le immagini degli sbuffi di nuvola che spennellavano l’azzurro, e un soffio di vento fece dondolare l’orlo della manica attorno al polso. L’aria di Atene passò attraverso il suo corpo disteso sulla costruzione di cinta che spioveva lungo i fianchi dell’Acropoli, proteggendo le curve del colle. Un’aria che odorava di uliveti e di terra umida, senza traccia del puzzo acre trascinato in città dall’avanzata degli eserciti nemici. Quel leggero soffio di vento allontanò il brusio che si levava dalla città invasa, riempì il silenzio solo con il suono morbido e irregolare della bandiera tedesca che faceva oscillare la sua ombra al suono. Un fruscio leggero come il battito di un’ala piumata.

Romano calò il braccio, raccolse la mano sulla pancia, intrecciando le dita all’altra, e girò il viso verso il panorama di Atene. Premette la guancia sulla pietra fredda, facendosi pungere dagli spigoli dei sassolini raccolti fra le rientranze.

Colli verdi sbucavano all’orizzonte, annebbiati da una soffice e umida foschia che rendeva il cielo più chiaro attorno alla vegetazione. La massa di tetti componeva una macchia color mattone percorsa dalle venature grigie delle strade. Piccoli spazi verdi e rigonfi sbucavano fra gli edifici, come soffici cuscini di muschio. In lontananza, Romano riconobbe le colonne bianche del Tempio di Zeus che si ergevano nella pavimentazione rettangolare dello stesso colore.

Romano sospirò, tornò a strusciare la nuca contro la superficie di pietra su cui era sdraiato, e gli occhi si riempirono di nuovo dell’azzurro del cielo sfumato di bianco. Siamo qua, nonno. Rivolse quel pensiero ai cumuli di nuvole, lo spinse più in alto che poteva, fino alla sagoma del sole sbiadito di rosso che già cominciava a calare. Abbiamo vinto, Atene è nostra. Sospirò ancora, muovendo le scapole contro gli angoli di pietra pungente, e un peso si aggravò all’altezza del petto. Gli schiacciò le costole, compresse il battito del cuore che si fece più duro e doloroso. Eppure...

Uno sventolio più violento della bandiera catturò il suo sguardo nella direzione opposta al panorama della città.

La bandiera tedesca oscillava davanti al profilo più vicino del Partenone e a quello più lontano dell’Eretteo. La sua ombra si frastagliava al suolo e toccava la cinta di pietre su cui Romano si era straiato. Si ergeva alta, gonfia e nobile come l’occhio di una piramide che osserva la città dall’alto.

Romano si strofinò le braccia, soppresse un brivido di disagio e soggezione che era scivolato sotto i vestiti. Eppure non riesco a fare a meno di sentirmi un estraneo indesiderato davanti a tutto questo. Ogni sventolio della bandiera, ogni fruscio del panno spiegato al vento, era come un affondo di pugnale piantato nel suo cuore. La pietra sotto la sua schiena e le sue gambe vibrava di rabbia e di protesta a ogni soffio del vento che agitava l’ombra della bandiera sulla sua terra. Quelle pulsazioni suonavano come un brontolio, il ruggito di una bestia soffocata dalle catene. Romano tornò a guardare la distesa di Atene con occhi più bui. Veneziano ha ragione, considerò. Questa città ci odia. Aprì una mano sulle pietre su cui era sdraiato e fece loro una piccola carezza, placò i ruggiti di protesta. Ci odierà per sempre dopo quello che abbiamo fatto.

Qualcos’altro vibrò all’altezza del suo torso, da dentro una tasca della giacca.

Romano sollevò una spalla per mettersi sul fianco, infilò la mano nella tasca e raggiunse una consistenza fredda e liscia, grande quanto una sua falange. Racchiuse l’oggetto fra le dita e lo portò alla luce. Il tocco del sole accese una scintilla d’argento sulla superficie del proiettile, percorse il profilo e si spense alla sua base. Romano vi strofinò sopra l’unghia del pollice, e quel leggero sfregamento metallico lo riportò al giorno in cui lo aveva visto estrarre dal petto di Italia, ancora gocciolante del sangue che colava dalle pinze, a quando il capitano medico lo aveva lasciato cadere nella bacinella d’acciaio sollevando un cleng! che lo aveva scosso come se il proiettile fosse esploso per una seconda volta, e a quando poi lo avevano lavato e consegnato nella sua mano, ancora tiepido.

Romano chiuse gli occhi e strinse il pugno attorno al proiettile, assorbendo il ronzio di vita che emanava ancora. Che scopo ha che siamo qui? si chiese. Che scopo ha la nostra vittoria e tutto il sangue che abbiamo versato? Accostò il pugno alle labbra, sfiorandosi le nocche, e mosse le dita per spostare la consistenza della pallottola all’interno del palmo. La voce della sua mente si fece più cupa. Cosa stiamo cercando in questa guerra?

Un rumore di passi si spostò attraverso il terreno, suole di stivali scricchiolarono fra le scaglie di pietra, schioccarono lungo i lastroni di marmo dai quali si elevavano le colonne che componevano i monumenti.

Romano riaprì gli occhi, girò la guancia andando incontro al suono dei passi che si stavano avvicinando.

Italia camminava a viso alto, lo sguardo rivolto alla cima del Partenone, e si stava lasciando alle spalle il profilo dell’Eretteo, sfiorato di traverso da un tiepido raggio di sole. Sollevò un braccio e posò la mano su una delle colonne, carezzò le scanalature del fusto con le punte delle dita, e continuò a camminare.

Romano alzò la schiena dalla cinta di pietre e ingrossò la voce per farsi sentire. “Veneziano,” tirò su il braccio e sventolò la mano, “sono qui!” Infilò il pugno ancora chiuso nella tasca e fece scivolare il proiettile di nuovo sul fondo.

Italia girò lo sguardo di colpo, si riparò la fronte dalla luce improvvisa, sbatté le palpebre, e seguì lo sventolio del braccio che lo stava chiamando. Sorrise. Tolse la mano dalla colonna del Partenone e impennò anche lui il braccio sopra la testa. “Eccoti!” Gli corse incontro e superò l’ombra della bandiera tedesca che oscillò contro di lui. “Ti cercavo.”

Romano incrociò le gambe e si girò verso Italia, dando la schiena al panorama che si spalancava su Atene e sui colli circostanti. Si strofinò i capelli a cui erano rimasti incollati dei sassolini. “Dov’eri sparito, prima, si può sapere?”

Italia rallentò la corsa, saltellò per scendere da una pietra, e i suoi passi più lenti scricchiolarono sulla ghiaia dello sterrato. Sospirò. “Oh.” Il sorriso cadde di colpo, come la fiamma di una candela che si spegne. “Ero solo...” Italia si fermò accanto all’asta della bandiera, intrecciò le dita, stropicciandosi le mani, e rivolse una rapida occhiata alle sue spalle, verso i monumenti. Si massaggiò la nuca, i suoi occhi scivolarono in mezzo ai piedi e assunsero una sfumatura di colpevolezza. “S-sono andato a trovare Grecia,” mormorò, “in cella.”

Romano strabuzzò lo sguardo e una sottile scossetta lo colse alla base del collo.

Italia emise un sospiro abbattuto, un soffio di vento rese l’aria attorno a lui più fredda e buia, lo avvolse in una grigia aura di sconforto. “Lui è comunque un nostro prigioniero, ne siamo responsabili.” Si strinse nelle spalle e la sua ombra si rimpicciolì. “Volevo solo assicurarmi che stesse bene dopo tutto quello che gli abbiamo fatto passare.”

Romano strinse e aprì i pugni sulle pietre, raccogliendo la polvere sotto le unghie, e inarcò un sopracciglio. “Sta bene?” Quel formicolio di timore continuò a corrergli attraverso le ossa.

Italia fece spallucce, gli occhi sempre a terra. “Più o meno.”

“Ti ha detto qualcosa?”

Italia esitò. Un lampo di allarme gli attraversò il viso in ombra, le sue spalle si irrigidirono, le dita intrecciate si chiusero fino a sbiancare.

Romano gli lanciò un’altra occhiata sospettosa. “Che vi siete detti?”

“N-nulla.” Italia si affrettò a scuotere il capo, si avvicinò di un altro paio di passi al muro di cinta su cui Romano era seduto, ed evitò il suo sguardo. “Nulla di importante.” Aprì le mani sulle pietre, sporse le spalle in avanti salendo sulle punte dei piedi, e rivolse lo sguardo al panorama. Un alito di vento gli agitò i capelli sulle guance e sulla fronte, una nuvola coprì la luce del sole proiettando sfumature grigie sulla sua pelle. Gli rese lo sguardo più avvilito. “Immagino volesse solo essere lasciato in pace, quindi me ne sono andato subito.”

Romano tenne la fronte corrugata, ancora piegata in quella piega di scetticismo, ma lasciò correre. “Mh.” Si girò di profilo tenendo le gambe incrociate, e anche lui riprese a guardare la conca fra i colli che racchiudeva Atene in un abbraccio verde e bianco.

Italia saltò sulla cinta e si sedette. Lasciò ciondolare le gambe, fece dondolare i piedi, e raddrizzò le spalle per lasciarsi investire da un’altra ondata di brezza al profumo di foglie umide. Si riparò la fronte, gli sbocciò un sorriso sulle labbra. “Che bella vista, vero?” disse. “Poi ora c’è poca foschia nell’aria, si vede benissimo tutta Atene. C’è la luce giusta.”

Romano annuì. “Già.” Reclinò la nuca e tornò a riempirsi la vista solo con cielo e nubi, come quando era sdraiato tenendo il braccio alzato, come per afferrarne un pugno. Sospirò a fondo. “Sai, anche io stavo pensando.” Scivolò più vicino a Italia e anche lui si affacciò direttamente sulla città. La vista di Atene gli fece provare una stretta di dolore e tristezza all’altezza del cuore, gli rese gli occhi più scuri e profondi. “Il nonno amava così tanto questa terra, e in un certo senso credo che abbia inconsciamente trasmesso anche a noi questo legame.”

Italia rise, le guance si tinsero di rosa. “A te, soprattutto.”

Romano sbuffò a labbra chiuse. Già. Lo guardò di traverso: il suo corpo seduto accanto a lui, toccato dall’ombra della bandiera tedesca a ogni sventolio del panno spiegato all’aria. A te ha trasmesso la smania per qualcun altro, invece.

“Pensavo,” continuò Romano, “che forse con questa vittoria non abbiamo fatto un torto solo a Grecia, ma anche al nonno.” Strinse le caviglie incrociate fra le mani, chinò il capo e lo scosse. “Non è questo il modo di vincere una battaglia, lo sappiamo tutti e due. E se lui ci vedesse qui sarebbe...” Un tremore di freddo e di soggezione lo scosse sotto un’alitata di vento. La sua voce tremò con lui. “Così deluso.”

Le labbra di Italia tornarono piatte, la scintilla negli occhi si spense, il viso si fece malinconico come quello di suo fratello. Italia scosse il capo. “Ormai penso che non possiamo più tornare indietro.” Intrecciò le dita ai capelli per tenerli lontani dal viso, e tornò con la vista su Atene. “Piangere su quello che abbiamo fatto non servirà a cancellare le nostre azioni.”

Romano si lasciò sfuggire un mezzo ghigno di scherno e gli diede una soffice spinta sulla spalla. “Senti chi parla.”

Italia gli strinse la mano, la trattenne. “Non voglio più piangere.” Guardò Romano negli occhi, le sue dita strinsero, gli trasmisero una scossa di calore e di forza che gli indurì lo sguardo. “Lo so che il nonno sarebbe deluso da noi, lo so che si vergognerebbe nel vederci portare avanti la nazione in questa maniera. Ma forse...” Scosse le spalle, i suoi occhi tornarono distanti, il tocco incerto. “Le cose in fondo sono così diverse da quando c’era il nonno a guidare la nazione, e il mondo è cambiato, ed è cambiata anche la gente, e gli eserciti.” Lasciò scivolare le dita su quelle di Romano, lasciandole andare. Si strofinò il braccio, e i suoi occhi rivolti ad Atene si assottigliarono, li attraversò una luce più tagliente ed estranea rispetto a quella morbida e dolce che gli sfumava sempre le iridi. “E forse...”

“Veneziano.” Romano aspettò che Italia si girasse a guardarlo. Lo fissò con due occhi già macchiati di paura, e il cuore finì trafitto dal brivido che lo aveva colto quando Italia aveva pronunciato quelle parole. “Che cosa stai cercando di dirmi?” Schiacciò i pugni contro le caviglie incrociate. I palmi gli prudevano.

Italia rabbrividì a sua volta. “Che forse...” Strinse anche lui i pugni sulla pietra, e di nuovo quella luce estranea tornò a riempirgli lo sguardo, a donargli dei lineamenti più duri. “Che forse noi non dobbiamo più paragonarci al nonno. E che dobbiamo agire pensando a quello che è bene per l’Italia di adesso e per i nostri alleati che ci siamo scelti da soli, e non per quello che sarebbe stato bene un tempo per il nonno.” Raccolse le ginocchia al petto, spinse i piedi sulla cinta di pietre, e strinse le braccia attorno alle gambe. “Il nonno non c’è più, Romano,” mormorò. “Lui è scomparso. E forse è scomparso perché lui è stato il primo a sbagliare, a dimenticarsi cosa vuol dire essere una nazione.”  Oscillò avanti e indietro con le spalle. Il luccichio della croce di ferro sbucò fra le gambe e il petto, emise un abbaglio pungente. “Perché dobbiamo pensare a quello che avrebbe fatto lui,” domandò Italia, “se il nonno è stato il primo a non riuscire a sopravvivere?”

Romano sentì lo stomaco diventare di ghiaccio. Quella bolla di gelo si dilatò arrestandogli il battito e facendogli diventare il viso di pietra. Gli occhi tornarono larghi e lucidi, affogati in un lampo di panico come quando avevano visto Germania sparare a Grecia. Romano spostò le spalle all’indietro, si allontanò da quelle parole e dall’ombra di quello sguardo che non riusciva a riconoscere. Ma si è... si è bevuto il cervello? Le sue labbra tremarono, la voce suonò rauca e scossa da un brivido. “Ma cosa stai dicendo?”

Italia guardò in basso, sfiorò le ginocchia con la fronte, e schiuse le labbra per rispondergli.

Una voce colse entrambi alle loro spalle. “Italia.” Si infilò fra loro come lo squarcio di un coltello e lacerò la loro bolla di solitudine.

Italia sobbalzò per primo, sentendo il cuore fare una capriola. Sgranò gli occhi che persero il velo d’ombra, tornando lucidi e chiari, e si girò di scatto. “Germania.” Lo chiamò ancora prima di incrociare il suo sguardo, quel nome scivolò dalle sue labbra con il suono di una preghiera.

Romano schiacciò i pugni fino a sentire le unghie ficcarsi nella carne, fino a che il bruciore fra le mani soppresse quello che si era riacceso nel petto, incendiandogli gli occhi e le guance di rabbia. Girò la guancia, scagliò un’occhiataccia di fuoco a Germania da sopra la spalla, e digrignò i denti mordendosi il labbro.

Germania incrociò quello sguardo di disprezzo che lo stava incenerendo di sbieco e lo ignorò, guardò solo Italia. Prese un breve respiro. “Ti cercavo.” Stette composto, le spalle dritte e le mani raccolte dietro la schiena, lo sguardo alto e in luce.

Italia sussultò. “Oh.” Le parole si congelarono in bocca e i suoi occhi rimasero magnetizzati su quelli di Germania. Solo l’ombra della bandiera a dividerli.

Romano sentì un altro ribollio di rabbia brontolargli nella pancia. Saltò giù dalla cinta di pietre, afferrò la mano a Italia, fece scendere anche lui, nonostante la resistenza del suo braccio, e lo portò via. “Andiamocene.”

La mano di Italia fremette sotto la sua, irrigidì. “No.” Italia frenò la camminata, tirò via la mano e si strinse il polso. “I-io...” Compì un passo indietro, guardò per terra, ma gli occhi scivolarono inconsciamente su Germania. Dalle sue labbra soffiò un mormorio che si perse nel vento. “Io resto qui.”

Romano spalancò le palpebre, ingoiò una boccata di incredulità. “Sei scemo?” Tornò a tendere la mano verso la sua, gliela sfiorò. “Muoviti o...”

Italia la strappò via, fece un altro passo all’indietro, e gli lanciò un’occhiata di dolore e supplica. “Vai via, Romano.”

Romano sentì una pugnalata affondare nel cuore. Lo lasciò a bocca aperta, gli occhi scavati in un’ombra di sconcerto. “C-come?” Ebbe anche lui l’istinto di compiere un passo all’indietro.

Italia nascose lo sguardo da suo fratello, e tornò a stringersi un braccio in un gesto di protezione. “Vai via,” mormorò con voce triste, già pentita. “Lasciami solo.”

Dentro Romano crebbe un’ondata di odio liquido che gli chiuse lo stomaco, riversandosi in bocca con un sapore così amaro e viscido da fargli sbiancare le guance. Romano tornò a schiacciare i pugni, le vene si gonfiarono, le mani divennero rosse, ingoiarono tutte le fiamme che gli gridavano di sollevare il braccio e di scaricare un cazzotto sulla faccia di Italia. Gettò lo sguardo a terra, un fremito gli attraversò la bocca e fece sgusciare un insulto che suonò come uno sputo. “Vaffanculo.” Pestò i passi sfilando di fianco a Germania senza nemmeno guardarlo. “E vaffanculo anche a te.” Diede un calcio a un sasso, la pietra sbatté sull’asta della bandiera e rotolò all’indietro, accompagnando il suono della sua camminata che si allontanava. Gli occhi di Germania e di Italia non si scollarono dalla schiena di Romano fino a che la sua sagoma non fu completamente sparita all’orizzonte, dietro le colonne dei templi.

Un soffio di vento si intrufolò nel loro silenzio, spazzò una nebbiolina di polvere fra le loro gambe, sassolini scricchiolarono contro le rocce più grandi, e la bandiera diede una sventolata più violenta, simile a un boccone addentato all’aria.

Italia si strinse nelle spalle, stropicciò un angolo della giacca fra le dita che cominciavano a sudare e a tremare, e si affrettò ad allontanare gli occhi da quelli di Germania. Li concentrò sulla venatura grigia a forma di saetta che scavava la superficie di una delle rocce. Deglutì, sciolse il formicolio di imbarazzo che gli pizzicava nello stomaco. “S... scusa.” Tornò a percorrere con lo sguardo la lunghezza della venatura e si soffermò nel punto in cui diventava più profonda, riempiendosi di muschio. Tenne gli occhi incollati a terra. “Romano è un po’ di cattivo umore.”

Anche Germania guardò in disparte, strinse e riaprì le mani dietro la schiena per districare i groppi di tensione. Scosse il capo. “Non ti preoccupare.”

Un’altra ondata di silenzio li investì, accompagnata da un panno d’ombra scivolato davanti al sole che rese l’aria più fredda e pesante.

Italia inspirò ed espirò, si schiarì la voce. “Ehm.” Rivolse l’indice al Partenone e forzò un minuscolo e tremolante sorriso di circostanza. “S-sei venuto a vedere l’Acropoli?”

Germania scattò come se l’avesse punto. “Io...” Lo sguardo scivolò sul viso di Italia e tornò a cadere a terra. Una spolverata di imbarazzo tinse anche le sue guance. “Uhm. Sì,” si affrettò a rispondere. “I... i monumenti sono molto belli. Tutta quest’arte, in realtà...” Guardò alle sue spalle, superando l’ombra della bandiera che sventolava su di loro, e ripercorse il profilo del Partenone. Una sfumatura di ammirazione e rispetto gli attraversò gli occhi. “È qualcosa che la mia cultura ha sempre invidiato alla vostra.”

Italia annuì. “Anche il nonno l’amava molto.” Spostò il peso dai talloni alle punte dei piedi, e tornò a riappoggiare le suole. “L’ha trasmessa a me e a Romano.”

I loro sguardi si incontrarono di traverso, sfiorandosi in silenzio, delicati come il tocco di una piuma. Di nuovo si separarono di colpo, divennero entrambi più rossi ed esitanti.

Italia deglutì. Il cuore accelerò, gli fece sentire il respiro battere direttamente in gola. “Uhm.” Tentennò, si mangiò le parole fra le labbra, e ritornò a stropicciare un angolo della giacca. Le mani ripresero a sudare, la gola si seccò, le guance pizzicarono, ma una spinta di coraggio arrivò come una pacca sulla spalla, gli schiarì la voce. “Germania, io –”

“Volevo dirti che...”

Entrambi si morsero la bocca e non finirono la frase.

Italia soffiò una soffice risata fra le labbra e il rossore di imbarazzo si dilatò su tutto il viso. “S-scusa. Volevi...”

“N-no, no.” Germania scosse la testa, si girò di profilo e tornò a tossicchiare. “Prima tu.”

“No, va bene, prima tu.”

Germania si strinse nelle spalle e tenne gli occhi lontani. “Non era importante.” Sospirò. “È che...” Si strofinò il capo con gesti più rapidi e nervosi. La voce si perse in un mormorio. “Non so come...”

“Ehm, ti...” Italia scivolò in disparte e indicò la cinta di pietre che si affacciava al panorama della città, mostrò di nuovo quel piccolo sorriso di imbarazzo che prima gli aveva imporporato le guance. “Ti va di sederti?”

Germania ridivenne rigido e si affrettò ad annuire. “Certo.”

Si sedettero entrambi, una pietra di distanza a separarli, e rivolsero entrambi gli sguardi ad Atene, lasciando cadere le gambe verso la parte spiovente. Il sole cominciava a calare, il cielo attorno ai colli sfumava in una tenue tinta rosa che si accendeva di arancio quando attraversava le venature fra le nuvole. Ombre lunghe e scure si riversavano sulla vallata, dove i raggi del sole si concentravano, più chiari e intensi, come una doccia d’oro sui tetti color mattone che componevano la città. Italia prese dei respiri più profondi per rallentare il battito del cuore e per sciogliere i nodi di nervosismo che gli torcevano la pancia. Fece dondolare i piedi, spanse il formicolio che correva attraverso le gambe, e spostò lo sguardo sul fianco di Germania che gli sedeva accanto. Le loro mani, entrambe aperte sulla cinta di mura, non si toccavano. Quell’immagine gli trasmise una spina di dolore che penetrò fino in fondo al cuore.

Germania guadagnò un sospiro che gli rese la voce di nuovo ferma e dura. “In realtà io ero...” Girò lo sguardo, incrociò quello di Italia, senza paura, e la luce più scura e morbida del tramonto gli sfiorò il viso tingendolo di arancio. “Ero venuto a cercarti,” gli confessò. “E sapevo che ti avrei trovato qui.”

Italia si morsicò il labbro, strinse i pugni sulla pietra, e tornò a guardare lontano. “Oh.” Passò un alito di vento, e una prima scia di brividi corse lungo la sua schiena, lo fece sentire più fragile e spoglio.

Germania mantenne lo sguardo alto, rivolto alla cornice di colli che circondava il perimetro della città. Lasciò che il sibilo del vento accompagnasse la sua voce. “Italia.”

Italia trattenne il fiato. Un fremito violento gli scosse il corpo, fino a fargli battere i denti, e un’altra ondata di ansia ghiacciata salì a sbiancargli il volto. “S-sì?” Lo stomaco si chiuse in un groppo di tensione.

Germania abbassò le palpebre. “Io volevo solo...” Esitò e tornò rigido, la sua voce profonda e sicura. “Chiuderti scusa.”

Italia ebbe un sussulto. Spostò gli occhi su Germania e finse uno sguardo interrogativo. “Per cosa?” domandò, anche se conosceva già la risposta.

Anche Germania si girò a guardarlo negli occhi. La luce del tramonto sfiorava il suo volto, tinse di rosso la sua espressione profonda, accentuò l’azzurro delle iridi. “Per quello che è successo alle Termopili.”

Italia irrigidì. Di nuovo il dolore che lo aveva trafitto quel giorno tornò a esplodergli nel petto, a farlo sentire piegato e tremante, con le ginocchia premute contro le rocce e le spalle schiacciate da un peso che non riusciva a scaricarsi dalla schiena. Scosse il capo e non volle pensarci. Non voleva più rivedere le immagini di quel giorno. “Ormai è passato,” mormorò.

“N-no, non...” Germania scosse il capo a sua volta con un gesto più deciso. “Non avrei dovuto spaventarti in quel modo. Non avrei dovuto fare una cosa simile davanti a te.”

Italia inarcò un sopracciglio, colto da un pizzicore di dubbio. Davanti a me? Un soffio di delusione raffreddò il caldo di tocco di sollievo che aveva provato quando Germania gli era tornato accanto. Allora non si è pentito di aver fatto del male a Grecia, ma solo di avermi coinvolto. Un’altra ondata di sconforto tornò a travolgerlo, a fargli sentire freddo. È come pensavo. Lui fa sempre tutto... Aprì una mano, mosse le dita, così fragili e sottili. Solo pensando a me. “Perché lo hai fatto?” Italia tornò a chiudere il pugno, e mostrò a Germania una profonda espressione di dolore e incomprensione. “Perché hai provato a uccidere Grecia?” Il suo sussurro finì trascinato via da un altro soffio di vento.

Lo sguardo di Germania tornò rigido come quello che gli aveva mostrato alle Termopili, poco prima di separarsi, quando Italia aveva provato a fermarlo. “Perché qualcuno doveva farlo,” rispose l’eco della frase che aveva già pronunciato. “Ormai è una questione di principio, Italia.” “Era necessario, Italia. E non volevo che fossi tu a farlo.”

Italia sentì la voglia di piangere crescere, condensarsi fra le palpebre bruciare all’altezza delle guance. “È colpa mia, allora.” Un pugno di sensi di colpa pesò e fece male all’altezza del petto.

Germania scosse il capo. “No,” rispose. “Non lo è.”

“Sì, invece.” Italia allontanò lo sguardo, tornò a stringere le ginocchia al petto e a posare i piedi sull’orlo delle pietre. Si raccolse nel suo buio e freddo senso di impotenza. “Se io fossi stato più forte, se fossi stato in grado di sconfiggere Grecia subito, allora tu non saresti stato costretto a fare quello.” Strinse le dita sui pantaloni, chiuse gli occhi, e accettò la sua debolezza togliendosi il peso dal petto. “So che sono io quello che deve cambiare.”

Germania lo guardò duramente. “Io non voglio che cambi, Italia,” gli rispose. “Te l’avevo già detto e continuo a crederlo. Io non voglio che tu diventi...” Come me. “Qualcuno di diverso da quello che sei.”

Una prima vampata di calore sciolse tutta la tensione che gravava sui muscoli e sulle ossa, si raccolse in un grumo di lacrime che gli infiammò le guance e bruciò fra le palpebre. Italia ingoiò il sapore del pianto. “Perché?” stridette.

La durezza nello sguardo di Germania si sciolse, rivelò la limpidezza dei suoi occhi, li rese più morbidi e sinceri. “Perché io ho bisogno di te, Italia.” Germania fece scivolare la mano accanto alla sua, senza toccargliela. “Io ho bisogno di te così come sei.”

Italia strizzò i pugni, guardò un punto fisso fra le nuvole per non spostare gli occhi e far cadere qualche lacrima. “Come,” singhiozzò, “come fai ad avere bisogno di me...” Tremò, il nodo di pianto gli inasprì la voce. “Se non sono nemmeno in grado di fermarti quando...” La vista cominciò ad appannarsi, un velo di lacrime si cristallizzò fra le ciglia. “Quando vedo che tu...” Che ti stai perdendo nel buio.

“Perché hai cercato di fermarmi alle Termopili, Italia?” gli domandò Germania. “Lo hai fatto solo per Grecia?”

Italia ingollò le lacrime incastrate in gola, si tappò gli occhi per assorbire il pianto e non farlo scivolare sulle guance. Scosse il capo. “N-no,” singhiozzò. “Io l’ho fatto...” Si tolse il braccio dagli occhi, svelò uno sguardo lucido di dolore, ancora lontano da quello di Germania. “Anche per te.”

Germania sollevò un sopracciglio. “Perché?”

Italia si girò a guardarlo, ad annegare nei suoi occhi azzurri, a parlargli direttamente al cuore. “Perché stavi affogando.”

Un’altra fitta di silenzio piombò in mezzo a loro, interrotta solo dallo sventolio della bandiera, dalla sua ombra che era calata sul volto di Germania, rendendolo più buio, gli occhi più scuri.

Italia chinò lo sguardo. “È per questo che mi sono spaventato.” Spostò anche lui la mano verso quella di Germania, senza toccargliela. “Ho avuto paura perché ti ho visto diventare qualcuno che non sei. Perché nei tuoi occhi c’era quel buio dove ti perdi quando io non riesco a raggiungerti. E io so che non sei così, Germania.” Incurvò le labbra in un sorriso triste e nostalgico che fece luccicare gli occhi umidi. “So come sono i tuoi occhi, so come sono gli occhi a cui voglio bene.”

Sul viso di Germania tornò a brillare una scintilla di vita. “Per questo voglio che tu mi stia vicino, Italia. Per questo non voglio che cambi.” Lo stesso dolore che aveva trafitto Italia si infossò anche nel suo cuore. “Perché tu sei l’unico a cui sono in grado di aggrapparmi quando sento che sto per perdermi.”

Italia chinò il capo, sconsolato come un cane che abbassa le orecchie. “Alle Termopili non ce l’ho fatta, però.”

“Continuerai lo stesso?” gli domandò Germania. “Anche dopo quello che è successo...” La sua mano scivolò un po’ più vicino e gli sfiorò le punte delle dita. “Vorrai ancora starmi vicino?”

Italia scattò, colto da una scintilla improvvisa. “Sì!” Posò la mano sulla sua d’impulso, come per paura che potesse andare via. “Sì, io...” Strinse le dita, si aggrappò a quel tocco familiare, riallacciò il legame. “Io voglio continuare,” gli disse con voce più ferma, sciacquata dal pianto che era tornato ad annidarsi in pancia. “Non ti voglio lasciare. Non ti voglio lasciare mai più, anche...” La sua mano tremò, il tocco si fece più insicuro, la luce nei suoi occhi più scura. “Anche se dovessi annegare con te.”

Germania corrugò la fronte. “Io non voglio che ti succeda niente, Italia.” Anche il suo tocco si fece più rigido. Si avvicinò per non lasciare che si slegasse. “Non voglio che qualcuno ti faccia del male. Me compreso.”

Italia singhiozzò e riuscì a piegare un piccolo sorriso di sollievo. Lacrime di gioia tornarono a riempirgli le palpebre, senza cadere, e un piacevole nodo di calore gli strinse il cuore, accelerò il battito sciogliendo il peso che gravava nel petto.

Fu naturale, quasi meccanico. A riavvicinarli bastarono quei pochi gesti che ormai erano parte di loro.

Italia gli scivolò accanto, posò il capo sulla spalla di Germania, e chiuse gli occhi, premendosi al suo fianco. Germania sollevò il braccio e glielo passò attorno alle spalle, la sua mano salì a sfiorargli il viso con una carezza soffice e ancora insicura, le dita si intrecciarono ai capelli a cui si aggiunse il tocco delle labbra. Anche Germania chiuse gli occhi. Il profumo di Italia era vivo e intenso come il battito che sentiva pulsare nel petto.

Italia gli strinse i fianchi, fece scivolare le gambe sul suo grembo e si rannicchiò, lasciando che Germania chiudesse l’abbraccio attorno a lui. La pace e il silenzio che regnavano sull’Acropoli li avvolsero, caldi come i raggi del tramonto che battevano su di loro.

Italia sospirò contro il suo petto, strinse di più le braccia, e distese il sorriso di sollievo che lo fece sentire avvolto in un abbraccio di nuvole.

La voce di Germania vibrò accanto al suo orecchio, soffiò calda e profonda fra i suoi capelli. “Se solo ti avessi allontanato di nuovo...” Le sue braccia si fecero più strette. “Non me lo sarei mai perdonato.”

Italia scosse il capo strofinandolo sul suo petto. Allontanò subito quel pensiero. “Ormai è passato.” Non voleva pensarci. Non voleva pensarci mai più.

Germania si fece più rigido sotto il suo abbraccio, le sue mani più strette, il suo viso più vicino. “Italia,” gli mormorò con un tono di nuovo teso. “Io ti prometto che ti terrò protetto da tutto ciò che potrà farti del male, come ti avevo promesso quando abbiamo firmato l’alleanza.” Gli massaggiò i capelli, accostò le labbra al suo orecchio parlandogli più piano. “Ma sai che azioni del genere dovranno ripetersi, vero?” Quel soffio di voce gli scaricò un brivido lungo la nuca e lungo la schiena. “Soprattutto adesso che le battaglie si faranno sempre più dure e i nemici sempre più forti.”

Italia irrigidì l’abbraccio a sua volta, chiuse di più le gambe e rabbrividì. “Quindi...” Premette la fronte sul suo petto, fronteggiò la croce di ferro. “Non ci fermeremo?”

Germania scosse il capo. “No,” rispose. “Io voglio concludere quello che abbiamo iniziato. Io voglio davvero mantenere la promessa che ho fatto a te, a Giappone, e alle nostre nazioni.”

Italia annuì con convinzione. “Sì. Ora... ora lo sto capendo sul serio.” Fece scivolare la guancia sul petto di Germania e tornò a rivolgere lo sguardo ad Atene, tinta di rosso dalla luce del tramonto. Un piccolo sorriso di consolazione gli toccò le labbra. “Forse questa guerra in Grecia non è stata del tutto inutile,” considerò. “Mi ha fatto capire tante cose. E mi ha cambiato.” Sfilò un braccio dal fianco di Germania e si strinse il petto, raccolse le forze che gli battevano nel cuore. “Da ora in poi io non avrò paura di niente.”

Germania sospirò, il corpo di Italia si mosse seguendo il gonfiore del suo petto, e la sua voce suonò più soffice. “Promettimi solo una cosa, Italia.”

Italia sbatté le palpebre, sollevò il viso, e si trovò con il tocco di Germania già posato sulla guancia, a intiepidirgli la pelle.

Germania lo guardò negli occhi, lo sguardo di nuovo limpido e pulito, toccato dalla luce del tramonto e animato da quella scintilla di timidezza che Italia conosceva bene. “Che tu non cambierai mai per me.”

Italia sussultò, e qualcosa si riaccese nel suo cuore, come la luce dorata di uno scrigno che si riapre dopo essere stato sepolto sottoterra.

Germania distese la mano sulla sua guancia, tornò a intrecciare le dita fra i suoi capelli, tenne lo sguardo fisso sul suo. “Io ti sono vicino per aiutarti quando hai paura, e per aiutarti a rialzarti quando non riesci a stare in piedi da solo. Perciò non cercare di essere coraggioso fin dove non puoi, non spingerti verso limiti che non puoi superare. Perché io...” La sua mano tremò. Germania girò il viso contro la spalla per nascondere l’espressione sfumata di rosso. Si affrettò a finire la frase. “Io tengo a te per quello che sei.”

Quelle parole esplosero nel cuore di Italia. Un lampo di dolore, gioia e pentimento, che gli travolse la vista, catapultandolo nella luce dei suoi ricordi. L’eco di quella frase rispose con la sua voce, più sottile e piccola, scossa dai singhiozzi di pianto che finivano soffocati dai pugnetti strofinati sugli occhi bagnati. “Io non voglio che tu diventi più forte, Sacro Romano Impero, a me tu piaci così come sei.” Una spazzata di vento trascinò via il ricordo da davanti i suoi occhi, gli lasciò il cuore pietrificato, l’espressione congelata in quel dolore che aveva sepolto per così tanto tempo nella sua anima.

Le lacrime scesero a bruciargli le guance prima ancora che si accorgesse di avere gli occhi umidi. Italia si premette le mani sulla bocca, strizzò le palpebre lasciando sgorgare il pianto fra le dita, e soffocò tre singhiozzi di seguito che gli fecero male al cuore. Affogò fra le braccia di Germania, lasciandosi strappare dalle immagini del ricordo, fuori da quel dolore che non se n’era mai andato, e soffocò il pianto contro il suo petto. “Non mi lasciare più.” Gli allacciò le braccia attorno al collo e si aggrappò alle sue spalle per non cadere nel vuoto che aveva sentito aprirsi sotto di lui. “G-giuro che...” Singhiozzò ancora. Il sapore delle lacrime gli entrò in bocca. “Che non ti abbandonerò mai.” Scosse il capo contro la sua spalla, i battiti del cuore accelerarono, infiammati dal turbine di paura che gli aveva riempito il petto. “Non ti lascerò mai più.” Inspirò, placò i singhiozzi, soffocò quelle ultime parole accanto al suo viso, lasciandole scivolare come una promessa, come una condanna. “Anche se morirò con te.” E non seppe nemmeno lui a chi lo stesse dicendo. Se a Germania o se al fantasma di Sacro Romano Impero.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_