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Autore: _Lady di inchiostro_    24/09/2017    3 recensioni
Non l’avrebbe dimenticato mai. Non avrebbe mai dimenticato il momento in cui Iwaizumi fece la sua entrata in scena in palestra, il braccino di una ragazza di cui non ricordava nemmeno il nome tenuto sotto il suo, decisamente più grande. Nessuno lo stava guardando, solo Oikawa lo stava facendo, e dio solo sa quante volte si era ritrovato a fissarlo di sottecchi. Era un totale disastro, le maniche dello smoking erano troppo corte e il celeste della cravatta era totalmente sbiadito, ma per Oikawa era ugualmente stupendo.
[…]
Un’immagine gli apparve davanti, e si ricordò dove avesse già visto Oikawa con un completo bianco addosso: era durante il ballo scolastico, indossava un completo simile a quello che aveva provato quella mattina, e avevano la cravatta dello stesso colore, sebbene la sua fosse di un celeste più acceso. Aveva incrociato il suo sguardo, al centro della pista, e si era sentito morire.

~
[IwaOi, sai che novità] [Tanto angst e citazioni a caso] [Attenzione: tematiche leggermente delicate] [Al mio Kit Kat dal suo Bounty ♥]
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Tè&Caffè'
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Questa storia fa parte della serie "Tè&Caffè". Si consiglia la lettura delle precedenti storie per comprendere meglio le dinamiche
 


 
Oikawa sa che, in fondo, ovunque vada, indipendentemente da quanto ci metta, Hajime torna sempre.
[Tratta da "Roots", di Sarck, a cui dedico la storia]

 






Caffè al caramello








«Sveglia, Iwa-chan! È già mattino!»
Il ragazzo in questione, nascosto dalla sua bella coperta autunnale, mugugnò da sotto quella matassa, la testa che gli pulsava. Decisamente, odiava quando Oikawa lo svegliava in quel modo, specie dopo aver dormito soltanto due ore per via della sua stramaledettissima insonnia; preferiva di gran lunga quelle mattine in cui lo richiamava con un tocco leggero sulla sua pelle ispida, un sorriso dolce che gli appariva davanti non appena apriva gli occhi. Ma non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce.
«Un’altra giornata di lavoro ci attende!» cantilenò con quella sua vocina fastidiosa, e Iwaizumi produsse un verso di frustrazione, scostando poi la coperta con violenza. Se le prime luci del mattino gli ferirono le cornee, il bianco brillante del completo che indossava Tooru non aiutava di certo. Storse il naso.
Stava per chiedergli da dove diavolo saltava fuori quel completo da gelataio, con tanto di camicia blu e cintura fucsia, quando i suoi occhi ricaddero sul vassoio che il ragazzo teneva in mano, ricolmo di leccornie. «Non è il mio compleanno…» disse, indicandolo, la bocca colma di saliva.
«Lo so!»
«E il nostro anniversario è passato da un bel pezzo…»
«So anche questo!» Sbuffò. «Andiamo, Iwa-chan, il tuo ragazzo non può portarti la colazione a letto senza che ci sia un motivo preciso?»
«Un ragazzo normale forse sì – s’interruppe, quasi come se fosse un attore e stesse pregustando la successiva battuta, mentre il castano posava il vassoio sulle sue gambe –, ma tu sei Oikawa Tooru, c’è sempre un secondo fine quando fai queste cose!»
«Sei ingiusto con me, Iwa-chan!» disse, gonfiando le guance e incrociando le braccia, gli occhiali che gli scivolarono sul naso. «E dire che ti ho anche preparato un caffè speciale!»
«Un caffè speciale?» In effetti, assieme alle consuete tazze che utilizzavano lui e Oikawa per bere le loro rispettive bevande a colazione, c’era anche una tazzina da caffè, una di quelle che aveva ordinato assieme al caffè dall’Italia. Osservò il contenuto con un certo cipiglio: non era il solito marrone scuro tipico del caffè, aveva un colore più simile al nocciola; e quell’idiota ci aveva messo la panna, seppure gli avesse detto un centinaio di volte che odiava il caffè con la panna. «È caramello quello che sento?» disse, dopo aver preso la tazzina e aver sentito un odore estremamente dolce perforargli le narici.
Tooru batté le mani allo stesso modo di un bambino cui avevano appena regalato un leccalecca gigante. «Sì, ho pensato che sarebbe stato divertente variare, una volta ogni tanto, no? Insomma, io prendo il tè in diversi modi, ma tu? Prendi sempre il caffè allo stesso modo, a volte sei proprio noioso, Iwa-chan…» Si rese conto di non star guadagnando terreno con quell’affermazione, il detective che lo fissò con astio. «Così ho voluto provare a fare il caffè al caramello! Ci sono un sacco di tutorial su YouTube!»
«Pessima idea…» mormorò l’altro, avvicinando il bordo della tazzina alle labbra. Avvertì il retrogusto dolciastro della panna e del caramello sulla lingua, mischiato all’amarezza del caffè, e le sue papille gustative protestarono immediatamente. «Passo.»
Il castano sbuffò ancora. «Fa davvero così schifo?» disse, prendendo poi la tazzina dalle mani del suo fidanzato e assaggiando la bevanda. Fece subito una smorfia. «Okay, sì, fa proprio schifo…»
Hajime alzò gli occhi al cielo, la tazza color menta tra le sue mani. Aveva già bevuto il primo sorso di caffè – quello vero – e si sentiva rinvigorito. «Ad ogni modo, perché sei vestito in questo modo? Devi andare a vendere gelati?»
«Ti riferisci a questo?» disse Oikawa, muovendo il bacino con fare sensuale, e Iwaizumi sentì il sangue affluire molto più velocemente del solito, ma non lo diede a vedere. «Me l’ha comprato mia madre, è di Prada!»
«Un vestito fatto dal diavolo per il diavolo… Ottimo!»
Oikawa alzò un sopracciglio. «Non hai mai visto “Il diavolo veste Prada”, non ti permetto di fare queste battute!»
«Certo, perché tu puoi farle dato che l’hai guardato… Quanto, sette volte?»
«Otto, per essere precisi.»
Hajime alzò nuovamente gli occhi al cielo. «Non hai ancora risposto alla mia domanda…»
«L’ho indossato perché volevo sapere da te come mi stava!» disse, facendo una piroetta, rischiando quasi di versare il tè sul parquet. «E volevo chiederti se poteva andare per la festa di stasera…»
Il ragazzo per poco non si strozzò con il caffè che stava bevendo. «Quale festa?» Si fissarono entrambi con gli occhi spalancati. «Merda, sapevo che nascondevi qualcosa dietro tutte queste carinerie!»
«Ehi!» esclamò l’altro. «Quello offeso dovrei essere io, non dirmi che ti sei dimenticato della promessa che mi hai fatto!»
«Di che promessa stai parlando?»
«Mi hai promesso che mi avresti accompagnato alla festa che si terrà ad Harvard, in onore dei vecchi studenti!»
«Cosa?» Iwaizumi per poco non rovesciò il vassoio, mentre si sporgeva in avanti. «Io non ti ho promesso nulla del genere, altrimenti me lo ricorderei!»
«Te l’ho chiesto due settimane fa, una mattina, e tu mi hai detto che mi avresti accompagnato!» protestò l’altro, puntandogli un dito contro.
«Me l’hai chiesto una mattina?» domandò, e alla risposta affermativa del compagno, si passò una mano sugli occhi. «Avevo già preso il caffè…?»
«No, ma che c’entra?»
«Non sono responsabile di quello che dico prima del caffè, lo sai!»
Ecco perché non ricordava assolutamente nulla di quella fatidica promessa. Se fosse stato mentalmente lucido, probabilmente non avrebbe mai accettato un invito del genere: la sola idea di dover passare la serata in compagnia di gente straricca, professoroni di una certa stirpe e figli di papà gli metteva già i brividi; senza contare che – conoscendolo – Oikawa avrebbe passato metà della serata a fare delle avance alle sue vecchie colleghe, mentre lui se ne starebbe stato in un angolo a bere Martini. No, era fuori discussione. Preferiva di gran lunga una serata passata in ufficio a fare gli straordinari.
«E quindi?»
«Quindi non ho alcuna intenzione di accompagnarti, Tooru!»
«Perché? Pensi che ti lascerò da solo o che ci proverò con le mie ex?» Gli occhi smeraldini di Iwaizumi si aprirono un po’ di più, e Oikawa sorrise appena. «So benissimo che odi questo genere di eventi, ma ci terrei a presentarti ai miei vecchi colleghi come il mio fidanzato! E poi, sono tutte persone simpaticissime, vedrai, ti troverai bene!»
Il detective incrociò le braccia, abbassando lo sguardo. «Non lo so… E poi, non ho niente da mettere…»
Oikawa si sedette al suo fianco, giochicchiando con il labbro inferiore di Hajime, mentre il suo era leggermente sporto in fuori. «Non fare lo scorfano brontolone…»
«Non cominciare a citare i cartoni animati, Crappykawa…»
Improvvisamente, la vibrazione tipica di un telefono cellulare li riscosse, e i loro sguardi si spostarono automaticamente verso il comodino di Iwaizumi, il telefono ancora attaccato all’alimentatore. Lo prese, rispondendo alla chiamata che stava ricevendo. «Iwaizumi.»
Spostò lo sguardo di lato, verso Oikawa, che aggrottò subito le sopracciglia. «Sì… è qui accanto a me…» disse, piano, passando poi il telefono a Oikawa. «È il capitano… Dice che gli serve il tuo aiuto…»






«Allora, capitano, a che cosa le servono i miei umili servigi?»
Un uomo sulla cinquantina, una folta barba grigia e i capelli brizzolati, alzò la testa dai documenti che stava leggendo, riconoscendo perfettamente la vocetta acuta che l’aveva richiamato. «Oikawa, Iwaizumi… Sono felice che siate arrivati così presto.»
«Si può sapere che succede qui?» Iwaizumi era rimasto un po’ sorpreso quando il capitano gli aveva chiesto di parlare con Oikawa, e il castano si era solo limitato a dirgli che dovevano raggiungerlo sulla trentatreesima strada e che gli avrebbe spiegato tutto una volta giunti lì. Arrivati sul posto, trovarono una serie di pattuglie riunite attorno alla strada, camion blindati e diversi uomini armati fino ai denti. Quella situazione non prometteva nulla di buono.
Il capitano Gates si limitò solo a lanciargli una lunga occhiata, prima di prendere una foto dalla cartella che stava esaminando e mostrarla a Oikawa. «Conosci questa donna?»
Il ragazzo strinse gli occhi, osservando da vicino quel volto che era stato palesemente ritagliato da un’altra fotografia. La ragazza aveva i capelli neri e mossi, un sorriso smagliante e due occhi scuri come la pece. «Heather…?» disse, quasi in un sussurro, facendo sbarrare gli occhi a Iwaizumi.
«Heather?» ripeté anche lui, afferrando la fotografia dalle mani del capitano per osservarla meglio.
«Devo dunque dedurre che la conoscete entrambi?» chiese l’uomo.
«Sì… È stata la mia fidanzata per un periodo, al liceo…» S’interruppe un attimo. «Le è successo qualcosa?»
Il capitano emise un sospiro. «Lo vedi quel palazzo lì?» Indicò un palazzo rosa, non troppo distante da dove si trovavano loro. «Sì è barricata dentro uno studio dentistico, prendendo come ostaggi una decina di persone. Temiamo che sia armata.»
«Che cosa?» esclamarono i due in coro, facendo sussultare l’uomo, che tossicchiò per riportarli all’ordine.
«Non vuole parlare con nessuno, eccetto te.» Puntò gli occhi su quelli di Oikawa, che si erano fatti sempre più grandi.
«Ma io non la vedo da parecchi anni… Non saprei che cosa dire…»
«Ecco perché entro in scena io!» La coppia si girò, notando solo in quel momento la presenza di un uomo, i capelli rossicci e un giubbotto verdognolo addosso. Porse a entrambi la mano. «Sergente Oak, della squadra dei negoziatori. Tu sei Tooru Oikawa, giusto?» domandò, prendendo alla sprovvista il castano, che annuì. «Molto bene, lascia che sia io a guidarti mentre parli con Heather. Cerca di assecondarla e di non pressarla troppo. Non vogliamo innervosirla, vogliamo solo che liberi gli ostaggi. Te la senti?»
Tooru spostò lo sguardo dal sergente, al capitano, al suo compagno di avventure, finché non si posò sulla serie di fotografie che si trovavano sopra il cofano della macchina. Ne prese una, le sopracciglia contratte, fissando con intensità l’immagine di una donna che abbracciava quella che doveva essere sua figlia. «C’è anche una bambina…?» chiese, usando un tono di voce così diverso dal solito, e che fece raggelare sul posto sia il capitano sia lo stesso Iwaizumi.
«Sì… Ha nove anni…» rispose il sergente Oak.
Il ragazzo guardò un’ultima volta il sorriso sghembo di quella bambina, prima di voltarsi verso il sergente e dire: «Okay, facciamolo.»





A quanto pare, la squadra dei negoziatori era riuscita a intercettare il telefono della giovane donna, per cui Oikawa avrebbe dovuto parlarle tramite una semplice chiamata. Si trovavano dentro uno dei camion blindati, seduti davanti a una serie di schermi che mandavano onde radio e altri segnali che Oikawa non capiva. Iwaizumi era dietro le sue spalle, seguito dal capitano, mentre il sergente Oak era accanto a lui. Teneva le cuffie nere che indossava ben premute sulle orecchie, il telefono che squillava incessantemente.
Ad un certo punto, una voce titubante e stranamente docile provenne dall’altra parte della cornetta. «Pronto?»
Il medico legale lanciò un’occhiata al sergente prima di parlare. «Ehi, Heather! Indovina un po’ chi sono!» disse, cercando di essere il più affabile possibile, esattamente come il ragazzino che l’aveva conquistata al liceo, ricevendo l’approvazione di Oak.
«Tooru…? Sei davvero tu…?» Ci fu un attimo di silenzio. «Dio, non riesco a credere di star parlando proprio con te…»
«Eh già, sono passati tantissimi anni!»
«E io non ho mai smesso di pensare a te…» Oikawa sentì la bocca improvvisamente secca, mentre la mano di Iwaizumi si posava sulla sua spalla e stringeva la presa con forza. Si appuntò a mente di ricordargli che lui affermava di non essere un tipo geloso, eppure quella presa avrebbe potuto spezzare le ossa a chiunque. «Vorrei tanto poterti vedere…»
Sulle prime, non seppe che cosa dire, ritrovandosi a boccheggiare allo stesso modo di un pesce appena pescato. «Beh… Potrebbe succedere, se tu… se tu lasciassi gli ostaggi, mh?» disse, dopo aver preso diverse boccate d’aria.
Purtroppo, però, la frase non sortì l’effetto sperato, poiché – dopo l’iniziale mutismo – la donna andò su tutte le furie, inveendo contro Oikawa. «Così quei bastardi mi porteranno via da te? Non se ne parla proprio!»
Poi, si udirono due colpi di arma da fuoco, e il castano balzò sulla sedia, il cuore che batteva allo stesso ritmo di una mandria di buoi impazziti, gli occhi spalancati, l’iride che si confondeva con la cornea. Ripensò al viso sorridente di quella bambina, la paura che le fosse successo qualcosa che lo pervase come una folata di vento in pieno inverno. Non la conosceva, tuttavia la sola idea che la madre potesse ritrovarsela morente tra le proprie braccia lo terrorizzava.

«Resta con me, Oikawa, ti prego! Resta con me!»

Deglutì fiotti di saliva. «Okay, Heather, verrò da te!» urlò, senza pensarci. «Sarò io il tuo ostaggio, ma lascia liberi gli altri!»
Ci fu un attimo di silenzio, in cui Tooru ebbe modo di osservare la faccia sconvolta del sergente, probabilmente in totale disaccordo con la sua decisione. «Okay… Ti aspetto…» disse lei, prima di chiudere la telefonata.
«Ti sei bevuto il cervello, per caso?» sbottò poi il capitano Gates, ma Oikawa non lo stava degnando neanche di uno sguardo.
I suoi occhi erano solo per Iwa-chan. E in quel momento, le mani del giovane detective stavano tremando.





Iwaizumi lo stava aiutando a mettersi il giubbotto antiproiettile, quello che si portava sempre dietro e che i suoi colleghi gli avevano gentilmente personalizzato, quando il sergente Oak si avvicinò a lui.
«Ci serve una parola chiave nel caso in cui tu fossi in pericolo e servissero rinforzi…» L’uomo parve pensarci su, ma Oikawa aveva già la risposta pronta, facendo fermare per un attimo Iwaizumi.
«Caffè al caramello.»
La parola sarebbe stata il caffè speciale che il ragazzo aveva preparato al suo fidanzato quella mattina. Forse l’ultimo…
Il sergente sbatté un attimo gli occhi, perplesso, ma acconsentì ugualmente, dando poi le ultime direttive al ragazzo, un’ombra di ansia e preoccupazione che gli attraversò il viso; anche se non era lontanamente paragonabile alle ombre di Iwaizumi, sembravano pronte a divorare pezzo per pezzo la pelle di quel viso che Oikawa amava tanto. Che Oikawa si ritrovava accanto ogni mattina. L’idea che potesse sparire dalla sua vita, che non ci sarebbe più stato un domani, che non ci sarebbe stata più una vita da vivere, lo spaventava. Tuttavia, non si era pentito della scelta che aveva fatto.
«Perché l’hai fatto?» chiese poi Iwaizumi, con tono grave, mentre finiva di richiudere il giubbotto.
Il castano fece un sorriso malinconico. «Anche tu avresti fatto la stessa cosa…»
«Sì, ma io sono stato addestrato a situazioni del genere, Tooru!» sbottò, chiudendo le mani a pugno. Non avevano ancora smesso di tremare. «Tu rimani pur sempre un civile…»
«Ehi!» Il tono di voce del ragazzo era dolce, e gli prese istintivamente la mano, passando le dita sul dorso con movimenti circolari. Tenevano entrambi gli sguardi bassi. «Vedrai che andrà tutto bene…»
Ci fu un attimo di silenzio, in cui Hajime continuava a fissare quelle dita che carezzavano la sua pelle, pregando affinché quella non fosse l’ultima volta, prima di ammettere, con un pesante sospiro, quello che era radicato nella parte più profonda del suo essere da quando era accaduto l’incidente. «Non posso perderti, Tooru…»
«E non mi perderai!» disse, con determinazione, alzando gli occhi color cioccolato su quelli verdi del fidanzato e intrecciando le dita tra di loro. «Del resto, ho imparato dal miglior detective di tutta Boston, no?»
Gli fece l’occhiolino, e ad Iwaizumi scappò un piccolo sorriso, prima di spostare lo sguardo di lato, incontrando l’espressione accigliata e indagatrice del capitano. «Gates ci sta guardando…» disse, abbassando gli occhi, e Oikawa lasciò la presa.
Era snervante.
Era snervante che non potessero toccarsi, accarezzarsi, abbracciarsi, baciarsi, solo perché qualcuno li avrebbe visti. Era snervante che tutti al dipartimento sapessero della loro relazione, ma che nessuno potesse farne parola davanti al capitano. Era snervante che non potessero stare insieme. E Iwaizumi lo sapeva, diamine, che poteva compromettere le indagini per salvare la vita a Oikawa, ma non avrebbe mai rinunciato a Oikawa per il suo lavoro. Erano due cose diverse, entrambe facevano parte della sua vita. E sì, potevano convivere senza che uno dei due dovesse essere per forza trasferito in un altro dipartimento.
Il sergente richiamò Oikawa, alcuni uomini che tenevano i fucili puntati sul palazzo, e questo lanciò un ultimo sguardo al detective, gli occhi lucidi. Avrebbe voluto dirgli di non andare, che forse potevano trovare un’altra soluzione, ma Oikawa aveva già mosso i primi passi. Sillabò la parola “ti amo” in giapponese, in modo che occhi indiscreti non riuscissero a capirlo, e Iwaizumi si impose di non lasciar trapelare alcuna lacrima, seppure sentiva gli angoli degli occhi che pizzicavano da morire.
Non appena vide la figura di Oikawa che si allontanava e che si richiudeva il portone alle sue spalle, afferrò il telefono e cercò il numero di Rizzoli. E la prima cosa che disse, quando l’amica agganciò la chiamata, fu: «Mi servono tutte le informazioni che hai su una certa Heather Smith! Ora!»





 
~





La prima cosa che fece Heather, non appena si ritrovò davanti Oikawa, fu saltargli addosso e cominciare a baciarlo con foga. Il ragazzo l’aveva allontanata immediatamente, fissandola con le sopracciglia contratte, mentre lei si passava la lingua sulle labbra, un mezzo ghigno stampato in faccia. Diamine, sapeva che Heather, sotto quella maschera da ragazza per bene e dai modi pacati, nascondeva un animo diabolico, ma non pensava che fosse una psicopatica. Lasciò comunque andare gli ostaggi, e Oikawa si ritrovò a sorridere all’indirizzo della bambina, senza sapere neanche lui perché. Stavano tutti bene, per fortuna.
Lo studio dentistico era piccolo, con un enorme porta a vetri che dava sullo studio vero e proprio, mentre nella sala d’attesa c’era un enorme bancone circolare dove – probabilmente – lavorava la segretaria. Molte riviste erano state rovesciate per terra, e a una prima occhiata ci si poteva accorgere che il dentista era stato costretto a lasciare un lavoro a metà, alcuni strumenti sparsi sul pavimento.
«Non sei cambiato affatto!» gli aveva detto la ragazza, dondolandosi sui talloni, la pistola tenuta dietro la schiena. Sorrideva.
Oikawa aveva cercato di ricambiare, ma un osservatore più attento avrebbe notato che gli angoli delle sue labbra tremavano. «Anche tu» mentì, perché quella ragazza non era la stessa persona che aveva invitato al ballo di fine anno.
Aveva gli stessi occhi, gli stessi capelli legati in una treccia a spina di pesce, la stessa pelle diafana, ma quello non era lo stesso sorriso. Quella non era Heather. Era come se il fantasma di una pazza assassina si fosse impossessato di lei.
Troppe cose non tornavano. Perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere? L’Heather che conosceva non ne aveva alcun motivo, la sua vita era assolutamente perfetta, con una bella casa nella zona più popolosa di New York, con un padre farmacista e con un golden retriever di nome Astra. Certo, quando l’aveva lasciata, alla fine del ballo, aveva visto un altro lato di Heather, quello furibondo e che sarebbe stato capace di lanciargli addosso la cassettiera della sua stanza. C’era ugualmente qualcosa di diverso, e Oikawa aveva appurato che doveva esserle successo qualcosa nel corso di quegli ultimi anni, qualcosa che l’aveva trasformata in quel modo.
Qualcosa che, purtroppo, Oikawa non avrebbe mai scoperto, seduto su una poltrona della sala d’aspetto, mentre Heather andava volteggiando sul posto, ricordando i bei tempi andati. Quattro ore della sua vita se n’erano andate così, con lei che non la smetteva di parlare di loro due, delle loro uscite, chiedendogli ogni tanto se ricordasse bene o se si stesse sbagliando, e il ragazzo le dava sempre corda, senza smettere mai di sorridere.
Il problema era che, in quel momento, la donna stava ricordando il giorno del ballo, una nota dolente per il loro rapporto, e Tooru non aveva idea di dove volesse andare a parare. Tutto questo non aveva senso: aveva preso in ostaggio della gente solo per poter parlare con lui di questo?
«Te lo ricordi il colore del mio vestito?» chiese poi, ridendo, e quella risata fece raggelare Oikawa sul posto.
Sorrise ancora, fingendo una punta di tenerezza nella voce. «Certo, era rosa antico, vero?»
«Ma che bravo, e ti ricordi che mi hai portato una rosa dello stesso colore?»
«Certo che me lo ricordo.»
«Ah, ci guardavano tutti, te lo ricordi?» Il ragazzo annuì, perso in quello sguardo sognante che assomigliava molto a quello di una delle protagoniste dei libri di Jane Austen, ma decisamente più inquietante. «E ti ricordi anche di come ti sei messo a fissare Iwaizumi, mh?»
Oikawa si bloccò, le mani che andarono a stringere i braccioli della poltrona con forza. Non l’avrebbe dimenticato mai. Non avrebbe mai dimenticato il momento in cui Iwaizumi fece la sua entrata in scena in palestra, il braccino di una ragazza di cui non ricordava nemmeno il nome tenuto sotto il suo, decisamente più grande. Nessuno lo stava guardando, solo Oikawa lo stava facendo, e dio solo sa quante volte si era ritrovato a fissarlo di sottecchi. Era un totale disastro, le maniche dello smoking erano troppo corte e il celeste della cravatta era totalmente sbiadito, ma per Oikawa era ugualmente stupendo. Allora non aveva avuto il coraggio di dirglielo, di mollare tutto e andare a baciarlo seduta stante, davanti a Heather, davanti a quella ragazza di cui non sapeva neanche il nome, davanti all’intera scuola. Era solo stato capace di scappare, ad Harvard, perché Iwa-chan stava cominciando un nuovo capitolo della sua vita, e non aveva bisogno della sua presenza.
Solo dopo anni avrebbe scoperto che anche per lui era sempre stato lo stesso.
«Sai, allora non ci diedi troppo peso, ma adesso tutto torna ad avere un senso…» La voce di Heather lo riportò alla realtà, il respiro bloccato in gola. «Ora capisco perché hai pronunciato il suo nome mentre stavamo per fare sesso…»
Ahia.
Quel momento era stato il più imbarazzante della sua intera esistenza, una serie di nastri invisibili che gli stringevano lo stomaco, ripensando al sorriso docile di quella giovane che parlottava con Iwaizumi, quest’ultimo che sorrideva a sua volta. Gli dava fastidio, eppure si sentiva impotente, non poteva dirigersi verso di loro come un razzo, urlando ai quattro venti che Iwa-chan era solo suo, solo suo. Allora, aveva solo diciassette anni, e sebbene avesse compreso benissimo la natura dei sentimenti che provava per Iwaizumi, aveva anche compreso che quest’ultimi non erano ricambiati. E si era sbagliato, eccome se si era sbagliato.
Ma non poteva farci più niente, oramai. Non poteva riavvolgere il nastro e tornare indietro, evitando così la figuraccia davanti a Heather, il suo volto rosso di rabbia, mentre lui abbassava lo sguardo. Quella sarebbe stata la prima volta per entrambi, e l’unica cosa cui stava pensando era che avrebbe voluto farlo con Iwa-chan.
«Heather…» mormorò, ma si fermò, un fischio che gli perforò il timpano.
Avvertì qualcosa di denso e caldo che gli bagnava il sopracciglio, e prima di realizzare che quello fosse sangue, i suoi occhi erano già puntanti sulla canna della pistola ancora fumante. Aveva sparato. Aveva sparato, a pochissimi centimetri dalla sua testa, ferendogli un sopracciglio. Il castano spostò lo sguardo dal foro lasciato sul muro, agli occhi brucianti di rabbia di Heather.
«Sta zitto!» sibilò. «Ti rendi conto di come mi sono sentita umiliata in quel momento?»
Avrebbe voluto rispondere, ma lei premette la pistola contro la sua guancia, e il suo respiro si fece sempre più accelerato, mentre due occhi vitrei e scuri lo fissavano come se fosse un reperto alieno.
«Perché sono qui… Heather?» osò chiedere, anche se gli mancava l’aria.
La ragazza, dapprima, rispose con una risata sprezzante, simile a quelle che fanno le streghe nei cartoni animati per bambini, solo che quella era la realtà e Oikawa aveva una pistola puntata contro e pronta a fare fuoco. Poi parlò: «Sai, dopo che tu mi hai lasciato, la mia vita è andata in frantumi. I miei hanno divorziato, mio padre ha perso l’attività e la mia adorata Astra è morta…» Aumentò la pressione sulla guancia di Oikawa, che adesso la stava fissando in cagnesco. «Mentre tu ti sei laureato ad Harvard, piccolo pezzo di merda. E ho visto che lavori con Iwaizumi e che risolvete un sacco di casi insieme. Sei finalmente riuscito a scopartelo, eh, Tooru?»
Il castano sentiva la guancia e il sopracciglio che bruciavano, mentre chiuse gli occhi e ripensava all’ultimo sguardo che si erano lanciati lui e Hajime.
Certo, non era difficile trovare qualche informazione su di loro tramite Internet, non erano mica agenti della Cia, era normale che i giornalisti scrivessero i loro nomi sugli articoli di cronaca. Era probabile che Heather avesse architettato tutto questo casino solo per poter avere l’occasione di incontrarlo faccia a faccia. Ma perché adesso? Perché dopo tutto questo tempo?
«Che cosa vuoi, Heather?» sbottò poi, alzando la tonalità della sua voce.
La ragazza inclinò la testa di lato, un sorriso malefico stampato in faccia, l’indice che tremava sul grilletto. «Non l’hai ancora capito, Tooru? Voglio rovinarti la vita…»





«Heather soffre di problemi psichici?» Per poco Iwaizumi non balzò sulla poltrona del camion blindato, gli occhi totalmente spalancati e che fissavano un uomo di mezza età, la testa china, accompagnato da un ragazzo molto più giovane di lui.
Non era così che se lo ricordava, il padre di Heather. Non che avesse chissà quanta confidenza con quella ragazza, era una delle più amate al liceo, non solo per gli ottimi voti ma anche perché era un ottima ginnasta. E lei, insieme ad alcune sue compagne, era una di quelle studentesse che sbavavano dietro ad Oikawa, lanciandogli qualche occhiatina durante gli allenamenti di pallavolo. Eppure, ricordava che quell’uomo era sempre stato una persona dai modi pacati e gentili, sebbene i suoi vestiti fossero impregnati del fumo dei suoi sigari.
Adesso che l’aveva davanti, non solo Iwaizumi si era accorto di quanto fosse dimagrito dall’ultima volta che l’aveva visto, ma anche di quanto fosse… fragile. Come se stesse cercando di raccattare i cocci della sua vita oramai in pezzi, ferendosi inevitabilmente le mani. Si sentiva quasi in colpa nell’averlo coinvolto in quel casino.
L’uomo si passò una mano sul viso, l’altra tenuta saldamente sul bicchiere di plastica colmo di caffè. «Ha avuto un crollo dopo che io e sua madre ci siamo separati… Credevo che la terapia stesse funzionando…»
«È colpa mia» disse il ragazzo dietro le spalle dell’uomo, le labbra serrate. Era lo psichiatra della ragazza. «Avrei dovuto accorgermi che non stava più prendendo le medicine. È stata una mia negligenza… La prego di perdonarmi…»
Rimasero tutti in silenzio, Iwaizumi che intanto continuava a mordersi l’interno della guancia. «Non capisco, però, cosa c’entri Oikawa con questa storia…»
«Associa tutto quello che le è accaduto di brutto in questi anni alla sua rottura con quel ragazzo» rispose lo psichiatra. «Quasi come se la colpa fosse sua.»
Iwaizumi annuì appena, il viso contratto in un’espressione che il ragazzo giurò fosse paragonabile a quella di un povero disperato che urla dagli inferi. Non conosceva quel giovane detective, eppure non ci voleva molto per capire che teneva davvero al suo compagno. Mentre stava facendo questi pensieri, qualcuno fece il suo ingresso nel furgone blindato. Era il capitano Gates, e Hajime scattò subito in piedi, il cuore che gli martellava in petto.
«È ancora vivo!» disse, con affanno. «Tramite il binocolo, ci siamo accorti che c’è un’altra persona con lei.»
«Grazie a Dio!» disse Iwaizumi, risedendosi sulla sedia, quasi come se il suo corpo fosse un sacco pieno di cemento armato indurito, ricominciando finalmente a respirare.
Quando aveva sentito quel colpo d’arma da fuoco, le sue gambe si erano mosse da sole, in direzione dell’abitazione, ma il sergente Oak l’aveva fermato, dicendo che avrebbe peggiorato le cose. Se Oikawa fosse stato vivo, la sua presenza avrebbe solo infastidito ulteriormente Heather… E beh, a quel punto avrebbe potuto seriamente premere il grilletto con l’intenzione di uccidere.
Proprio mentre il capitano Gates stava cercando di esporre una possibile strategia per fare uscire Oikawa da lì, Hajime sentì il telefono vibrare dentro la tasca dei suoi jeans. Sbarrò gli occhi. «Oikawa mi sta chiamando…» disse, quasi come se la sua voce fosse il rimasuglio di qualche sogno.
Tutti si girarono verso di lui. «Impossibile, gli avevo detto di mandare un messaggio con la parola chiave nel caso in cui gli servisse aiuto!» spiegò il sergente Oak.
Per una manciata di secondi, nessuno osò fare niente, nemmeno respirare, dentro quel piccolo abitacolo, Iwaizumi che teneva quel telefono in mano come se fosse il Sacro Graal. Poi, agganciò la chiamata, inserendo il vivavoce. «Pronto…?»
«Finalmente ce l’hai fatta a rispondere, Iwa-chan!»
Un brivido freddo lo percorse da capo a piedi, e ci mise il doppio del tempo prima di esalare le successive parole. «Heather…?»
«Hai indovinato! Dio, è incredibile, Tooru ti chiama ancora con quello stupido nomignolo, non è cresciuto affatto!»
«Fammi parlare con lui!» urlò, la rabbia che saliva dentro di lui come se fosse un calderone bollente.
«Quanta fretta!» Una risata sprezzante. «Sta tranquillo, non gli è ancora successo nulla, fin ora…»
Iwaizumi digrignò i denti, e anche se non poteva vederla era quasi certo che quella donna stesse sorridendo, compiaciuta. «Che intenzioni hai?»
Ci mise un po’, prima di rispondere. «Pianifico di uccidere questo bastardo da anni. Per colpa di quelle pillole del cazzo la mia rabbia si è attenuata, ma non la mia sete di vendetta. Ho immaginato mille modi diversi per infliggergli lo stesso dolore che ha inferto a me, tuttavia…» S’interruppe un attimo, come se stesse saggiando le successive parole piene di veleno e acido. «Ti propongo un giochino, Hajime, che ne dici se vieni qui e mi dai le tue personalissime ragioni per cui non dovrei piantare una pallottola in mezzo agli occhi di questo pezzo di merda?»
«È fuori discussione, Iwaizumi, ti sta provocando!» disse a bassa voce il capitano, ma il ragazzo alzò la mano, per zittirlo.
«Se vinco, lascerai sia me che Oikawa e ti costituirai…?»
Heather ci pensò su. «Prima devi riuscire a battermi, Hajime. Anzi, facciamo che ti do un piccolo vantaggio: se rispondi a questa domanda nella maniera corretta, guadagnerai un bel po’ di punti, mmh?» Calò il silenzio per un attimo, come se Heather si aspettasse una replica a quella domanda, che non arrivò mai. «Tu ami Oikawa, non è così?»
Le sue spalle tremarono, mentre i suoi occhi verdi si alzavano su quelli blu scuro del suo capitano, gli altri spettatori che lo fissavano come se da lui fossero dipese le sorti delle loro vite, quando l’unica vita in gioco era quella di Oikawa. In quel momento, l’unica cosa cui stava pensando era che, se avesse avuto l’occasione di proteggerlo, se avesse fatto quello che non aveva potuto compiere tempo prima, allora la sua esistenza sarebbe valsa a qualcosa. Oikawa l’avrebbe odiato a morte, perché si erano ripromessi che nessuno doveva lasciare l’altro da solo, che finché avessero avuto respiro avrebbero fatto di tutto per lottare, ma in quel momento l’unica lotta che stava combattendo Hajime era quella tra il suo senso del dovere e i suoi sentimenti.
Continuò a fissare lo sguardo del capitano, e per la prima volta non gli importava nulla di quello che avrebbe pensato. Non voleva più nascondersi, non in un momento critico come quello. «Sì.»





Fino all’ultimo, fin da quanto Heather aveva fatto quella telefonata, sperava che lui non si presentasse. Preferiva di gran lunga essere abbandonato, a uno scenario in cui Iwaizumi si presentava come l’eroe della situazione, rischiando la vita. E invece, quando sentì il rumore della maniglia, il suo cuore schizzò letteralmente in gola, due occhi verdi come lo smeraldo che fecero capolino sull’uscio.
«Sono disarmato» disse Hajime, le mani alzate, mentre Heather gli puntava l’arma contro. Indossava solo la camicia che aveva messo quella mattina, niente giubbotto antiproiettile. Tooru sperava che lo indossasse almeno sotto.
«Mi posso fidare?» disse la ragazza, le mani che tremavano contro il calcio della pistola. Iwaizumi fece due passi verso di lei, prima che lei urlasse, in preda ai deliri. «Coraggio, quali motivazioni convincenti mi hai portato?»
«Heather… C’è tuo padre qua sotto…» disse, lentamente.
«Così poco? Ti facevo più bravo, Iwaizumi!» E si girò, putando nuovamente l’arma contro Oikawa, che era rimasto fermo nella stessa posizione di prima.
Per un attimo, sperò che Heather premesse il grilletto immediatamente. Se l’era già cavata una volta, se la sarebbe cavata anche questa volta, ce l’avrebbe fatta, non avrebbe lasciato Iwa-chan da solo e immerso nei sensi di colpa. Non le poteva permette di fare del male ad Hajime, non quando la colpa di tutto questo casino era solo sua.
Non aveva messo in conto quello che avrebbe detto successivamente Iwaizumi, però. «In realtà, tu non vuoi sparare a Oikawa. Vuoi sparare a me, non è così? Sono io quello che te l’ha portato via, sono io quello di cui è sempre stato innamorato, sono io quello con cui ha fatto sesso per la prima volta… Non tu… Ed è per questo che mi odi, giusto Heather? È per questo che sono qui, vero? Perché vuoi vedermi morto…»
Accadde tutto troppo velocemente perché Tooru potesse registrarlo. L’ultima cosa che vide furono gli occhi di Iwaizumi che si spegnevano. L’ultima cosa che udì fu l’urlo di Heather. Poi, uno sparo e il corpo di Hajime accasciato per terra.
Credeva che avrebbe urlato. Almeno, nei suoi sogni urlava sempre, piangeva, si conficcava le unghie nella carne delle braccia, fino a farsele sanguinare, ma in quell’occasione non riuscì a fare niente di tutto ciò. Era come se gli avessero tolto il respiro, la capacità di parlare, mentre se ne stava a fissare il corpo immobile di Iwaizumi con la bocca semi spalancata, calde lacrime che gli solcavano le guance. Facevano male, bruciavano più di un ustione.
Voleva chiudere gli occhi, sperando di riaprirli e di ritrovarsi accanto il viso di Iwaizumi, realizzando che quello era stato un ennesimo incubo, ma non ci riusciva. Quello non era un incubo, quella era la dannata realtà, e Iwa-chan era… era…
Si lasciò sfuggire un singhiozzo, e ora sarebbe stato pronto a urlare, se non fosse che Heather si era voltata verso di lui, le mani che continuavano a tremare. Non riusciva a prendere bene la mira. «E ora tocca a te, figlio di puttana…» disse, non mettendoci però lo stesso disprezzo di prima.
Il castano si era oramai rassegnato all’idea che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno, che non ci sarebbe stato un domani. Che non lo voleva un domani senza Iwaizumi, senza qualcuno a cui preparare il caffè, senza qualcuno da stuzzicare ogni mezz’ora, senza qualcuno da abbracciare, baciare, amare con tutto se stesso. Chiuse gli occhi, e non seppe per quale ragione, ma la prima cosa che vide fu l’immagine di Iwaizumi, da bambino, che gli mollava uno schiaffo sulla nuca. Si ricordava di quell’episodio: i loro genitori li avevano portati al mare e Oikawa si era allontanato più del dovuto, anche se non sapeva nuotare tanto bene. Era stato Hajime a ripescarlo.
Buffo. Non era vero che Iwa-chan non gli aveva mai salvato la vita. Gliel’aveva salvata un centinaio di volte.
Sentì un colpo d’arma da fuoco, tuttavia non piombò in un limbo scuro e grigio, no, semplicemente qualcosa di denso gli finì sul viso, e aveva un odore che conosceva fin troppo bene. Aprì di scatto le palpebre, rendendosi conto che il sangue di Heather era sui suoi vestiti, che la donna aveva un foro dietro la nuca e che Iwa-chan… era in piedi, lo sguardo stravolto e il respiro corto.
Si guardarono per un’infinità, il corpo di Oikawa che era scosso dai tremiti, non sapendo se tutto quello che aveva appena vissuto fosse stato solo il frutto della sua testa, o se quello fosse l’inferno e lui era semplicemente morto. Capì che si trattava del mondo reale quando udì un respiro pesante lasciare le labbra secche di Iwaizumi, quest’ultimo che si accasciava nuovamente per terra.
«Hajime!» gridò, scattando verso di lui.
Respirava a tentoni, era un suono stridulo all’orecchie di Tooru, come se avesse qualcosa bloccato lungo le vie respiratorie. Aprì di fretta la camicia, le dita che tremavano, accorgendosi che, effettivamente, il ragazzo indossava un giubbotto antiproiettile sotto, ma non era comunque riuscito ad attutire del tutto il colpo. Premette lungo la zona in cui lo sparo aveva lasciato un foro, e le urla di Iwaizumi si protrassero per tutto il piccolo studio.
«Merda!» imprecò poi Oikawa, la voce incrinata, afferrando il cellulare del detective e componendo un numero.
«Iwaizumi, che succede?» La voce del capitano era colma d’ansia, in quel momento.
«Capitano, chiami subito un’ambulanza, Hajime ha una costola incrinata e ho paura che il polmone possa essere contuso!» disse, senza dare ulteriori spiegazioni, chiudendo la chiamata e tornando a occuparsi del compagno. «Andrà tutto bene, Iwa-chan. Andrà tutto bene, andrà-»
Le sue dita si muovevano, inesperte, alla ricerca dell’apertura del giubbotto, mentre ripeteva quella frase come un mantra per tranquillizzare più se stesso che l’altro, e a fermare la sua mano fu proprio Iwaizumi, che lo fissava con le palpebre semi abbassate, il respiro che veniva sempre meno. Eppure, nonostante tutto, aveva ancora la forza di intrecciare le dita a quelle del suo fidanzato, della persona che amava. Oikawa ricambiò la stretta, baciando poi la mano del ragazzo, nuove lacrime che gli solcavano il viso schizzato di sangue.





Si stava facendo buio, alcuni raggi arancioni che gli carezzavano il volto. Osservava fuori dalla finestra, ripensando a tutto quello che era accaduto nell’arco di poche ore, una flebo attaccata al braccio e che gli iniettava in corpo un antidolorifico potentissimo. Respirava piano.
Era stata una fortuna che Heather non l’avesse perquisito, altrimenti si sarebbe accorta della pistola che teneva attaccata alla caviglia, e che avesse sbagliato mira, puntando più in basso. Certo, aveva sentito tutta la zona all’altezza del polmone fremere e bruciare come un tizzone ardente, e non sapeva con quale forza fosse riuscito a rimettersi in piedi, a impugnare l’arma e a sparare. Una parte di lui si dava la colpa, perché non voleva che le cose finissero veramente così: se molti credono che i poliziotti ci provino gusto a sparare, si sbagliano, non è sempre così.
Gli era mancata l’aria per chissà quanto tempo, e se non fosse stato per l’intervento immediato di Oikawa non sapeva che fine avrebbe fatto. Si chiese dove fosse finito, era andato a sciacquarsi il viso dal sangue di Heather, e probabilmente era per questa ragione che ci stava mettendo più del dovuto. Avrebbe voluto essere con lui, perché sapeva benissimo come ci si sentiva a lavare via il sangue di un’altra persona dalla propria pelle, ma la costola incrinata e il polmone contuso non glielo permettevano. Era inchiodato a quel lettino d’ospedale.
La porta si aprì, e invece di intravedere la figura di Oikawa, Hajime si ritrovò a sostenere lo sguardo serio del suo capitano. «Come stai?» chiese, facendo due passi verso di lui.
Iwaizumi sorrise appena. «Sono stato meglio» rispose.
Rimasero in silenzio, Gates che teneva gli occhi bassi, e Hajime aveva capito perfettamente a cosa stesse pensando, lo si poteva leggere nei lineamenti duri e segnati dal tempo del suo viso. Stava pensando a quello che aveva detto prima di andare da Heather. Mentre gli mettevano il giubbotto, l’uomo non gli aveva rivolto nemmeno la parola. Gates poteva sembrare un tipo un po’ acido, all’apparenza, ma in realtà era un uomo dal grande cuore e che sapeva fare perfettamente il suo lavoro. Ad Hajime dispiaceva dovergli mentire, in fondo.
«Capitano, io…» mormorò, dopo aver ingoiato fiotti di saliva.
«Non sono stupido, Hajime» disse, interrompendolo. «Credi che non avessi capito che tra te e Oikawa c’è qualcosa di più? Aspettavo solo il momento in cui sareste venuti a dirmelo di persona.»
Gli sorrise, mostrando i suoi denti bianchissimi, e il ragazzo rimase spiazzato, non sapendo più che cosa dire. «E a lei… sta bene? Cioè, insomma, so che non è possibile avere relazioni con i propri colleghi, comprometterebbero le indagini…»
«Hajime… Sono un uomo sposato e padre di tre figli. Mentirei se ti dicessi che io non mi sarei comportato come te, nella medesima situazione» disse. «Mi fido di voi due, siete il duo migliore con cui mi sia mai capitato di lavorare. Basta che manteniate un basso profilo in ufficio…»
«Lo faremo, signore!» scattò Hajime, sentendo un dolore lancinante al fianco, non dandolo a vedere.
L’uomo sorrise, prima che qualcun altro facesse capolino all’interno della stanza: Oikawa aveva i capelli scompigliati, una coperta di plastica che le infermiere gli avevano gentilmente messo addosso, durante la trasferta verso l’ospedale, e i pantaloni leggermente macchiati; il viso era di un colorito pallido.
«Oh, capitano, non pensavo ci fosse anche lei…» disse, anche se in realtà la sua mente era rivolta a tutt’alto. Teneva in mano due bicchierini di plastica.
«Come va?» gli chiese, con una dolcezza che Oikawa non gli aveva mai sentito.
Si ritrovò a infossare il collo, facendo un debole sorriso. «Non mi posso lamentare… grazie.»
L’uomo ricambiò, rivolgendosi poi a entrambi. «Ovviamente siete esentati dal vostro lavoro, per questi giorni.» Si voltò verso il detective. «Rimettiti, Iwaizumi.»
«Grazie signore!»
Dopo che Gates lasciò la stanza, il castano si avvicinò alla sedia accanto al letto di Iwa-chan, posando uno dei bicchieri nel piccolo comodino di plastica dura riservato a lui. «Ti ho preso il caffè…» disse, debolmente.
Hajime produsse un lamento sommesso. «Quello non è caffè, è una bomba chimica per lo stomaco!»
«Lo sai, anche il tè fa schifo!»
«Di che sa?»
«Acqua di stagno.»
Stettero un attimo in silenzio, sorridendo, prima che Oikawa calasse le labbra su quelle dell’altro, in un lieve bacio a stampo, ma di cui aveva necessario bisogno. Quello era Iwa-chan, quelle erano le sue labbra, lui era veramente lì, non se n’era andato. Non era…
«Gates sa di noi…» soffiò l’altro, distraendolo dalle sue divagazioni mentali.
«E…?»
«Gli sta bene, a patto che cerchiamo di essere discreti, almeno in ufficio!»
«Oh, meno male!» esclamò, cercando di dirlo con il suo solito tono di voce stridulo, risultando invece più simile a un rantolo.
Notando che Oikawa continuava tenere lo sguardo basso, rivolto a quel liquido arancione, le ultime luci del tramonto che gli illuminavano quella bella chioma castana, Iwaizumi continuò a parlare: «Mi spiace per la festa di stasera…»
Il medico legale si limitò ad alzare le spalle, come a voler dire che non gli importava, quando Iwaizumi sapeva che non era vero. «Puoi sempre andarci, se vuoi… Me la caverò, tranquillo, ho sempre i notiziari e le vecchie soap opere latino americane che mi tengono compagnia!» disse, riferendosi al vecchio televisore appeso al muro della camera. Aveva solo cinque canali, era davvero prestorico.
Oikawa si lasciò sfuggire una risata più simile a un singhiozzo, e passarono diversi secondi prima che lui alzasse lo sguardo verso il compagno. «Sai che cosa voglio, Iwa-chan…?» sbottò, un debole sorriso a incorniciargli il viso sempre più pallido, lasciando l’altro perplesso. «Voglio che ti rilascino al più presto, così quando torniamo a casa possiamo accoccolarci sul divano e, che so, mangiare quella patatine grassissime e che sono fritte più di una volta, mentre ci guardiamo tutti i film di Jurassic Park.»
«Tu odi i film di Jurassic Park» disse l’altro.
«Lo so, ma piacciono molto a te… E poi, tu ti sei sorbito un sacco di volte i film di Star Wars per accontentare un mio capriccio… Per una volta posso farlo io, no?»
Tutto rimase immobile, dopo quell’affermazione, se non fosse che Iwaizumi allungò la mano verso il viso di Tooru, sfiorando con il polpastrelli la ferita oramai cicatrizzata sul sopracciglio. Ci passò appena il pollice, e l’altro fu scosso dai tremiti, le spalle che sussultavano, una serie di singhiozzi che trapelavano dalle sue labbra.
«Nella mia vita sono stato abituato a tutto» sbottò poi, la bocca impastata di saliva. «Ho analizzato milioni di corpi di persone sconosciute, che fossero carbonizzati o in decomposizione, e nemmeno una volta mi sono tirato indietro. Ma se c’è una cosa cui non mi abituerò mai è l’idea di vederti morire, Hajime!»
Tenne lo sguardo inchiodato a quello del detective, gli occhi colmi di lacrime. «Per un attimo, un dannatissimo attimo, ho sperato che Heather mi sparasse, perché non riesco a immaginarmi una vita in cui tu non ci sei, in cui non devo prepararti il caffè, in cui tu sei sepolto sotto terra e io sono ancora in vita, sebbene sia morto dentro. Non…»
Si tappò la bocca con una mano, un singhiozzo più simile a un conato che rischiò di farlo vomitare, coprendo poi le sue lacrime con entrambe le mani, la testa china. «Eri lì, per terra… e non riuscivo a urlare, capisci? Io…»
Non sapeva più che cosa dire, la sua crisi di pianto che si trasformò in una sorta di urlo liberatorio, in cui il panico volò via come un palloncino abbandonato dalla docile manina di un bambino, in una giornata ventosa. E per un po’, Iwaizumi lo lasciò fare, senza dire niente, lasciando che sfogasse tutte le tossine che aveva in corpo, tutto quel male che aveva ancora davanti agli occhi e che non avrebbe cancellato mai, come lui non aveva cancellato l’immagine del sangue di Oikawa sulle dita. Sapeva fin troppo bene come ci si sentiva.
Poi, fece una cosa che neanche il castano si aspettava: si mise seduto, il dolore che lo trafisse come una lancia appuntita e che decise di ignorare bellamente. Afferrò ambedue i polsi di Oikawa, scostando le mani del ragazzo dal suo viso, che sulle prime non capì quello che stava succedendo, gli occhi gonfi e gli zigomi arrossati, ma che poi sbottò: «Iwa-chan, che stai facendo? Rimettiti disteso!»
Si era alzato in piedi, e questo fu un vantaggio per Iwaizumi, perché poté trascinarselo addosso, il suo corpo che urtò contro la ferita, ma non importava, continuava a non importare. Un’immagine gli apparve davanti, e si ricordò dove avesse già visto Oikawa con un completo bianco addosso: era durante il ballo scolastico, indossava un completo simile a quello che aveva provato quella mattina, e avevano la cravatta dello stesso colore, sebbene la sua fosse di un celeste più acceso. Aveva incrociato il suo sguardo, al centro della pista, e si era sentito morire. Si era sentito morire nel pensare cose come chiedergli di ballare con lui, o di baciarlo davanti a tutti. Si era sentito morire, perché Oikawa sarebbe stato capace di abbandonare l’idea di frequentare Harvard per rimanere con lui, per fare l’università assieme, e lui non poteva permetterglielo, non poteva rovinargli la vita in quel modo.
Non avrebbe mai immaginato che, a distanza di anni, se lo sarebbe ritrovato a singhiozzare contro la sua spalla.
Stringeva le mani sulle sue braccia, con forza, come se non volesse più lasciarlo andare via, come se volesse diventare un tutt’uno con lui, fondersi con lui. Le lacrime non si decidevano ad arrestare il loro percorso. Singhiozzarono, entrambi, per diversi minuti, le mani di Iwaizumi sulle spalle del ragazzo, le lacrime che gli offuscavano la vista.
«Ti ho fatto male?» chiese poi il castano, tra un singhiozzo e l’altro.
«No…» Attimo di pausa. «Tooru, posso dirti una cosa stupida?»
Non aspettò che l’altro desse il suo consenso, semplicemente gli avvicinò le labbra all’orecchio, la voce rotta dal pianto, le lacrime che – maledette – gli bagnavano il viso. «Grazie di amarmi…»
Era una cosa sciocca, in fondo. Non è da tutti ringraziare gli altri perché, semplicemente, provano nei tuoi confronti un sincero affetto. Eppure, Iwaizumi sentiva il bisogno fisiologico di dover ringraziare quello stupido per essere lì. Voleva ringraziarlo perché, nonostante fosse una vera e propria piattola, se non fosse stato per lui la sua vita sarebbe stata grigia e monotona. Voleva ringraziarlo per essere quel ragazzo rompiscatole che cercava sempre di strappargli un sorriso, per essere quel nerd che faceva una citazione ogni due frasi su tre, per essergli rimasto accanto nonostante avesse un pessimo carattere.
Ma le parole non bastavano, gli mancava l’aria, Oikawa aveva ricominciato a piangere più forte di prima, e quindi l’unica cosa che fece fu stampargli un bacio sulla tempia. Solo quando riuscì a placare i suoi crescenti singhiozzi, il castano fu in grado di scostarsi, fissando gli occhi dell’altro con un’intensità mai vista. Si baciarono con passione, aprendo un po’ di più le loro bocche, labbra che si mordevano e si cercavano a vicenda, bagnate da lacrime salate e colme delle paure dei due giovani. Si staccarono dopo un’infinità, premendo la fronte contro quella dell’altro, dita che carezzavano la pelle dei loro volti, e Iwaizumi baciò quelle dita, esattamente come aveva fatto qualche ora prima Oikawa.
Era tutto finito, ma quell’episodio avrebbe segnato definitivamente la loro vita di coppia. Perché, adesso, erano entrambi grati all’altro per amarlo ogni giorno di più.

 



____



A se la prende con B perché non ricorda la promessa che gli/le ha fatto.
“Non sono responsabile di quello che dico prima del caffè, lo sai”



Piacere, mi chiamo Zaira, ho vent’anni e sono cresciuta a pane e polizieschi pieni di angst. Ora capite perché scrivo storie di questo tipo, mmh?
Come al solito, prendo un prompt che dovrebbe essere simpatico e lo trasformo in qualcosa che ti ammazza di feels. Anche se, per la prima volta nella mia vita, sono soddisfatta di qualcosa che ho scritto, perché di solito non sono mai contenta. Quindi, se dovete farmi una critica, vi chiedo di essere gentili e di non smorzare troppo il mio entusiasmo :’D
Ora, passiamo ad alcune piccole spiegazioni:
-La storia prende spunto da un episodio di Castle, serie tv che adoro e dove i due protagonisti sono tipo la versione het di Oikawa e Iwaizumi. Vi prego, guardatela e amateli! ♥
-Oh, e il cognome del capitano è proprio quello del capitano di Castle, mentre il sergente Oak è una mia invenzione;
-Quando il sergente Oak chiama Oikawa: “Tooru Oikawa” è perché essendo negli Stati Uniti il nome viene ovviamente prima;
-L’outfit di Oikawa prende spunto da questa fanart, che personalmente mi ha fatto urlare per centocinquant’anni;
-Sì, mi è partito l’hc che Oikawa abbia visto “Il diavolo veste Prada” un sacco di volte;
-Sì, non vi siete sbagliati, “non fare lo scorfano brontolone” è una frase de Alla ricerca di Nemo”;
-Sì, Iwaizumi è una fan di Jurassic Park;
-Non credo che a Boston ci siano delle strade che abbiano come nome un numero, tuttavia non sapevo come chiamarla, quindi fingiamo tutti che sia così, please :’)
-Non so da dove salti fuori l’idea della fidanzata psicopatica, ma se ho urtato la sensibilità di qualcuno, vi prego, perdonatemi, non era mia intenzione. Also, Oikawa è stato un po’ cattivo, dobbiamo ammetterlo. Come si è capito, la persona con cui ha perso la verginità è proprio Iwaizumi, e forse questa cosa si vedrà in una prossima storia… *fischietta*
-Se non si fosse capito, Oikawa e Iwaizumi non potevano dire niente della loro relazione perché temevano che il capitano li avrebbe divisi, perché una relazione comprometterebbe le indagini;
Mi scuso per la mazzata di feels che vi ho inferto, non era mia intenzione *si nasconde dietro un bidone della spazzatura* Spero che abbiate apprezzato questa storia quanto ho fatto io a fine stesura. Ci terrei a ringraziare il mio Kit Kat, Sarck, che mi ha permesso di utilizzare la sua frase e che mi fa sempre un sacco di complimenti. E vorrei ringraziare chi ha recensito le storie di questa serie o che mi fa sapere che cosa ne pensa tramite un messaggio su Twitter! Vi adoro ♥
Che dire, ci si vede alla prossima storia, e vi avviso che sarà un prequel *sparisce in una coltre di fumo*
Ci si vede,
_Lady di inchiostro_
  
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