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Autore: Cheonefer86    24/09/2017    1 recensioni
Per leggere questa storia bisogna necessariamente leggere “Black Smoke” e “Dark Lovely Sea” di cui è continuo e fine (e se volete anche “I rumori della lontananza”, anche se non è necessario visto che è soltanto un brevissimo intermezzo che completa il quadro).
Severus se n’era andato lontano dal suo passato e da Harry, lo aveva fatto perché la loro storia era difficile e non voleva rovinargli ancora la vita.
E come ogni anno Halloween tornava per riportarlo indietro nel tempo, nel dolore dei ricordi, ma sarebbe sempre stato così, o qualcosa sarebbe cambiato?
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Potter, Minerva McGranitt, Nuovo personaggio, Ron Weasley, Severus Piton | Coppie: Harry/Severus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A Bitter Journey to Life'
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Vorrei ringraziare tutti quelli che hanno ricordato, preferito e seguono questa storia, soprattutto al91 che ha recensito (spero che anche il resto possa piacerti ;) grazie mille!), ma anche tutti quelli che hanno letto.

Vi adoro!

E vi lascio al secondo capitolo e, spero, buona lettura! ;)

 

Dark Garden

 

Quando riapparve, pochi secondi dopo, il cancello di Hogwarts faceva bella mostra di sé davanti ai suoi occhi, proprio come lo aveva lasciato mesi prima, e in quel momento, guardandolo, guardando tutto quello che significava quel posto, non sapeva se gli sembrava fossero passati anni o pochi istanti soltanto.

Era così confuso, frastornato, che non credeva che Minerva lo avesse portato proprio lì come se non fosse successo niente, come se non avesse lasciato che poche righe abbandonando tutto e tutti. Forse abbandonando anche una parte di se stesso che sarebbe sempre rimasta tra quelle pietre e tra tutti i ricordi di cui erano intrise, legate come se fosse stata calce.

Rimase immobile a fissarlo, solo ogni tanto spostava la testa a destra o a sinistra per sfiorare le mura con lo sguardo: cosa ci faceva lì? Si chiese, e cosa avrebbe dovuto fare?

Entrare oppure no? Andarsene nuovamente?

Erano troppe domande alle quali dare una risposta, e lui non ne aveva nessuna, fissava i contorni del castello ed era come non sapere più nulla, come se la sua mente fosse stata svuotata non appena aveva messo piede sopra quell’erba così familiare.

Snape esaminò l’anello che ancora stringeva nella mano, l’Incantesimo Passaporta era svanito, e riuscì ad osservare piccole gemme nere che s’incrociavano le une nelle altre e una piccola incisione al suo interno.

«Era di mio padre.»

Una voce lo distrasse, facendogli cadere il gioiello dalle dita, e fu solo con prontezza che lo afferrò poco prima che toccasse terra.

«Hai deciso di farmi morire d’infarto?»

Minerva McGonagall era dietro di lui e ridacchiava, mentre Severus cercava di ricomporsi: avrebbe dovuto immaginare che sarebbe comparsa da un momento all’altro visto che era stata proprio lei a lasciargli quel sacchetto che lo avrebbe condotto nuovamente su quelle terre che erano state la sua casa per anni e, forse, lo erano ancora, e sempre lo sarebbero state, perché nonostante tutto si sentiva di appartenere a  quel luogo, di avere ogni singolo angolo della scuola dentro di sé come la scuola possedeva gran parte di lui stesso.

 «Adesso appari dal nulla come Albus

«No» e smise di ridere. «Sapevo che saresti venuto.»

Sapevo di poter contare su di te…

Perché sembravano tutti sapere cosa avrebbe o non avrebbe fatto?

Era così prevedibile?

Snape si avvicinò e le porse l’anello, ma l’anziana strega scrollò la testa, rimanendo con le braccia intrecciate al petto: «Vorrei che lo tenessi.»

«Perché?»

«Ho sempre pensato che un giorno l’avrei donato a mio figlio.»

«Ma…»

«E vorrei che lo tenessi tu perché ti ho sempre considerato un po’ come un figlio» continuò prima che il mago potesse muovere obiezioni, sorridendogli. «Un figlio che vedi poco e col quale parli ancora meno, che comprendi e che hai compreso poco, che ti fa soffrire e piangere, e che più di una volta ti strappa un sorriso.»

Severus la guardava, guardava il suo sguardo supplicante che nascondeva sentimenti materni che avrebbe voluto riversare sul proprio figlio e che invece le scelte di vita l’avevano portata altrove, ad essere un po’ la madre di tutti gli studenti – alcuni più di altri – che entravano ad Hogwarts da bambini e ne uscivano quasi da uomini.

«Andiamo?» lo esortò, mentre faceva un passo verso l’entrata della scuola, e poi un altro, fermandosi al terzo per guardare il mago e aspettare che anche lui si muovesse, ma Snape non lo fece.

«Non adesso. Io non sono…» e rimase per un attimo in silenzio a fissare il castello al di là del cancello, poi tornò a guardare Minerva, confuso: «Non adesso» concluse, semplicemente, per poi voltarle le spalle e andare altrove. Lontano da lì e da tutto quello che gli ricordava.

Perché erano ancora troppi i ricordi che lo tenevano ancorato al dolore. Con il passato ormai conviveva, era stato quel che era stato e non avrebbe potuto cambiare le cose, conviveva con quello che aveva fatto, con gli occhi azzurri che aveva estirpato dalla vita su quella stessa torre che svettava e pulsava alle sue spalle come un cuore ancora vivo e come sangue che si faceva cristallo affilato pronto a trapassargli il petto.

Ciò che aveva perso negli anni viveva dentro di lui, ormai, ma esistevano immagini che ancora gli facevano male e gli toglievano il respiro, troppo recenti per farne semplicemente un altro pezzo d’anima.

Erano istantanee non ancora sbiadite di sguardi rubati tra un corridoio e l’altro, di visite improvvisate per sottrarre momenti sbagliati e baci alcolici. Di occhi negli occhi e corpi troppo vicini.

O lontani.

Di scuse d’amanti e verità mai dette.

No, non era ancora pronto a rivivere tutto quello. Non con quella confusione che albergava dietro ai suoi occhi e tutte quelle parole vecchie e nuove che si muovevano frenetiche cercando di non toccarsi.

Continuò a camminare verso Hogsmeade e poi oltre, Smaterializzandosi per poi riapparire vicino ad un sentiero che s’inerpicava verso un bosco oscuro e talmente fitto che si faceva persino fatica a respirarci dentro, ma lui proseguì, sicuro, Smaterializzandosi ancora e di nuovo fin quando non si trovò davanti ad una statua decadente di un angelo, logora del tempo e dell’umidità che permeava l’aria.

Con il volto triste rivolto a terra, gli aveva sempre un po’ ricordato se stesso quando andava a nascondersi lì, la osservava ed era come specchiarsi, come vedere la sua stessa disperazione in quegli occhi di pietra, ma lui, le ali, non le aveva mai avute. Quelle dell’angelo, invece, erano ancora lì, non più candide ma ormai sporche, ben ancorate alle sue spalle come lui aveva sempre avuto dolori e nient’altro, e peccati che ancora lo macchiavano come muffa che continuava ad espandersi.

Eppure su quel volto inerme c’era l’ombra di un sorriso, non lo aveva mai notato prima, soltanto in quel momento si accorse di quelle labbra piegate appena.

Perché lo vedeva solo adesso? Significava qualcosa?

Aveva sempre pensato che sorridere era un gesto sopravvalutato, un’azione meccanica cui la gente dava troppa importanza. Si poteva fingere un sorriso pieno di felicità mentre dentro si moriva lentamente, un sorriso di cortesia per qualcuno che si odiava e un sorriso di odio quando in realtà si voleva bene alla persona che era davanti. O la si amava.

Essersi accorto soltanto in quel momento delle labbra piegate all’insù di quell’angelo, significava, dunque, che anche lui doveva farlo?

Lo guardò di nuovo, in tralice, quella solenne tristezza e solitudine che aveva amato contemplare per giorni e notti, sorrideva anche, e lui non lo aveva mai notato.

«Perché dovrei farlo, eh?» gli chiese come se avesse potuto rispondere in qualche modo come aveva fatto il piccolo uccello spostandosi e cinguettando e infine volando via.

Che sciocco, pensò, che patetico sciocco doveva essere per finire a parlare con una statua incrostata dal tempo e ricoperta qua e là di muschio.

Ne percorse gli angoli con le dita come spesso aveva fatto sulla tomba di Dumbledore, ma non c’era niente della sua levigatezza e candore, era ruvida e sporca, con una patina umida che si appiccicava alla pelle, e non c’era nulla del calore – e del dolore – che si sentiva addosso quando pensava al mago che giaceva ormai inerme. Al suo sorriso ormai spento.

Non c’era niente in Albus del sorriso perfetto dell’angelo, il suo era così incompleto eppure così vivo e umano da farlo sentire allo stesso modo, come se meritasse di essere altrettanto vivo e fosse altrettanto umano. Ma lui era sempre stato soffocato, opaco, un essere abominevole che aveva peccato d’amore quando l’amore non era mai stato per lui.

E guardare quell’angelo, improvvisamente gli ricordava il sorriso che non poteva fare mentre guardava il sepolcro di se stesso farsi più spesso e granitico.

Sarebbe diventato anche lui una statua da mettere ai margini di luoghi remoti? O forse lo era già?

Si sentiva così immobile, impotente. Nient’altro che un pezzo di marmo che pian piano si sostituiva alla sua carne.

Sfiorò di nuovo la pietra in qualche punto, con le dita e oltre con gli occhi, poi, semplicemente, sfilò al di là di essa, lasciandosi quel sorriso e quella tristezza alle spalle, quasi fossero il passato, e salì gli scalini di roccia logora.

Dovette prestare più attenzione del solito per avanzare, quel paesaggio ormai era diverso dall’ultima volta che vi aveva messo piede, c’erano profonde crepe sulle scale, pezzi in bilico e erba che ne aveva confuso i contorni, facendoli quasi scomparire; alcuni piccoli rampicanti si ritiravano al suo passaggio, riconoscendo nei suoi passi la magia che li aveva fatti rinascere, e poi altri ancora, in alto, lenti e poi veloci, finché non scoprirono un cancello di ferro che sembrava composto di rami e foglie neri e lucidi.

Lo spinse in avanti a fatica creando un cigolio sinistro che spezzò per un attimo la quiete tutto intorno, quella sorta di oasi che lo aveva accolto più di una volta in quegli anni.

Ancora ricordava perfettamente la notte in cui era caduto ai piedi dell’angelo, sembravano passati che pochi giorni, eppure era molto il tempo trascorso da quando aveva levato la bacchetta contro Albus gettandolo ormai morto tra le braccia della gravità.

Era stato una statua priva di dolore e sentimenti di fronte alla gioia degli altri e del suo Signore, moriva dentro mentre loro ridevano, e aveva continuato a morire dentro aspettando il momento in cui avrebbe potuto andarsene, scappare a piangere ogni lacrima che aveva in corpo fino a togliersi l’anima come un vestito ormai logoro e da buttare. Uno straccio inutile.

E lo aveva fatto. Era corso lontano, in un posto che aveva scoperto per caso e aveva continuato a correre finché non aveva visto quella pietra scolpita così familiare e vi si era aggrappato disperato come se fosse stato sul punto di affogare in un mare in tempesta, cercando con forza di stringere le dita ai bordi di una barca, e lui le aveva strette ai piedi di marmo fino a farsi male, fin quando non aveva visto il sangue imbrattare tutto quel candore.

E aveva pianto davvero ogni lacrima mentre il verde che inghiottiva l’azzurro gli aveva riempito gli occhi per poi uscire di nuovo e cadere a terra, e strisciare tra le foglie e i rami finché non avevano preso vita e si erano fatte da parte per condurlo oltre tutto quello, lì dove sarebbe stato solo con se stesso. Solo con il suo dolore.

Ed era tornato in quel luogo, lì dove aveva scoperto di poter essere semplicemente Severus Snape. In silenzio. Nel buio e nella solitudine.

Ed era scappato da Hogwarts, ed era tornato lì, in tutto quello per riuscire a capire, ma cosa? Cosa esattamente doveva comprendere di se stesso e di quello che doveva fare?

Sapeva chi era. Sapeva quali fossero i suoi sentimenti. Ma era anche ben consapevole di non poter far nulla, che non dipendesse da lui.

Desiderava solo che fosse felice, e se quello avrebbe significato non vederlo mai più, lo avrebbe fatto, e si era allontanato proprio per quello. Alla fine si sarebbero dimenticati a vicenda e avrebbero continuato le loro vite, ma allora perché Minerva era andata a cercarlo?

Avrebbe potuto mandarla via, gli disse una voce nella testa, sarebbe potuto rimanere e scordarsi quella visita, quelle parole, eppure qualcosa lo aveva scosso, qualcosa in quello che aveva detto l’anziana strega lo aveva colpito, tanto da farlo tornare a casa. O quasi.

Percorse ancora una volta il perimetro del chiosco, lento, guardando ogni angolo come se lo avesse visto per la prima volta, eppure quelle colonne lo avevano sorretto più di una volta, e quei rami che correvano lungo la sommità si erano allungati e stretti spesso per proteggere il suo pianto e chiudere le urla al mondo.

Toccò alcune foglie, percorrendo ogni estremità con le dita, volendo quasi sentire la vita che scorreva fluida dentro di esse, ogni singolo atomo sulla pelle come piccole creature che si muovevano una dietro l’altra.

E avrebbe voluto ascoltare ancora una volta le sue urla disperate, il grido di dolore che gli era fuoriuscito quando quel vecchio stolto di Dumbledore gli aveva rivelato che avrebbe dovuto ucciderlo.

Lui. Levare la bacchetta contro l’uomo che gli aveva regalato una seconda possibilità, che gli aveva donato una seconda vita.

Ed era stato costretto ad ucciderlo. Su quella maledetta torre lo aveva pregato di pronunciare quelle due parole per salvare l’anima di Draco.

«E la mia anima, Dumbledore? La mia.»

«Tu solo sai se evitare a un vecchio sofferenza e umiliazione sarà un danno per la tua anima.» [1]

E poi lo aveva ringraziato. Lo avrebbe ammazzato e lo aveva ringraziato per quello.

Molte notti, dopo aver chiuso gli occhi, aveva sentito spesso quelle parole, ogni sfumatura di ogni singola lettera gli era apparsa davanti come una processione perpetua di spettri che non lo lasciava dormire. Né vivere.

E la solitudine della sua casa non lo aveva mai aiutato in quello.

Poi era arrivato lui a travolgerlo come un’onda alta e impetuosa, e nelle notti in cui il suo corpo era accanto al proprio, ogni spettro svaniva pezzo dopo pezzo, e più lo stringeva a sé, più quelle immagini scolorivano velocemente, fin quando non erano svanite del tutto.

Alla fine, però, era lui ad essere svanito.

Riprese a camminare per fermarsi di nuovo e poi voltarsi e scendere rapido gli scalini che conducevano lungo un altro sentiero che, man mano che si andava avanti, si ricopriva di rami e foglie che si facevano via via più fitti creando una sorta di copertura naturale che faceva filtrare a malapena la luce.

Proseguì svelto finché il bosco non si aprì su di una piccola radura dove l’erba alta iniziò pian piano a ritirarsi, così come lunghissimi e intricati rovi si fecero lentamente più corti ed esili, scoprendo un massiccio ponte in pietra che conduceva ad una costruzione fortificata che secoli prima – forse, non lo sapeva con certezza – era stata innalzata sopra ad uno sperone di roccia, una sorta di penisola che per trequarti si immergeva nella nebbia mentre il resto si perdeva tra una fitta schiera di alberi.

Era un luogo isolato, solitario, che aveva sempre rispecchiato il suo essere in ogni minima parte: impenetrabile a chiunque tranne che a se stesso – o a coloro che lui avrebbe fatto entrare –, circondato da spesse e forti mura che proteggevano piante e fiori di diverse specie, delicati e fragili.

Lui, beh, non si era mai ritenuto delicato né fragile, ma aveva comunque in sé cose che non voleva mostrare a nessuno, aspetti che nessuno doveva conoscere.

Per paura di essere compreso fino in fondo? Probabile.

Aveva imparato con il tempo ad essere così, a nascondersi dietro maschere ogni volta diverse che tirava fuori all’occorrenza, diverse per le diverse situazioni – o persone –, ma aveva ancora senso tutto quello?, gli chiese quella fastidiosa voce sempre nella sua testa. Aveva ancora senso far finta di non esistere, di essere vuoto? Di non provare mai nulla?

Severus sospirò dopo aver respirato profondamente tutta l’aria pulita e fredda che c’era lì, come se quella purezza avesse potuto infondersi nel suo stesso corpo, ma a cosa sarebbe servito? Lui era quello che era.

Non desiderava più finzioni né maschere. Bastava tutto. Non gl’importava che la gente lo amasse o meno, voleva soltanto essere ciò che era. Null’altro.

Voleva soltanto essere libero di poter amare.

Almeno una volta nella vita essere libero di amare davvero e senza nascondersi nell’ombra o nella sua stessa anima che veniva soltanto corrosa e attorcigliata da ciò che non poteva essere veramente.

Un passo dopo l’altro attraversò il ponte, svelto, e altrettanto veloce sfilò oltre un portico di alte colonne che cingeva un giardino su tre lati, mentre il quarto si apriva ancora oltre, perdendosi più in là tra pietre e boschi.

Arrestò i passi di fronte ad un cumulo di polvere e niente per poi piegare le gambe, spostando il mantello da una parte per essere più libero nei movimenti, e si bloccò per un attimo a contemplare le piante che si ravvivavano davanti ai suoi occhi e diversi fiori che ripresero a crescere e ad aprirsi ai suoi tocchi leggeri e a parole appena sussurrate.

La lavanda cominciò ad allungarsi e a disegnare spighe dove il viola si faceva sempre più intenso, e continuavano a tendersi mentre un giglio dietro l’altro si schiudeva, bianco, quasi accecante da dargli fastidio, ma rimase immobile ad osservarne ogni movimento e a sentirne i profumi che si espandevano nell’aria così penetranti da riempirgli i polmoni.

E continuò a guardarli come faceva un tempo, fissando le parole che i loro aromi creavano nell’aria, quelle che prima avrebbe spiato con soltanto dolore e lacrime sul volto, adesso si ritrovava a sfiorarle con nient’altro che un sorriso.

Stava davvero sorridendo? Stava davvero facendo quello che aveva sentito suggerirgli la statua dell’angelo minuti prima?

Era come se avesse voluto dirgli che occhi nuovi avrebbero visto il mondo tutto intorno in maniera nuova, diversa, ma lui non aveva occhi nuovi, lui era sempre lo stesso.

Oppure…

«Il tuo ricordo è sempre stato la mia unica felicità,» e prese una lunga pausa, trattenendo a lungo il respiro, prima di confidare al silenzio che c’era intorno, quel nome che era sempre stato un simbolo di sofferenza per lui, che gli aveva riempito il cuore mentre ogni lettera lo aveva trapassato facendolo sanguinare.

«Lily…» pronunciò infine, respirando di nuovo e sentendosi improvvisamente leggero.

Perse per un attimo l’equilibrio e dovette poggiare una mano a terra, poi fece lo stesso con entrambe le ginocchia, mettendosi più comodo per osservare le piante alla sua destra e poi quelle che crescevano alla sua sinistra, in mezzo alle quali iniziarono a farsi strada giacinti colorati di porpora che si ingrandivano come sotto al sole della primavera.

Ma per lui, lì, non era mai stata primavera. Lì ogni singolo grappolo che sbocciava perpetuo, era stato soltanto il ricordo di tutto il dolore che aveva provato nella sua vita, di ogni folle sofferenza che lo aveva reso solo ed odiato, privo di qualsiasi affetto che non aveva mai creduto di meritare.

«Perdonami.» A Lily, ad Harry, e, forse, anche a se stesso.

Quello che lui non era mai stato capace di confessare con le parole, che mai aveva preteso di ricevere – né d’esserne degno –, lo aveva svelato la magia di quel luogo per lui, trasformando i suoi silenzi in colori e fiori e profumi; e lui non aveva fatto altro che guardarli uno ad uno, guardare ogni pianta, ogni ramo e ogni spina che cresceva, sperando, nelle notti di pena e solitudine, di esservi avvolto fino a farsi prosciugare ogni lacrima di vita che aveva dentro.

Eppure…

Eppure in quel momento continuava a sorridere. Era una piega appena accennata sul suo volto, soltanto un angolo alzato, ma gli sembrava di sentire un certo tepore irradiarsi dentro se stesso, qualcosa di nuovo che mai aveva percepito prima – o forse faceva solamente fatica a ricordare.

Si mise seduto a terra, continuando a scrutare ciò che lo circondava, tutte quelle piante e quei fiori che crescevano e mutavano mentre lui, per un attimo, ripensò all'angelo, e poi più indietro e ancora più lontano nel tempo. Chiuse gli occhi al presente per osservare i ricordi, e poi li riaprì, spalancati e fissi su ciò che aveva davanti.

Di nuovo avanti.

E i fiori si mossero come spinti dal vento e cambiarono colori, forme e ogni cosa. Le tenebre di ogni speranza svanita che tingevano ogni vilucco sparirono e lasciarono spazio ad una nuova speranza. A tante nuove speranze.

E la loro assenza di profumo fu coperta da un aroma dolce e delicato che s’innalzava nell’aria mentre piccoli fiori bianchi con lievi pennellate di rosa spuntavano ovunque, oltre a dove arrivava la vista, creando un drappeggio candido più accecante dei gigli che c'erano prima.

Si rialzò da terra mentre un tappeto di biancospini aveva ricoperto tutta una porzione di giardino, e ne percorse i confini e li sfiorò, sentendoli ondeggiare uno ad uno sotto le dita; voleva sentirseli addosso, lasciare che il loro profumo invadesse i suoi abiti e poi la sua pelle, ma non voleva calpestarli né rovinare tutta quella bellezza e perfezione, e si limitò a toccarli e fissarli, sentendosi ad ogni passo più leggero, stranamente più leggero.

Cos’era che stava succedendo tutto intorno e dentro di lui?

Girò su se stesso, lento, fissando ogni angolo che poteva essere lambito con lo sguardo, e vide tutto mutare, ogni cosa che aveva osservato per anni sparire e tramutarsi in altro, in nuove piante, nuovi fiori e aromi che mai aveva sentito.

La magia di quel posto cambiava come lui, ogni suo stato d’animo, ogni sua parola che non riusciva a dire, veniva fuori in colori, ogni dolore e ogni pianto che non fuoriuscivano dai suoi occhi o quelli che, al contrario, non era in grado di arrestare, colavano a terra, ricrescendo in piante tetre dalle mille spine, contorte e alte da coprire ogni spiraglio di luce che poteva entrare.

E adesso sembrava mostrare qualcosa che lui ancora non sentiva pienamente, qualcosa che sapeva esserci ma che ancora faceva fatica a far uscire.

Trasse un profondo respiro, e continuò a camminare, un piede davanti all’altro per allontanarsi, lì dove le colonne non arrivavano, distante da quelle tinte e da quelle essenze, sotto ad un muro di pietra dove poteva scorgerle appena, come a non volersene dimenticare seppur non stando vicino, distinguerle un poco da lontano senza toccarle.

E si buttò di nuovo a terra, la schiena alle pietre fredde e gli occhi ancora una volta chiusi a pensieri che erano distanti da lì. A quel volto che sembrava svanito tra la nebbia e man mano si faceva sempre più nitido: prima pochi tratti di una matita e poi sfumature e dettagli.

E sorrisi.

E una voce.

Riaprì gli occhi, ma li tenne fissi in alto, oltre il colonnato e oltre il cielo stesso, cercando qualcosa che non c'era. Qualcuno.

Continuava a guardare sopra la sua testa quando si sentì sfiorare la mano poggiata a terra, un tocco leggero che divenne sempre più forte finché non si sentì avvolgere le dita e poi il polso e sempre più su, sul braccio fino al collo e fino alle labbra dove si schiuse un fiore viola e nero che sembrava intessuto nel velluto.

«Comincio ad odiarvi, sapete?» ma quelli continuavano a sbocciare uno dopo l’altro, sfumature che si intrecciavano le une nelle altre, smeraldi nel buio e notti che si perdevano nel verde di infinite speranze.

E fiorivano, uno ad uno, con estrema lentezza per mostrargli ogni singolo colore, così piccoli e delicati che avrebbe voluto si preservassero per sempre, come il significato che si portavano dietro e come ogni pensiero felice che aveva attraversato la sua vita.

Come il suo viso.

Perché doveva essere così difficile l’amore?

Perché ci si doveva legare a qualcuno che non poteva far parte della nostra vita?

Essere innamorati di qualcuno che non ricambiava o esserlo di qualcuno che amava un’altra persona, era tutto così stupido e ingiusto che spesso si desiderava soltanto di non provare mai un simile sentimento.

E Severus lo aveva bramato spesso, un click nella sua testa e tutto ciò che si legava a quella parola, svaniva, come se non fosse mai esistito.

Niente più sentimenti malati per Lily. Niente più peccato d’amore folle per Harry.

Forse sarebbe stato meglio se non avesse attraversato le loro vite, si disse. O, forse, sarebbe stato meglio se fosse scomparso davvero dalle loro vite, da quelle di tutti.

Tutti quei germogli, però, sembravano svelare lettere della sua anima ben diverse, e ogni viola del pensiero che si schiudeva in mille colori gli sussurrava ben altro – o probabilmente erano grida –, qualcosa che aveva paura di rivelare.

E il fiore proseguiva la sua corsa sulla sua carne.

All’improvviso una piccola luce volò rapida verso di lui, una luce che da azzurra divenne rossa e pulsante: era il segno di un intruso nelle vicinanze.

Si alzò di scatto scostando di dosso il fiore che lo aveva avvolto, e corse veloce con la bacchetta ben stretta nella mano destra, all’erta, cercando di percepire ogni minimo movimento o il più piccolo dettaglio che non c’entrava con lui e con quel luogo, corse più che poteva facendo a ritroso tutto il percorso che lo aveva portato lì dopo tanto tempo e si arrestò quando si ritrovò di nuovo vicino all’angelo, lì dove una barriera magica avrebbe dovuto celarlo a qualunque occhio.

Cercò di normalizzare il respiro, ritrovare la calma, e attese. Semplicemente.

Una testa di lunghi capelli spettinati uscì a fatica da un alto intrigo di rami e foglie, e si guardava intorno, curiosa.

Ficcanaso, specificò nella sua testa, aggiungendo ancora fra sé che lo era sempre stato, fin da quando lo aveva conosciuto.

«Come hai fatto a trovarmi?» parlò, facendo un passo avanti, oltre la barriera; un passo appena per essere visto.

«Sono il Ministro della Magia. Il mio lavoro è anche trovare le persone.»

Harry Potter, come di suo solito, come se fosse stato ancora uno studentello al primo anno, dall’alto della sua sempre presente arroganza, non si scompose affatto nell’essere stato scoperto dove non doveva essere, d’altronde Snape non lo aveva attaccato né, fortunatamente, ucciso. Lo vide sorridere.

“Irritante.”

«Pensavo fosse firmare scartoffie.» Il giovane mago non rispose, lo fissò sghembo con una strana espressione sul volto, poi raddrizzò lo sguardo e, semplicemente, sorrise. Di nuovo.

«Anche Cornelius Fudge era Ministro della Magia. E non era il massimo dell’intelligenza» aggiunse, quasi divertito, vedendo che il sorriso sul volto del giovane Ministro scompariva.

«Non paragonarmi a quell’inetto!» Lo vide scurirsi in volto, irritato, forse perché ancora ricordava con risentimento quando non aveva voluto credere al ritorno di Voldemort, accusando sia lui che Dumbledore.

«Ti manca, vero?»

Harry rimase per qualche istante in silenzio, aveva capito benissimo a chi si riferiva nonostante non avesse pronunciato alcun nome.

«E a te?»

Anche Snape comprese senza che aggiungesse altro. «Mi mancano molte persone che ho perso.»

«Lo stesso vale per me.»

Rimasero entrambi in silenzio, come se non avessero più altro da dirsi o forse ne avevano solo il timore, la paura di quelle voci che potevano rovinare ogni cosa, ne bastava una sbagliata, una detta in un modo invece che in un altro, e tutto andava in frantumi, evaporava, e non sarebbe rimasto nulla da ricomporre.

Spesso era stato così tra di loro: le parole li avevano fatti a pezzi più dei gesti.

Harry si mosse lentamente, come se avesse avuto paura di avvicinarsi troppo a lui per un motivo che non comprendeva, e prese ad accarezzare quello stesso angelo che lui aveva sfiorato allo stesso modo minuti e minuti prima, una sorta di continuità tra le proprie dita e quelle del ragazzo, e si ritrovò per un attimo, uno soltanto, a desiderare quelle mani su di sé.

Si massaggiò per alcuni secondi gli occhi, tornando poi a guardare Harry. «Non mi hai ancora detto come hai fatto a trovarmi.»

Il giovane Ministro rimase ancora un po’ a fissare quella statua, come rapito – che cosa aveva di così speciale quel pezzo di marmo? –, poi si voltò verso di lui: «L’anello.»

«L’anello?» chiese perplesso Snape.

«Sì, l’anello.» Severus non parlò e quando capì che stava solo aspettando spiegazioni – con le braccia accuratamente piegate al petto come quando era ancora a scuola – continuò: «Sì, beh…» e si grattò la nuca, quasi imbarazzato, come lo aveva visto fare tante volte, quel gesto che lo aveva sempre fatto impazzire, facendogli desiderare ogni volta di stringere quei capelli tra le dita, con forza, e tirarli mentre s’impossessava famelico del suo collo.

Cercò di allontanare quelle immagini da sé e tornò a fissarlo come avrebbe fatto con chiunque altro, in attesa di una spiegazione.

«Allora?» lo incalzò.

«Quello che ti ha dato la professoressa McGonagall,» ma Snape non disse nulla, aspettava curioso. «Le ho chiesto di fare un Incantesimo di Localizzazione, così mi è bastato seguire il segnale ed eccomi qui.»

Continuò a non dire nulla.

«Bene. Bella alleanza, la vostra.»

«Non arrabbiarti, per favore.»

«Non sono arrabbiato.»

«Non ancora, ma il viso inizia a contrarsi, e la tua deliziosa ruga della rabbia è già spuntata» e gli sorrise mentre si avvicinava, con il corpo, e con le dita verso il volto, sfiorando quel piccolo tratto ad un lato della bocca.

Come gli era mancato il suo tocco, sentire la sua pelle sulla propria, e quanto desiderava baciarlo in quello stesso momento sentendolo avvicinarsi ancora, troppo, con l’anima stessa e fino a sentirne ogni battito.

Scostò di scatto la mano di Harry, spostandosi di lato per allontanarsi da lui e da quel tormento che cresceva in lui. «Non possiamo. Non… dobbiamo

«Perché?»

«Lo sai il perché. I motivi sono gli stessi di sempre, quindi non chiederlo.»

«Severus, noi… noi dobbiamo parlare.»

Cosa c’era di strano in quelle due parole che erano capaci di affliggere così tanto chiunque?

Snape ricordava le volte in cui sua madre le aveva pronunciate, quando suo padre era ancora fuori, ricordava il giorno in cui Lily era corsa da lui, arrabbiata, e gli aveva detto quelle stesse parole ma con più decisione, senza sospensioni né tentennamenti; e gli passò davanti persino l’immagine di Dumbledore che gli aveva sorriso prima di ripetere quelle lettere ben scandite.

Non era mai stato nulla di buono. Mai.

E sapeva che in quel momento sarebbe stato altrettanto. Come poteva essere altrimenti per uno come lui? Come poteva esserci la felicità ad aspettarlo dietro l’angolo?

Avrebbe riso volentieri a tutto quello, a quella pazzia che lo aveva portato lì, di nuovo ai piedi dell’angelo a soffrire per desideri e sogni che non gli sarebbero mai appartenuti, per dolori che sembrava dover continuare ad avere.

Avrebbe voluto ridere e dare fuoco ad ogni dannatissimo fiore che era ricresciuto e ad ogni dannatissima pianta che continuava a muoversi e ad allungarsi, bruciare ogni simbolo di ogni menzogna a cui per qualche istante aveva davvero creduto.

Era venuto per chiudere tutto, ne era certo, e forse era meglio così. Era meglio gettare cumuli e cumuli di detriti sopra qualcosa che era stato destinato a morire prima ancora di nascere.

Perché allora tutto quel teatrino con Minerva, l’averlo fatto tornare ad Hogwarts, tornare lì?

Perché? Si chiese ancora e ancora, nella sua testa, anche se avrebbe voluto gridarlo. Urlarlo mentre prendeva a calci la statua e la buttava giù e la distruggeva in mille pezzi e poi ancora mille, finché non fosse diventata polvere da far volar via, da disperdere per sempre insieme alle sue speranze.

«Questo non è un buon posto per parlare. Andiamo» e lo esortò a seguirlo, e, senza dire nient’altro, oltrepassarono entrambi la barriera magica, salendo poi la vecchia scalinata, uno dietro l’altro.

In silenzio.

 



[1] Harry Potter e I Doni della Morte, Capitolo 33 – La storia del Principe

   
 
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