Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
Segui la storia  |       
Autore: whitecoffee    25/09/2017    2 recensioni
❝“Potresti abbassare il volume della tua maledetta musica? Sono almeno quarantacinque minuti che non faccio altro che sentire “A to the G, to the U to the STD”. Per quanto tu sia bravo a rappare, il mio esame è più importante. Grazie”
-W
“N to the O to the GIRL to the KISS MY ASS”
-myg
“Senti, Agust Dick, comincia a calmarti, che non ci metto niente a romperti l’amplificatore e pure la faccia.”
-W❞
rapper/photographer!YoonGi | non-famous!AU | boyxgirl
-
» Storia precedentemente pubblicata sul mio account Wattpad "taewkward"
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Trigger warning!: in questo capitolo, si affronteranno argomenti che riguardano depressione e salute mentale.
 







XXIII.
"I'm fine"


“Like a habit, I say “uh, I don’t give a shit, I don’t give a fuck”
All those saying are, uh, trying to hide my weakness
That time I want to erase.  Yeah, that day of performance that I can’t even remember,
Myself that looked back at me as I hid in the washroom, afraid of people.

[…]
There’s only one life, so I’m going to live with more fire than anyone else..
Anyone can just live along haphazardly.
My fan, my homie, my fam, don’t worry, I’m really alright now, damn

[…]
The days of trying to fall asleep on the floor of the bathroom is now a bittersweet memory.”

(Agust DThe Last)

 
 
 Y O O N G I  

 

Cominciavo a capire cosa volesse dire avere una ragazza accanto, dopo un anno intero di solitudine sentimentale: era molto piacevole, ricevere cure e attenzioni di qualcuno che non fosse i soliti amici del mio stesso sesso. I quali, con la loro rudezza e mancanza di sensibilità, mi avevano più volte spinto a ponderare il suicidio, piuttosto che dover dipendere da loro. TaeHyung era terribile, come infermiere. Una volta avevo rischiato di rimanerci secco, perché stavo per prendere la medicina sbagliata, a causa sua. Per non parlare di NamJoon: aveva il mistico dono di rompere qualsiasi cosa gli capitasse fra le mani, figuriamoci se avessi potuto chiamarlo perché mi sentivo male.
Tuttavia, a quanto pareva, un angelo dai capelli rossi doveva essermi piovuto dal cielo, quella mattina. La mia vicina di casa aveva deciso di venirmi a tenere compagnia, mentre ero troppo debole perfino per aprire gli occhi, seppur si trattasse di un banalissimo raffreddore, per me equivaleva al primo scalino della rampa dell’agonia. Un trentasette punto uno di temperatura, era per me un quaranta secco. Sapevo essere una vera spina nel fianco, quando mi ammalavo, JiMin lo sapeva molto bene. In genere, era sempre lui ad assistermi, quando non ero nemmeno in grado di alzarmi dal letto. Ma non quella volta.
Winter doveva avermi sentito starnutire dal suo appartamento, perché me l’ero ritrovata sulla porta, poco dopo il mio ennesimo tentativo fallimentare di espellere un polmone dal naso. Mi aveva posato le dita sulla fronte e trascinato a letto, senza neanche farmi parlare -il che, in altri contesti, sarebbe potuto essere stato senza dubbio interessante e divertente-. Invece, avevo dovuto guardarla mentre mi rimboccava le coperte sotto il mento, come nemmeno mia nonna era in grado di fare, per poi sentirla andare in cucina a fare chissà cosa. Avevo avuto soltanto la forza di raggomitolarmi nelle lenzuola, e spegnere il cervello per porzioni indeterminate di tempo, sperando di risvegliarmi nuovamente in salute. Il che, era stato parzialmente vero: poiché, quando l’avevo rivista, mentre mi portava un piatto di pasta in stanza, mi sentivo già meno debole di prima. Tuttavia, c’era un lasso di ore del quale non avevo memoria. Probabilmente, l’avevo trascorso a dormire, ma non ne sarei stato poi così sicuro. Diventavo pericoloso, quando avevo la febbre.
Spesso, JiMin mi aveva raccontato che gli avessi chiesto di accarezzarmi la testa e di starmi vicino. Cose che mi avevano fatto vergognare per mesi, sentendomi ferito nella mia virilità maschile, mentre lui rideva, dicendomi che non avrebbe dato peso ai deliri di pover’uomo senza donna. Mi ero arrischiato a guardare Winter, mentre mangiavo, alla ricerca dei segni d’imbarazzo che solo delle strambe richieste prodotte dalla febbre avrebbero potuto creare, ma non ne avevo visti. Era sempre la solita ragazza con i riccioli e le lentiggini, che sbadigliava di tanto in tanto, e portava via i miei schifosissimi fazzoletti usati, rimpiazzandoli con altri nuovi. Che pazienza. Chissà cosa la spingesse, a comportarsi in quel modo.
«Dove posso trovare le aspirine?» Mi chiese, poco dopo che ebbi finito di mangiare.
«Dietro lo specchio, in bagno» risposi, senza nemmeno pensarci. Lanciai un’occhiata alla sveglia sul comodino, e mi sorpresi di vedere che fossero le due di pomeriggio. E ancora nessuna visita importuna da qualcuno dei miei amici, nonostante fosse sabato. Che stranezza.
In genere, TaeHyung passava sempre a scroccare un pranzo, o per il semplice gusto di starmi tra i piedi. Spesso e volentieri, trascinandosi dietro quell’altro fulminato di JungKook. Non che mi dispiacesse, non vedermeli intorno. Sebbene non volessi ammetterlo, starmene da solo con Winter era piacevole. Segnale che mi turbò parecchio, poiché poteva indicare che la sua presenza non mi fosse sgradita, anzi.
Vidi la mia vicina riemergere dal bagno, dopo quelli che parvero molti minuti, chiedendomi cosa avesse trovato di tanto strano, lì dentro, che avesse potuto trattenerla tanto. Sperai che non avesse scovato i miei preservativi, in giro. O altri oggetti strani che, al di fuori della camera da letto, sarebbero sembrati inopportuni. Da qualche parte, doveva ancora esserci tutta la roba notturna di Nancy. E, onestamente, quella ragazza aveva gusti piuttosto strani, a letto. Ancora mi domandavo come avessi fatto a starci insieme.
Tuttavia, l’espressione sul volto di Winter mi turbò. Sembrava pensierosa, incerta e triste. Infinitamente triste. Stringeva fra le mani un bicchiere d’acqua, in cui l’aspirina avesse tinto il liquido di bianco. Mi tirai a sedere sul letto, compiendo uno sforzo titanico, mentre la sua faccia non cambiava atteggiamento.
«Tutto bene, appartamento 23? In genere, le XL piacciono a tutte» sdrammatizzai, con il mio solito humor maschile, che le strappava sempre un commento isterico ed imbarazzato. Ma non servì, quella volta. La osservai, mentre si accomodava sul letto, vicino a me, per poi passarmi il bicchiere. Vederla in quel modo, cominciò a mettermi ansia. Soprattutto quando ne ignoravo la causa.
«Hey» la richiamai, e i suoi occhi vagarono per la stanza, smarriti. Non accennando a volersi posare sul mio viso.
«Stai bene, YoonGi?» Mi domandò, di punto in bianco. Sollevai un sopracciglio, e sporsi l’aspirina verso di lei.
«Nel senso fisico del termine?» Scherzai, per poi mandar giù la medicina, strizzando gli occhi. Detestavo quelle porcherie chimiche, poco importava se lo sciroppo per la tosse sapesse di fragola. Mi facevano schifo e basta. Un brivido mi percorse la spina dorsale, facendo il paro con il mio ribrezzo. L’industria farmaceutica avrà pure salvato migliaia di vite, ma i suoi prodotti mi avrebbero comunque dato la nausea. Per sempre.
«Psicologico» disse lei, sollevando guardinga gli occhi, ed appuntandoli finalmente sul mio volto. Allora, capii.
Nel prendere l’aspirina, doveva aver scovato anche alcuni farmaci risalenti ai miei periodi più neri e bui, di cui solo JiMin conosceva l’esistenza. Avrei preferito che avesse trovato i preservativi. Sospirai, posando il bicchiere sul comodino, il cui vetro produsse un breve rumore secco, a contatto con il legno. Ero pronto a ripercorrere quella strada, dopo tanto tempo? A camminare sui taglienti frammenti di tutti gli specchi che avevo distrutto? Con lei? In genere, non mi fidavo mai degli sconosciuti. Avevo problemi perfino ad aprirmi con i miei amici più stretti, figuriamoci con qualcuno che conoscessi da pochi mesi. Cos’era, lei, per me? La vicina di casa con cui scambiavo post-it sulla porta. La quale, tuttavia, avesse deciso di farmi compagnia mentre stavo male, senza che io gliel’avessi chiesto. Inoltre, non era forse vero che la sua presenza mi fosse, in qualche modo, gradita? Sentii che mentirle avrebbe incrinato qualsiasi tipo di rapporto sarebbe potuto nascere fra me e lei. Ed io non lo volevo. Non avevo alcuna intenzione di precludermi nulla, nei suoi confronti. Non avevo forse deciso d’investire più tempo di quanto avessi dovuto, su di lei, nell’esatto momento in cui l’avevo lasciata dormire nel mio letto? Non volevo ammetterlo neanche a me stesso, ma la verità cominciava ad essere lampante. E poi, la preoccupazione che lessi nel fondo di quei due smeraldi che aveva per iridi, mi persuase. Non si meritava il solito muro di diffidenza che riservavo agli altri. Perché lei non era “gli altri”.
«Hai trovato gli antidepressivi, vero?»
«Già»
«E l’ossicodone».
Si limitò ad annuire, senza parlare. Presi un gran respiro, grattandomi la testa, a disagio. Non c’era un modo corretto d’iniziare quel discorso. Non ci sarebbe mai stato. Tanto valeva cominciare dal punto più importante. Sperando che avrebbe capito.
«Aprire gli occhi è difficile. Riconnettermi con il mondo, ancor di più» esordii. Mi presi qualche istante per riflettere, organizzando le fila dei miei pensieri. «Ecco, alzarmi è difficile. Le mie ossa pesano come fossero quelle di un gigante, quando a malapena raggiungo i sessanta chili di peso. Tempo fa, mi sentivo come un foulard legato ad un palo di legno, nei pressi dell’oceano. La cui stoffa avesse perso tutto il suo colore, insieme al vento e alla salsedine. Ma non c’era sole, nella mia vita. Brancolavo in un’eterna eclissi, arrancando disperatamente nell’ombra, pregando ogni giorno che passasse. Io esistevo, ma non vivevo. Sopravvivevo» dissi, rendendomi conto di quanto difficoltoso potesse essere, riportare tutto a galla. Non volevo edulcorare la verità. La mia situazione era stata quella: un immenso, nero e soffocante baratro di niente. In cui non mi era permesso di sentire nulla, al di fuori del peso del mio stesso corpo. Far finta che non fosse mai successo, sarebbe oscurare una parte della mia vita tanto dolorosa quanto importante. L’avrebbe comunque scoperto, prima o poi, soprattutto se avessi continuato a trovarmi bene accanto a lei, e viceversa. Quindi, perché non dirglielo subito? Se non sarebbe riuscita a reggere il mio passato, non ce l’avrebbe mai fatta nemmeno col presente. «Un’altra cosa che mi era difficile: guardarmi allo specchio. Sopportare il peso di due piccoli occhi felini, incastonati in un volto emaciato e dall’aria infelice. Il mio volto» sorrisi, amaramente. «Uscire di casa, era addirittura impensabile. Non mi piaceva avvertire gli occhi degli sconosciuti addosso. E non mi piaceva camminare fra la folla. Mi faceva sentire oppresso, circondato. Braccato, come una preda nella stagione di caccia. Gli spazi aperti e sconfinati, m’intimorivano. Tutto ciò che non potevo quantificare, era per me fonte di terrore. Sfuggiva al mio controllo, non permettendomi di riuscire a stringervi sopra la presa. Come l’acqua. Per quanto possa sforzarmi di chiudere il pugno sotto il getto del lavandino, il liquido trasparente riesce sempre a sgusciare via dalle mie dita. L’ignoto era il mio più grande nemico».
Winter ascoltava, senza parlare. Ma, nel suo sguardo, potevo leggere quanto quelle parole potessero farle male. Soffriva. Per me.
«Se ci pensi, gli occhi delle persone sono proprio come il mare. Profondi, immensi e non quantificabili. Non riuscivo mai a capire cosa passasse, sul fondo delle iridi delle persone. E non sono poi così bravo a decifrarlo neanche adesso. Sono come ideogrammi cinesi, per me. Bellissimi da vedere, ed altrettanto incomprensibili. Perciò, mi terrorizzavano. Facevo sempre in modo di non guardare nessuno, sperando di passare inosservato» ricordai. «Ma con Park JiMin, il mio migliore amico, non ci riuscivo. Lui era come il sole che sorgeva tutti i giorni, ricordandomi che la vita non si fermava per nessuno. E la sua voce era limpida come l’acqua. Lo è tutt’ora. Però, prima, la sua persona costituiva un insieme delle idee che, prese singolarmente, contribuivano a rendermi la vita più difficile di quanto già non fosse. Senza nemmeno saperlo» rammentai, sorridendo. «Ho cominciato a soffrire di fobia sociale a diciotto anni. I miei genitori non riuscivano a capire cosa mi stesse accadendo. Perché, nelle occasioni di confronto anche amichevole, me ne scappassi sempre in bagno a piangere. Perché non volessi guardare nessuno negli occhi, quando mi parlavano. E nemmeno perché mi stringessi nelle spalle e scuotessi la testa, quando qualcuno mi faceva una domanda» spiegai, grattandomi la testa distrattamente. «Non so nemmeno io, come sia cominciata. Qualcosa doveva aver rotto un meccanismo dentro di me, costringendomi ad agire in un determinato modo, anche se non lo volessi», commentai. «In tutto questo, JiMin mi è stato accanto, insieme alla mia famiglia. Mi accompagnava tre volte a settimana dallo psicologo, nonostante non avesse quasi nemmeno il tempo per respirare, preso com’era da tutti i suoi impegni. Mi portava anche a suonare tutti i giorni il pianoforte a casa sua, aiutandomi a riprendere confidenza con la musica. Facendomi capire che c’erano cose e persone per le quali valesse la pena voler vivere, e non chiudersi nell’abisso».
«E… adesso?» Mi chiese lei, parlando per la prima volta dopo il mio triste monologo strappalacrime. Le sorrisi, a bocca chiusa.
«Ora va molto meglio. Non ho più bisogno degli antidepressivi. JiMin vive a quattro isolati da casa mia, studiando per diplomarsi all’accademia di danza. Sto lavorando ad un mixtape, creandolo da zero con le mie mani, nella scena underground mi conoscono tutti. Ho molti amici, ho la musica. Sto bene, Winter. Del piccolo piagnucolone che tutti chiamavano “lumachina”, a scuola, è rimasto solo il sonno atavico. E l’indolenza» ammisi, non senza una certa fierezza. «Ogni tanto, mi è difficile sorridere. E ci sono giorni in cui il mio umore è più nero della notte. Ma poi passano. Non è un circolo continuo di sofferenza e paura di fare o dire qualunque cosa. Ho un’identità anch’io, e non posso piacere a tutti. Anzi. Sono contento che ci siano persone, al mondo, che non mi sopportino: vuol dire che sono vero e genuino. Non si va da nessuna parte, senza un bel paio di nemici» scherzai, protendendo una mano e scompigliandole i morbidi riccioli ramati, strappandole un debole sorriso. Era vero. Il Min YoonGi di tutto quel tempo fa, era solo un ricordo, una crepa nello specchio. Ci sarebbe sempre stata, ma alla fine ci si avrebbe fatto l’abitudine, non vedendola nemmeno più.
«Mi dispiace, YoonGi» commentò Winter, guardando il pavimento, con aria triste. Le premetti un dito contro la fronte, infastidendola.
«Hey» dissi, ottenendo di farle alzare gli occhi. «Sono sempre il tuo vicino rompicoglioni che mette la musica a palla alle tre di notte, okay? Non cominciare a guardarmi come se fossi appena tornato dalla guerra del Vietnam e avessi perso un braccio» la redarguii. «Questa chiacchierata lacrimevole non cambierà in alcun modo il nostro rapporto. Intesi?»
Lei mi sorrise e annuì, nel modo più incoraggiante che riuscisse a mostrare. Sebbene, notassi ancora una punta di tristezza, nel suo sguardo smeraldino.
«Prova ancora a fare rap mentre dormo, e giuro che il braccio te lo porto via a morsi» mi minacciò, riprendendosi il bicchiere e dandosi un tono. Sorrisi.
«Ecco, proprio quello che volevo sentire!» Esclamai, ridendo. La vidi voltarsi, allontanandosi verso la cucina.
«Appartamento 23?» La chiamai, e il suo passo si arrestò. Improvvisamente, mi sentii felice di aver condiviso quella parte così importante della mia esistenza, con lei. Non seppi perché. Ma lo fui.
«Adesso me lo dai, un bacino?»
«Fatti un pianto, YoonGi».



 



 


#Yah!: okay, due parole da spendere su questo capitolo. Quando lo scrissi, avevo riflettuto lungamente su tutto il mixtape di YoonGi, iniziando ad interessarmi a lui come individuo, oltre che come "personaggio pubblico". Di conseguenza, ho provato ad immaginare tutte le battaglie che lui deve aver affrontato, iniziando a guardare video, leggendo interviste, facendo di me stessa un'osservatrice non ingenua. E questo è quel che ne è uscito fuori. Il Min YoonGi di un'altra storia che pubblicherò, chiamata "PLUTO", è l'antesignano di questo. Lo YoonGi di TND è lo stesso che, urlando in The Last, dice "sto bene, 'fanculo, adesso riempio gli stadi, il ragazzino piagnone non c'è più". Ed è la versione di lui che io preferisco, quella del guerriero, del combattente che non si arrende, che è andato sul ciglio del burrone e ha poi esclamato "fuck this shit", discendendo a valle per illuminare i suoi stessi sogni. Questo è quel che io penso di Min YoonGi, ed è anche un'idea che mi sono costruita in un lasso abbastanza lungo di tempo (li seguo da quando erano sette poracci con la matita agli occhi in No More Dream e se li filavamo giusto in due persone e qualche laccio di scarpa), sebbene io sappia che nessuno a parte lui stesso e i suoi familiari/compagni di gruppo sappia davvero chi è YoonGi. A me piace pensare che lui sia realmente così e, finché tali idee non verranno smentite da parole o comportamenti, tali resteranno. Per il resto, alleggerendo un bel po' il tono del discorso, vorrei focalizzarmi su un insignificante e sciocchino particolaruccio: la nuova tinta di YoonGi.

Lo vedete?? E' lo stesso colore che uso per i capitoli di Winter! E niente, fatemi fare le theories e lasciatemi dire che YoonGi shippa
#YoonWin. Please, facciamolo diventare un twitter trend.

(As always, grazie mille a tutti coloro che leggono silenziosamente/preferiscono/ricordano/seguono/recensiscono. Love u from the bottom of my hearteu<3)

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS) / Vai alla pagina dell'autore: whitecoffee