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Autore: Adeia Di Elferas    26/09/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Nessuno era stato in grado di dirgli quando la Contessa sarebbe tornata, quindi, stanco di aspettare, Ridolfi era uscito dalla rocca per farsi un giro in città ed era rientrato solo quando ormai si avvicinava il mezzogiorno.

Stava per attraversare il ponte levatoio, le mani dietro la schiena e lo sguardo torvo che si volgeva di quando in quando alle sue spalle, alla statua del Barone Feo che svettava contro il cielo bianco di neve, sperando di intravedere la Leonessa di ritorno.

Proprio mentre indulgeva in una di quelle occhiate, Simone vide due cavalli – uno stallone e un baio – avvicinarsi e così si fermò per guardare meglio, riconoscendo la carcassa di un cinghiale su uno e Giovanni con la Tigre sull'altro.

Il Popolano montava alle spalle della donna, che teneva le redini in pugno, ma era come se cercasse di non appoggiarsi a lei, probabilmente per evitare di sollevare altre domande oltre a quelle che già sapeva che sarebbero sorte.

I due cavalcavano lentamente e, quando gli passarono accanto, nessuno dei due si prese il disturbo di salutarlo. A quel punto Ridolfi accelerò il passo e li seguì fino al secondo cortile. Vide Giovanni smontare di sella e poi aiutare la Contessa a fare altrettanto.

La donna, dopo averlo ringraziato con un sorriso e un rapido scambio di sguardi, prese entrambi i cavalli e si diresse verso la stalla, borbottando qualche ordine a uno dei soldati che li aveva accolti e indicando il cinghiale.

Simone attese un momento, tanto per non sembrare scortese. Sollevò lo sguardo, giusto per non dare l'impressione d'essere un impiccione e notò che a una delle finestre la figlia della Contessa stava guardando con attenzione verso il basso.

Restò incuriosito dal modo in cui Bianca Riario stava fissando il Medici e, ancor più, da come si ritirò quando si accorse di essere osservata. Nonostante ciò, il fiorentino si risolse subito a dirsi che i pensieri della giovane figlia della signora di Forlì non erano affari suoi.

Quando pensò che fosse finalmente il caso di farsi avanti e provare a bloccare la Sforza, per chiederle quando preferisse sentire la sua soluzione in merito alla redistribuzione del grano, Cesare Feo lo anticipò, arrivando di gran carriera e parandosi davanti alla Contessa.

Caterina ascoltò con attenzione il castellano e annuì un paio di volte alle sue parole e sul finale Ridolfi la sentì dire: “Avete ragione, dobbiamo pensarci subito. Andate nello studiolo, arrivo subito da voi.”

Mentre la donna si rivolgeva ancora a Giovanni, dicendogli qualcosa a bassa voce e con una certa tensione, Simone non attese oltre e fece capolino tra i due, sfoggiando un sorriso casuale e un tono gioviale: “Buongiorno, Contessa. Ho risolto la questione di cui si parlava... Quando posso parlarvi ed esporvi quel che ho...”

“Venitemi a cercare nello studio del castellano tra un paio d'ore, adesso ho da fare.” lo liquidò la Tigre, tornando a guardare un momento Giovanni e salutandolo con un lieve tocco sul braccio e un laconico: “A dopo.”

Il Popolano le sorrise e ribatté: “A dopo.”

Ridolfi lasciò che la donna sparisse nelle viscere della rocca, prima di puntare gli occhi ridanciani sul cugino e fischiare, dandogli una forte pacca sulla spalla.

Non aveva mai visto la Sforza indulgere in gesti gentili, se non qualche rarissimo moto d'affetto per uno dei figli più piccoli, quello nato dalla sua unione con il Barone Feo. Vederla accarezzare in quel modo il braccio di Giovanni gli aveva tolto ogni dubbio residuo a riguardo del loro attuale stato.

Le gote del Medici si imporporarono all'istante e i suoi occhi corsero ai soldati che stavano passando per il cortile, diretti alla sala delle armi. Nessuno stava facendo caso a lui e a suo cugino, ma si sentiva agitato come se tutti quanti sapessero.

“Vieni con me...” lo invitò Simone, capendo quanto fosse spinoso quel momento per Giovanni e desiderando parlare con lui in un punto della rocca un po' più tranquillo.

Senza che il Popolano riuscisse a evitarlo, Ridolfi lo trascinò con sé, portandolo al principio di un corridoio poco distante dalle camere dei figli della Contessa. Di giorno quell'ala della rocca era di norma quasi deserta.

“E bravo Giovannino...” cominciò a dire Simone, le labbra che si aprivano in un sorrisone compiaciuto, mentre le sue grosse mani gli cingevano le spalle in segno di congratulazioni: “Allora, finalmente la nostra cara Tigre ti ha concesso il favore di godere delle sue grazie?”

Giovanni buttò gli occhi al cielo e cercò di divincolarsi, ma il rossore acceso che aveva preso tutto il suo volto e il collo fece sì che Ridolfi si convincesse a non demordere.

Così, mentre agguantava con più forza il cugino, insistette: “Allora, avanti, raccontami tutto, lo sai che voglio sapere. Orsù, dunque, com'è la Leonessa di Romagna, sotto a tutte quelle sottane? È una donna come tutte le altre, o è la belva insaziabile di cui tutti sparlano?”

Il Medici scosse il capo e gli lanciò un'occhiataccia: “Sei agghiacciante. Ma ti senti, quando parli?”

“Oh, avanti...” lo pungolò ancora Simone, trattenendo uno sbadiglio: “Io ho passato la notte insonne a far di conto, tu almeno hai qualcosa di interessante da raccontare! Non tenermi sulle spine!”

“Non ho nulla da raccontare.” si ostinò Giovanni, mente le sue labbra carnose non riuscivano a evitare di sollevarsi appena agli angoli.

“Seh, non hai nulla da raccontare, ma intanto, però, non riesci a levarti quel sorrisetto soddisfatto dalla faccia.” cantilenò Ridolfi, mollando la presa, ma lasciando intendere come la questione fosse tutt'altro che chiusa: “Raccontami che le hai fatto. Mi è sembrata pure lei molto soddisfatta dalla notte passata fuori. Prima, quando ti ha salutato, ti ha dimostrato un trasporto che non ha nemmeno per le sue colubrine!” ridacchiò: “Dove siete stati? Avanti, dimmi anche solo qualcosa...”

“Non ci penso nemmeno.” concluse il Popolano, non nascondendo più il proprio sorriso, ma cambiando subito argomento: “Tua moglie, piuttosto, dov'è?”

“Oh, lei è rimasta a Imola.” rispose Ridolfi, spegnendosi all'istante: “A incontrare alcuni dei nostri fittavoli.”

“A Imola, da sola?” chiese Giovanni, cominciando a camminare.

Prima di tutto, voleva mettersi degli abiti asciutti. La strada nella neve era stata incantevole, abbracciato a Caterina, ma adesso che era alla rocca, il ghiaccio sulle brache e sul bordo del mantello si stava sciogliendo e gli abiti si stavano inumidendo. Visto che la Tigre sarebbe stata impegnata almeno fino a sera, come purtroppo lei stessa gli aveva preannunciato dopo il breve colloquio col castellano, tanto valeva ritirarsi in camera a riposare.

Aveva fatto lo spiritoso, standosene in giro per oltre un giorno intero in mezzo alla neve, cavalcando a lungo e mangiando quello che gli era capitato. Se non voleva pagare caro quel momento di completa gioia, avrebbe fatto bene a starsene tranquillo per un po' e pregare che Dio gli concedesse un briciolo di salute.

“Io dovevo venir qui a prendere consegne dalla tua Tigre...” spiegò Simone, alzando subito le mani in segno di scusa, quando il cugino lo guardò storto per quel 'tua' di troppo: “Si occupa personalmente dei fittavoli da anni ormai. Dice che ha i suoi metodi per tenerli buoni e io non voglio sapere quali siano di preciso. In fondo, se anche se ne portasse a letto qualcuno, che vuoi che sia?”

“Credi che lo farà?” si informò il Medici, che non riusciva a capire come l'altro potesse accettare quello strano andamento matrimoniale.

“Non vedo perché no. Ti dirò, gliel'ho anche chiesto apertamente, prima di partire, e lei non l'ha escluso.” ammise Ridolfi.

“Siete due pazzi.” disse Giovanni, a mo' d'inciso.

“Sia come sia – riprese Simone, quando furono quasi alla stanza del Popolano – così facendo, io ne approfitto per riposarmi un po', e lei per tenere distesi i rapporti con quelli che ci pagano l'affitto dei terreni. Mi sembra un buon compromesso.”

L'altro preferì non dire come la pensava, soprattutto perché, per la prima volta, notava nel cugino un velo di amarezza che gli lasciava intendere quanto, in realtà, il suo apparente liberalismo iniziasse a pesargli.

I due uomini erano arrivati a pochi metri dalla stanza del Medici, quando dei passi di corsa e delle risate infantili li fecero voltare verso l'angolo del corridoio.

Correndo come un pazzo, col viso illuminato dalla frenesia del gioco, una spada di legno in mano, Bernardino, il figlio più piccolo della Contessa, stava scappando da Galeazzo che, con un'arma simile, lo inseguiva, ridendo e scandendo di quando in quanto il motto di guerra della famiglia della madre: “Duca! Duca! Duca!”

Simone e Giovanni li guardarono passare davanti a loro e poi, quando li sentirono proseguire lungo il corridoio, il primo, con una risata argentina commentò: “Benedetti bambini! Giocano alla guerra, ma non sanno che cosa sia!”

Il Medici gli diede ragione e arrivò fino alla porta della sua stanza. Aprì e si voltò verso il cugino, pronto a fargli capire che era stanco di sentirlo e che voleva starsene un po' da solo.

“Certo che i figli della Tigre sono tutti molto belli...” soppesò tra sé Ridolfi, incrociando le braccia sul petto e sporgendo in fuori le labbra, per nulla intenzionato a mollare Giovanni: “Se ne avrete uno, immagino che sarà anche lui una meraviglia.”

“Piantala.” lo zittì il Popolano, seriamente irritato.

Poi, siccome gli occhi dell'altro si erano rabbuiati, l'ambasciatore vinse la propria insofferenza e gli chiese, in un moto di affetto quasi fraterno: “Cosa ti impensierisce?”

Simone abbozzò una breve risata, ma senza essere troppo convincente, e poi rispose, abbassando la voce: “Niente, solo... Vedere il figlio del Barone Feo mi ha fatto pensare a mia moglie Lucrezia.”

Giovanni fu tentato di far entrare in stanza il cugino, per offrirgli un orecchio e un po' di conforto, ma quando l'altro riprese a parlare, al Popolano passò ogni voglia di aiutarlo: “E stavo anche pensando che se il compianto Barone Feo assomigliava alla sorella sotto quel punto di vista... Be', allora ci credo che, dopo sette anni con lui, la Tigre abbia sviluppato un gusto tutto particolare per certe cose...”

“Va bene – chiuse il discorso il Medici, mettendo una mano sulla maniglia – se non hai altre idiozie da dire, non mi resta che dirti: passa una buona giornata e cuciti la bocca.”

Quando Giovanni chiuse la porta, dando anche un paio di giri di chiave, la risata di Ridolfi riecheggiava ancora nel corridoio.

 

“Il signore di Rimini siete voi.” concordò uno dei provvigionati che Pandolfo era riuscito a recuperare: “Tuti devono rispettare il vostro volere. Quella ragazza è vostra di diritto, se la volete.”

Dopo essere fortunosamente scappato dal convento, il Malatesta non aveva perso tempo e si era messo a ragionare. Negli anni aveva creato un piccolo gruppo di uomini al suo soldo che erano diventati anche suoi amici e compagni di bevute e notti brave.

Con discrezione, dopo aver cercato un po', era riuscito a radunarli tutti in poche ore e aveva chiesto loro di appoggiarlo fino alla fine, promettendo una ricca ricompensa e un ruolo di spicco all'interno della macchina Statale.

“Qual è il piano?” chiese un altro, allungando le gambe sotto al tavolo e facendo segno all'oste che gli versasse ancora da bere.

Il Pandolfaccio aveva requisito una delle locande più malfamate di Rimini, imponendo al proprietario di chiudere i battenti e di non lasciar entrare nessuno. Benché si fosse presentato con al seguito un buon numero di soldatacci, l'oste all'inizio aveva fatto il prezioso. Era bastato minacciarne la moglie, però, per renderlo il più servile degli avventori.

“Ma non vi rendete conto che questa è una follia? Scateneremmo una guerra civile, se...” prese a dire un altro, gli occhi sgranati e pieni di paura, incapace di comprendere il motivo di una simile sciocchezza.

“Quindi mi stai dicendo che sono folle?” inveì a quel punto Pandolfo, alzandosi di scatto e mettendosi davanti a quello che aveva parlato: “Credi che sia folle pretendere che ciò che è mio mi venga consegnato?”

“Ma quella ragazza non...” osò provare a dire l'uomo.

Il Malatesta allungò una mano e prontamente uno degli altri suoi sgherri gli porse un pugnale. Il signore di Rimini puntò la lama contro la pelle ruvida del collo di quello che gli aveva dato indirettamente del folle e lo fissò dritto negli occhi, sporgendosi tanto su di lui da far oscillare i lunghi capelli neri sul suo volto, pizzicandogli il naso.

“Quella ragazza è una mia proprietà. Come lo sei tu e tutti gli altri sudditi di questo Stato.” precisò il Pandolfaccio, premendo appena di più la lama contro la sua gola, mentre l'altro restava immobile e atterrito, grigio come un cencio.

Gli altri provvigionati non si muovevano. Non tutti erano convinti di quello che si stava per fare, molti, soprattutto, temevano che il Malatesta sarebbe caduto dal suo piedistallo, dopo quello strano incidente, e che le ricompense promesse non sarebbero mai arrivate, prontamente sostituite da una condanna.

Tuttavia, quando lo videro tagliare la gola del loro compare senza fare una piega, tutti quanti cambiarono atteggiamento e decisero come un sol uomo di non ribellarsi più per nessun motivo al loro signore e padrone.

“Datemi qualcosa per pulirmi...” sussurrò Pandolfo, gettando il pugnale sul tavolo e passandosi schifato una mano sul volto schizzato di sangue: “Dannato traditore... Mi ha sporcato anche i vestiti... Fastidioso anche da morto... Tu... Portami degli abiti puliti. E fai qualcosa per sbarazzarti di questa carcassa inutile...” ordinò, indicando il cadavere all'oste.

 

Ridolfi si accomodò sulla sedia che stava davanti alla scrivania e spiegò tutte le sue carte sulla superficie di legno, sotto agli occhi attenti di Caterina.

Non l'avrebbe mai detto, ma trovarsela di fronte, ora che aveva avuto la tacita conferma di quello che lei e Giovanni avevano fatto mentre erano lontani dalla rocca, lo metteva un po' in imbarazzo.

“Avanti, vediamo che cosa siete stato capace di fare.” lo invitò la Tigre, che, suo malgrado, provava un imbarazzo molto simile.

Non sapeva bene quanto il Medici e il cugino fossero in realtà in confidenze e, per quanto avesse un'idea abbastanza alta di Giovanni, non poteva essere certa che l'uomo avesse tenuto un decoroso silenzio con Simone.

Nonostante tutto, Ridolfi parve gettarsi alle spalle in fretta i suoi pudori e cominciò a esporre la sua idea in merito alla ripartizione del grano, permettendosi anche di aggiungere qualche precisazione su come ottimizzare anche altri tipi di provviste.

La Tigre ascoltò tutto con molto interesse, sorprendendosi nello scoprire in quell'uomo grande, grosso e chiacchierone una fine mente economica. Il suo atteggiamento e il suo aspetto gli remavano contro, ma era chiaro che coi numeri e gli affari si trovasse a suo agio.

“Vi faccio i miei complimenti.” disse alla fine Caterina, ricontrollando di nuovo i calcoli che chiudevano il piano stilato dal fiorentino: “Avete proprio pensato a tutto.”

Simone ringraziò con un cenno del capo e poi si sentì in dovere di rigirare i complimenti nel modo più sincero possibile: “C'è da dire che la base di questo lavoro, tracciata dalle vostre leggi, è molto buona. Ho avuto modo di addentrarmi nel vostro sistema di Stato e devo dirvi che, se non ci fossero state tutte queste carestie e non fossero incorsi certi incidenti – buttò lì la parola con casualità, ma la Tigre comprese benissimo che si stava riferendo ai lunghi mesi di terrore che avevano fatto seguito alla morte di Giacomo – avreste uno Stato dal sistema fiscale pressoché idilliaco. Il modo graduale e duraturo con cui avete ridotto le tasse all'osso, riuscendo comunque a restare sempre a galla, è sorprendente. Avete ideato personalmente tutte queste riforme?”

La Sforza giunse le mani in grembo e, con un sospiro apparentemente molto calmo, annuì: “Sì, dalla prima all'ultima.”

Ridolfi, che in tutta onestà si sarebbe atteso una risposta che dava parte del merito anche ai membri dei Consigli, restò molto colpito: “Accidenti...” soffiò: “Allora siete davvero intelligente, per essere una...”

“Una donna?” ribatté Caterina, trovando comica l'espressione che aveva deformato il viso barbuto di Simone, che si era accorto troppo tardi di aver parlato a sproposito: “Anche voi siete abbastanza sveglio, pur essendo un uomo.”

Simone fece un sorrisetto un po' intimidito e assecondò la donna quando cambiò discorso fingendo che quel piccolo incidente diplomatico non fosse successo.

L'uomo, comunque, si fece appunto mentale di tenere a freno la lingua, in futuro, certo che la Leonessa di Romagna non avrebbe accettato altri scivoloni.

Dopo averlo interrogato accuratamente su molte questioni finanziarie e amministrative, alla fine Caterina non trovò più altri appigli per rifiutargli una carica che sembrava fatta apposta per lui.

Non lo conosceva bene, quello era vero, ma era entrato nella famiglia Feo, si era trasferito a Imola, lì cercava di costruirsi un futuro, ed era il cugino di Giovanni e sembrava che il Medici, in fondo, nutrisse per lui una grande fiducia, oltre che un grande affetto.

Lo stesso Popolano aveva assicurato alla Tigre che Simone altro non voleva se non fare carriera e che sarebbe stato molto fedele e riconoscente a chiunque gli avesse dato una simile opportunità.

E poi ormai Tommaso era stanco. L'aveva fatto capire in tutti i modi e, anche se forse la sua abnegazione l'avrebbe portato a restare al suo posto ancora per anni, se Caterina non avesse trovato un sostituto, era chiaro che ormai quel lavoro non faceva più per lui.

Così, alzandosi dallo scranno di norma occupato dal castellano, la Sforza gli tese la mano e gli annunciò: “Se vi sta bene, siete il nuovo Governatore di Imola.”

Simone le strinse con forza la mano, chinando subito dopo il capo il segno di obbedienza e accennando una genuflessione.

“Vi preparerò il prima possibile i documenti necessari, ma prima voglio scrivere a mio cognato, per dirgli che finalmente gli ho trovato un suo sostituto.” riprese Caterina, accompagnando il toscano alla porta: “Spero per voi che non ci sia motivo di pentirmi per la mia scelta.”

Ridolfi deglutì rumorosamente e fece un sorriso un po' teso, assicurando che avrebbe fatto tutto il possibile per svolgere al meglio il suo compito.

Quando era già quasi fuori dallo studiolo, il fiorentino sentì la necessità di fare un'ultima domanda, sia nella speranza di parere zelante, sia per reale interesse: “Solo un'ultima cosa, Contessa. Ho controllato molto accuratamente i conti degli ultimi mesi, ma non sono riuscito a capire dove avete trovato i soldi per acquistare tutto questo grano...”

La Tigre lo osservò un momento, il volto imperscrutabile e gli occhi freddi. Simone non capiva se la donna si stesse ponendo delle domande o se si stesse già ricredendo sulla nomina appena concessa.

“Perché dai conti pubblici è chiaro che non li avete presi dalle casse dello Stato... Dunque, se avete attinto dai vostri fondi privati – continuò l'uomo, cercando di non agitarsi troppo dinnanzi allo sguardo glaciale della Leonessa – vorrei saperlo, così, nel caso in cui in futuro si prospettino spese simili, saprei già di dover...”

“Non ho usato i miei soldi, per quel grano.” lo fermò la Tigre.

“E quali avete usato, allora?” chiese Ridolfi, aggrottando la fronte, senza capire.

“Chiedetelo a vostro cugino.” rispose la donna, tradendo per la prima volta una piccola incertezza, prima di soggiungere: “Ma ricordatevi a chi va la vostra lealtà, adesso. Sarete fiorentino, ma è Imola la città di cui siete Governatore.”

Simone annuì, molto perplesso, ma non aggiunse altro e lasciò la Contessa libera, indeciso se andare o meno a chiedere subito delucidazioni a Giovanni. Non ci voleva un genio, a quel punto, per capire dove la Leonessa di Romagna avesse trovato i ducati che le servivano.

 

La chiesa era immersa in un silenzio quasi perfetto, tanto che, quando il prete riprese a borbottare in latino, dando le spalle ai pochissimi presenti, qualcuno ebbe un piccolo sussulto perché strappato all'improvviso dai propri pensieri.

Bartolomeo d'Alviano era il primo davanti, a pochi centimetri dal feretro del cognato Virginio e cercava di ascoltare ogni parola del prete per accompagnare l'anima dell'Orsini come meglio poteva.

Sua moglie s'era raccomandata moltissimo con lui tramite lettera, mettendogli tanta fretta da imporgli di lasciare a Vitellozzo Vitelli il delicato compito di ricongiungersi con Carlo Orsini, chiudendo a tenagli l'esercito ormai stremato del figlio del papa. Addirittura, Bartolomea aveva espressamente chiesto a Bartolomeo di correre a Napoli 'senza nemmeno provare a passare per Bracciano' a salutarla.

'Devi recuperare il suo corpo – gli aveva scritto – e pagare o costringere un prete a dargli un buon funerale e buona sepoltura'.

E così lui aveva fatto, e con una semplicità che l'aveva lasciato di sasso. Tanto da fargli temere un tranello. Dunque si era portato appresso una decina di guardie del corpo e aveva deciso di tradurre il corpo di Virginio fuori Napoli e di farlo seppellire nel convento di Santa Maria delle Grotte.

Il prete invocò Dio e il suo perdono per l'ultima volta e poi il singolare codazzo di soldati di ventura che accompagnava i resti mortali dell'Orsini seguì i chierici fino al convento, dove si procedette alla tumulazione.

Bartolomeo restò fino alla fine a controllare che tutto fosse in ordine e poi, con un segno della croce rivolto alla tomba del cognato, disse in fretta a una delle sue guardia: “Torniamo a Bracciano.”

“Non a Soriano? È lì che vostro cognato Carlo vuole attaccare...” provò a dire uno dei suoi, credendo che la commozione del momento avesse confuso il suo comandante.

“No, andiamo a Bracciano. Subito. Adesso.” si ostinò Bartolomeo nel suo solito sussurro imperioso e, gettandosi la cappa sulla spalla, uscì dal convento, facendo segno agli altri di seguirlo.

Assistere alle esequie di Virginio aveva messo addosso al condottiero di nuovo la stessa paura che aveva provato nel partire all'inseguimento del Borja seguendo l'ordine della moglie.

Anche se Bartolomea non faceva che mandargli lettere in cui lo rassicurava, sostenendo di stare meglio di giorno in giorno, l'uomo aveva chiesto al luogotenente di tenerlo informato sulle reali condizioni della moglie.

Sapeva che la sua donna non stava migliorando affatto e mai come in quel momento voleva starle vicino. Era andato a inseguire il figlio del papa, come lei gli aveva chiesto, e aveva anche fatto sì che Virginio avesse una tomba degna di tal nome, ma ormai era stanco di ubbidire a ordini che trovava inutili, in un momento come quello.

Salendo in sella, sotto la luce diafana del gennaio partenopeo, Bartolomeo d'Alviano si trovò a trattenere una lacrima, salutando tacitamente l'amico di una vita e mettendosi in marcia per raggiungere la donna che amava e che, per quanto volesse apparire forte, di certo aveva un disperato bisogno di averlo accanto.

 

Dopo averci ragionato sopra tutto il pomeriggio, alla fine Simone si era risolto ad andare alla fonte più attendibile di informazioni e così quella sera, dopo aver mangiato in fretta qualcosa al palazzo degli ambasciatori, si era messo davanti alla porta del cugino e aveva bussato con insistenza finché non gli era stato aperto.

“Che diamine vuoi..?” chiese Giovanni, abbastanza irritato nel vederlo, soprattutto quando si accorse della sua espressione bellicosa.

“È vera questa storia?!” lo incalzò Ridolfi, senza dar peso alla voce scontrosa a cui il Medici aveva messo mano per fargli capire che non era il momento di disturbarlo.

“Che storia?” ribatté il Popolano, non capendo a cosa l'altro si stesse riferendo.

Simone gli fece segno di lasciarlo entrare e così Giovanni, ancora assonnato e con la pancia che borbottava per via della cena saltata – volutamente, nella speranza di bilanciare i pasti inadeguati del giorno prima e di quella mattina – lo lasciò passare.

“Che tu hai comprato il grano alla Sforza!” sbottò Simone che, pur essendosi ripromesso di stare calmo, si vedeva così sopraffatto dalle conseguenze di quel gesto da sentirsi mancare l'aria.

“Chi te l'ha detto?” indagò l'ambasciatore, sedendosi sulla sedia che stava accanto alla scrivania e allacciandosi le mani in grembo.

Ridolfi notò quell'atteggiamento apparentemente noncurante, che già gli ricordava troppo quello della Tigre: “La tua donna me l'ha detto, ecco chi! Non direttamente, ma me l'ha fatto capire!”

Giovanni si morse il labbro e sollevò le sopracciglia, ormai del tutto sveglio. Si ravviò i riccioli castani e fece spallucce.

“Non dirmi che hai usato i soldi della repubblica, perché allora..!” fece Ridolfi, scuotendo con forza il capo e cominciando a camminare velocemente per la stanza.

“No, ho usato i soldi miei. Quindi, che te ne importa?” controbatté il Popolano, dando finalmente un segno di reazione: “Si tratta di un prestito che ho fatto a titolo personale...”

“Un prestito!” soffiò Simone, battendo le manone e guardando il soffitto: “Ma quale prestito! Ma ti rendi almeno conto di quanti soldi stai buttando per questa donna? Cosa dirà tuo fratello, quando lo saprà? E cosa dirà Firenze, quando saprà che il grano che voleva comprare per il suo popolo l'hai preso prima tu per regalarlo alla tua pu...”

“Attento a come parli!” si infiammò a quel punto Giovanni, scattando in piedi e puntando il dito contro il cugino: “Siamo parenti, ma a tutto c'è un limite!”

Ridolfi, che come sempre quando si infervorava aveva parlato senza nemmeno pensare a quello che stava dicendo, si pentì subito di aver ecceduto coi termini e così fece due profondi sospiri e, chiudendo un momento gli occhi, riprese, molto più calmo: “Ci stai mettendo in una brutta posizione, Giovanni, molto brutta. Stai rischiando la testa di tutti quanti. Se continuerai così, te lo puoi scordare il ritorno trionfale dei Medici a Firenze. Stai mettendo a repentaglio la vita tua, mia, di tuo fratello, di tua cognata e dei tuoi nipoti. E per cosa? Per farti bello con lei? E poi lei non è una donna affidabile come la credi tu. Ti ricordo che poco più di un anno fa ha sterminato senza batter ciglio tutti i nobili della sua corte e che alcuni di loro sono ancora nelle segrete di questa rocca a invocare la morte.”

“Aveva i suoi motivi.” commentò piano il Popolano, non trovando di meglio da dire.

L'altro fece una smorfia triste: “Certo.” annuì lentamente e poi, appoggiando una mano sulla spalla del cugino, disse: “Ti prego, stai attento. Quando mi hanno mandato qui per controllare che non ne restassi ammaliato, io avevo sottovalutato la situazione. Tu stai camminando su un filo troppo sottile, Giovanni. Le Tigri non sono belve con cui giocare.”

“Infatti, io non sto giocando.” assicurò l'ambasciatore: “Piuttosto, perché hai voluto sapere dove avesse preso i soldi?”

Ridolfi gettò la testa all'indietro e, gonfiando le guance, sbuffò: “Perché oggi mi ha nominato Governatore di Imola. Fa parte dei miei doveri, sapere chi è pronto a rovinarsi pur di tenderle una mano in soccorso.”

Il Popolano fece un cenno di comprensione e poi disse: “Dici che io mi sto lasciando coinvolgere troppo, ma tu hai sposato una donna che nemmeno conoscevi solo perché era ricca, e ora accetti un posto da Governatore offertoti dalla stessa donna di cui mi stai dicendo che si dovrebbe diffidare e basta.”

Ammutolito dalla freddezza con cui il cugino gli aveva appena parlato, con un paio di pacche sulla schiena – molto più forti del necessario – Simone capì che non sarebbe riuscito a ottenere nulla.

Così, un po' amareggiato, gli diede ragione e lo salutò con un: “Almeno divertiti, con lei, intanto che puoi.”

Giovanni richiuse la porta alle sue spalle e per qualche istante restò appoggiato al legno a fissare quella stanza immersa ormai nella penombra della tarda sera. Solo il camino e un paio di candele la riscaldavano e l'illuminavano.

Non gli era piaciuto il modo in cui lui e Simone si erano parlati, ma non avrebbe potuto trovare altro modo per ridimensionare il cugino. Anche se sapeva bene che Lorenzo non l'avrebbe presa bene, quando, tornato dalle Fiandre, avesse scoperto i buchi in bilancio che aveva creato per aiutare Caterina, Giovanni non intendeva retrocedere nemmeno di un passo.

Le spese che aveva fatto erano necessarie e basta, nel suo modo di vedere. Simone sbagliava, a paragonare la Contessa a una sgualdrina. Quello che lui le aveva offerto non era stato il prezzo dei suoi favori. Ne era certo, lei lo amava.

Con quello spettro che gli faceva provare una leggera vertigine, il Popolano si mise a girovagare per la stanza come un'anima in pena.

Non sapeva dire se quella notte Caterina sarebbe arrivata nella sua stanza, né se lei s'aspettava che lui l'andasse a cercare. Così attese e basta. Dopo un po' si mise sul letto con il Decameron del Boccaccio e rilesse alcune delle novelle che più avevano incontrato il gusto della Tigre.

Quando ormai non ci sperava più, sentì un paio di colpi sulla porta. Saltò in piedi e andò ad aprire, trovandosi davanti la Contessa.

“Non vedendoti più, oggi, temevo non fossi stato bene.” disse lei, scivolando dentro la camera.

“Tutto sotto controllo.” la rassicurò lui, allargando le braccia, come a mostrarle che era tutto intero.

“Stavi leggendo?” chiese la donna, vedendo il libro aperto sul letto.

Il Popolano annuì: “Sì, ma nulla che non sappia già quasi a memoria.”

Gli occhi verdi della Contessa erano appannati e un po' distanti. Giovanni non riusciva a interpretare né loro né la piega presa dalle sue labbra. Capiva solo che la donna che aveva davanti era molto stanca.

“Stai bene?” le chiese, dopo qualche momento di immobilità.

“Sì, ma è stata una giornata molto pesante.” rispose Caterina, che, da quando erano tornati, non aveva fatto altro che saltare da un colloquio all'altro, oppressa dalle usuali incombenze che però, di solito le pesavano molto meno.

“Coricati accanto a me. Leggiamo qualcosa insieme.” propose il Popolano, esibendosi nel suo classico sorriso tranquillo, indicando il letto con un cenno del capo.

La Tigre, riscaldata dalla pacatezza che Giovanni sapeva offrirle proprio quando la desiderava, l'abbracciò con riconoscenza e poi, togliendosi l'abito pesante e restando in sottoveste, si mise accanto a lui sotto le coperte.

Lessero per un po' alcune delle loro novelle preferite, commentandone quasi ogni frase e poi, dopo averne finita una abbastanza lunga, la Contessa sussurrò: “Tu non hai paura di quello che succederà?”

Il modo in cui Ridolfi l'aveva guardata, quando lei aveva lasciato intuire che a pagare il grano fosse stato Giovanni e anche gli sguardi curiosi di alcuni forlivesi e di certi soldati, quando lei e l'ambasciatore erano tornati a Ravaldino in sella allo stesso cavallo, l'avevano costretta a pensare per tutto il giorno a cosa ne sarebbe stato di loro e del sentimento che provavano l'uno per l'altra.

Il fiorentino mise il segno alla pagina del libro e poi l'appoggiò sul tavolinetto accanto al letto. Si prese qualche momento per pensarci. Si alzò e andò a spegnere le candele che erano ancora accese e poi, risistemandosi accanto alla Tigre, la strinse a sé.

“Mi fa paura, ma sono pronto ad affrontare tutto. Tu sei una Sforza, io un Medici. Possiamo affrontare qualunque cosa.” disse il Popolano, trovando il calore di Caterina benefico come un balsamo.

Quella vicinanza e la sicurezza che l'uomo emanava quietò in parte anche lo spirito in tempesta della Contessa. In più, avvertire il corpo di Giovanni contro il suo le fece sentire di nuovo crescere in sé il desiderio di farlo suo.

Per quanto stanca e abbattuta, la pace che il fiorentino le aveva restituito l'aveva fatta sentire di nuovo viva. La paura che il futuro le metteva, poi, la spinse ancora di più a cogliere l'attimo, finché le era concesso.

Giovanni, che non si aspettava nulla, quella sera, sentì le mani della Tigre corrergli addosso e, quando fu certo delle sue intenzioni, le diede un lungo bacio e si dedicò completamente a lei seguendone ogni tacita richiesta e dimostrandole con ogni gesto, anche il più piccolo, che per lei lui c'era e ci sarebbe sempre stato, nel bene e nel male.

 

 
   
 
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