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Autore: _Kurai_    16/10/2017    2 recensioni
Erano passati vent'anni da quando il mare aveva stravolto la sua vita, strappandole l'affetto di suo padre senza darle nemmeno il conforto di una tomba su cui piangere.
Erano passati vent'anni, e nonostante tutto il mare era diventato la sua casa.
Quel giorno dell'inverno dei suoi cinque anni sembrava ormai lontanissimo, ma Allura ricordava perfettamente quella telefonata alle prime luci del mattino e la voce spezzata della madre che cercava inutilmente di non scoppiare a piangere mentre le veniva riferita la notizia che la nave da crociera di cui suo padre era il comandante era improvvisamente scomparsa dai radar, come se non fosse mai esistita.
C'erano stati anni e anni di indagini e ricerche finanziate con centinaia di migliaia di dollari, ma l'Altea, una nave maestosa che aveva già attraversato quella rotta decine e decine di volte, era svanita nel nulla. Volatilizzata, con il suo carico di trecentocinquantacinque persone.
Genere: Angst, Horror, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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III

Phantom Pain

 

Per qualche istante rimasero tutti in silenzio, gli sguardi preoccupati e curiosi rivolti a Shiro e Pidge, entrambi intrappolati nelle gabbie dei propri ricordi.

Ciò che aveva sconvolto Shiro era la cicatrice di un'immagine confusa, un ricordo a brandelli, che però finalmente aveva un volto, chiaro come mai prima.

Nei primi tempi dopo l'incidente, una volta uscito dall'ospedale, aveva fatto di tutto per chiudere fuori il poco che rammentava della sua vita precedente: cercare di ricordare faceva troppo male, e quel dolore era totalizzante.

Ai tempi aveva già imparato a familiarizzare col dolore all'arto fantasma, che lo assaliva improvviso con fitte tremende al braccio che non aveva più, e quell'altro tipo di dolore non era poi così diverso: era come se insieme al braccio avesse perso una parte di sé, nello specifico i quattro mesi che aveva trascorso in mare prima dell'incidente.

I mal di testa lo assalivano soprattutto quando si sforzava di ricordare, e dal lago nero della sua mente riaffioravano frammenti di immagini annebbiate, in cui le persone non avevano un volto e i luoghi non avevano un nome.

Il suo terapista gli aveva prescritto per un po' degli psicofarmaci, che avvolgevano tutto in una rassicurante oscurità, e perlomeno aveva smesso di perdersi in quelle visioni frammentarie dei suoi mesi perduti. Quando si era ripreso aveva cercato di fare delle ricerche, ma in quei quattro mesi il suo nome non compariva in nessun documento rintracciabile, non esistevano fotografie né alcun segno del suo passaggio. Forse anche per questo durante il suo lungo ricovero nessuno era venuto a cercarlo, nemmeno per questioni assicurative legate all'incidente o per informazioni sui suoi misteriosi compagni di equipaggio, che comunque lui non riusciva a ricordare. Era come se durante quei mesi non fosse esistito, come se non li avesse mai vissuti. Aveva semplicemente smesso di cercare dopo l'ennesimo malessere, anche perchè non aveva più parenti o amici vicini in America che potessero aiutarlo a rimettere insieme il puzzle della sua vita a cui mancavano decisamente troppi pezzi.

L'unica certezza che avesse mai avuto era il mare, e per questo nonostante tutto era tornato ad affrontare i propri fantasmi. Fino a quel momento aveva funzionato.

Poi, una semplice foto aveva fatto crollare il castello di carte.

Per quanto Pidge somigliasse a Matt, in quei sei anni vederla non aveva mai acceso quella lampadina... quindi perchè proprio in quel momento, dopo tutto quel tempo? E perchè Pidge non ne aveva mai parlato?

 

"Shiro?"

Keith lo aveva chiamato almeno una decina di volte mentre era perso nei suoi pensieri, come in trance.

Takashi si riscosse di colpo, la mente improvvisamente snebbiata.

"Pidge... sono sicuro che tu abbia avuto un motivo per non averci mai raccontato nulla del tuo passato ma... ho bisogno di sapere di più su tuo fratello, di capire..." disse, stranamente calmo ma con una luce febbrile nello sguardo.

"Pensi che possa avere a che fare con l'incidente?" chiese Keith, apprensivo.

Non era sicuro di voler rivedere quello Shiro, ma sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare il trauma.

Provava una strana rabbia nei confronti di Pidge, che non aveva ancora pronunciato una parola: e se avesse saputo qualcosa sull'incidente di Shiro fin dal principio? Perchè era sempre stata così evasiva sul suo passato?

 

"Credo sia arrivato il momento di parlarne, alla fine" Pidge alzò lo sguardo, gli occhi rossi per le lacrime non versate parzialmente nascosti dal riflesso degli occhiali.

"Matthew e Samuel Holt erano mio fratello e mio padre... Pidge Gunderson non è il mio vero nome, ma ho avuto i miei motivi" iniziò, per poi interrompersi con un lungo sospiro.

"Mia madre è morta quando avevo due anni e Matt nove, quindi da allora mio padre, ricercatore oceanografico, ha sempre portato me e mio fratello in viaggio con lui, soprattutto durante le vacanze scolastiche ma talvolta anche durante l'anno: sono cresciuta in mare, prima come la mascotte dell'equipaggio e poi come membro quasi a tutti gli effetti, imparando le mansioni più varie per essere d'aiuto a papà e poter diventare come lui, un giorno.

Otto anni fa, due anni prima che vi conoscessi, precisamente il 22 maggio, mio padre e Matt partirono senza di me.

Non era mai successo, ma ero bloccata a letto da una tremenda bronchite e loro non potevano rimandare la partenza o avrebbero perso tutti i finanziamenti.

Restai a casa di zia Catherine, una donna odiosa e fredda che accusava mio padre della morte di mia madre – nonchè sua sorella - perchè era sempre stata di salute cagionevole e lui l'aveva portata qualche volta in viaggio con sè. Non faceva che tirare fuori stereotipi sul ruolo della donna, autoalimentare le proprie paranoie e cercare di dissuadermi dal mio proposito di iscrivermi alla facoltà di ingegneria nautica dopo il liceo o di iniziare a lavorare a tempo pieno con mio padre, come Matt. Non aveva capito nulla di me.

La spedizione doveva durare quattro mesi, fino alla fine dell'estate – indubbiamente la peggiore della mia vita – ma pochi giorni prima del ritorno previsto la zia ricevette una telefonata.

Disse solo 'Mi aspettavo che sarebbe successo, prima o poi', e poi si girò verso di me.

Scoprii così che le comunicazioni con il Kerberos, il catamarano su cui lavoravano, si erano interrotte da due giorni, durante una tempesta al largo delle Isole Falkland.

Era il 24 settembre 2009.

Settimane dopo furono trovati alcuni rottami riconducibili all'imbarcazione, il che indusse a pensare che fosse affondata. Le ricerche continuarono ancora per qualche tempo, ma alla fine si sono esaurite in un nulla di fatto, un caso archiviato tra i tanti misteri dell'oceano.

Ero ancora minorenne, quindi la zia era legalmente responsabile nei miei confronti. Non mi permise di incontrare i vecchi colleghi di mio padre (quelli non scomparsi nell'ipotetico naufragio), nè di uscire di casa da solo per qualche tempo, temendo che scappassi." Pidge cambiò pronome quasi senza rendersene conto, come a segnare il momento che aveva determinato la spaccatura più netta col suo passato. "Che poi, beh... è esattamente quello che è accaduto, in effetti. In questi anni ho continuato a fare ricerche, non ve ne ho parlato perchè non sarebbe cambiato nulla, e perchè temevo che a quel punto Allura avrebbe scoperto che le ho mentito sul mio nome e sulla mia età e non volevo essere obbligato a giustificarmi..." Pidge finì di parlare, le mani che stropicciavano distrattamente l'orlo della felpa.

"I quattro mesi della mia vita di cui non ricordo più nulla vanno dal 22 maggio al 28 settembre 2009, precisamente" disse Shiro, con tono monocorde.

"Potrebbe non voler dire nulla ma... se davvero tu avessi lavorato con mio padre e mio fratello io sarei stato così idiota da aver avuto la risposta davanti agli occhi per tutto questo tempo?" sussurrò Pidge, quasi tra sè.

"Hai detto che le comunicazioni si sono interrotte al largo delle Falkland, giusto? Quando mi sono risvegliato mi è stato detto che ero stato ripescato in mare aperto davanti alle coste dell'Argentina, diverse decine di miglia nautiche più a nord... e ci sono comunque cinque giorni di vuoto. Vedendo la tua foto mi è tornato in mente tuo fratello, ma ricordo solo pochi particolari" riprese Shiro, che lottava visibilmente contro sè stesso pur di riportare a galla il più possibile. Le tempie gli pulsavano come se fossero aggredite da un martello pneumatico, ma non gli importava.

 

Un colpo di tosse palesemente finto li riscosse dai loro pensieri e fece tornare alla realtà anche Lance, Keith e Hunk, che ormai erano coinvolti nella storia (Hunk non riusciva a smettere di piangere e tirava su col naso da dieci minuti, fallendo nel cercare di darsi un contegno): il loro finanziatore e non troppo gradito compagno di spedizione gli era apparso alle spalle, felpato e silenzioso come un gatto.

"Spero di non aver interrotto nulla" disse, anche se tutto lasciava intendere il contrario "Posso unirmi a voi? Mi stavo annoiando nella mia cabina da solo" ("la mia cabina" ringhiò Lance sottovoce, ancora in preda al disappunto per aver perso a morra cinese quando avevano tirato a sorte chi dovesse cedere la cabina a Lotor).

"Comunque devo ringraziarvi per l'ospitalità, non mi sarei aspettato di viaggiare con così tante comodità" riprese Lotor, visto che nessuno aveva ancora proferito parola "come facevate a sapere che marca di crema per il viso uso?".

Lance stava per esplodere ("Quella è la mia crema per il viso, e costa centocinquanta stramaledetti dollari a vasetto! Mantenere la pelle idratata è importantissimo in mezzo al mare!") quando Hunk – che stava ancora silenziosamente tirando su col naso – gli diede una gomitata, cercando di evitare che la situazione degenerasse.

"Semplicemente un caso" disse Shiro, cercando di glissare e di distogliere l'attenzione collettiva da Lance, che probabilmente aveva ancora una mezza idea di soffocare 'quello stupido riccone platinato' nel sonno per riprendersi la cabina e i suoi preziosi prodotti di bellezza.

"Io torno in sala radar" disse Pidge, congedandosi "divertitevi pure senza di me" e voltò le spalle, mentre nella sua testa si agitava un turbine di pensieri a cui non riusciva a porre un freno. Il giorno seguente avrebbe chiesto ancora a Shiro se riuscisse a ricordarsi altri particolari, ma non era il caso di sbilanciarsi ulteriormente, soprattutto non davanti ad uno sconosciuto come quel Lotor.

Nemmeno Pidge si fidava molto a pelle di quell'uomo, ma il lavoro è lavoro, quindi avrebbe sopportato la sua presenza ancora un altro po', finchè non avessero ritrovato l'Altea. Magari in futuro avrebbe potuto chiedergli di provare uno dei suoi droni, ma al momento il suo unico pensiero era rivolto a ciò che aveva detto Shiro.

Perché non lo aveva mai visto sul Kerberos? Che fosse stata la sua prima (e ultima) spedizione con gli Holt? E perché nessuno aveva collegato il suo salvataggio alla nave scomparsa, anche se era passata poco meno di una settimana dalla tempesta? Perchè il nome di Shiro non compariva da nessuna parte? E com'era possibile che non ricordasse quasi nulla dell'intera spedizione, oltre che dell'incidente? Pidge capì che quella notte non avrebbe dormito, e sospirando si sedette sulla sua brandina e accese il portatile. Il cicaleccio dei radar tutt'intorno era rilassante, e il Voltron proseguiva la sua rotta senza problemi. Niente di inaspettato era rilevato nel raggio di chilometri.

 

"Anche io dovrei andare giù in sala macchine, voglio controllare che sia tutto a posto prima di andare a dormire... mi accompagni, Lance?" tentò Hunk, per trascinare via l'amico.

Lance accettò di buon grado.

 

"Ho la sensazione che mi stiano evitando" commentò Lotor, con un bizzarro sorriso sghembo "mi piacerebbe sperimentare cosa significa fare il vostro lavoro... sono appassionato di esplorazioni oceaniche fin da bambino" riprese, rivolto a Shiro e Keith "mio padre ha lavorato in mare per molti anni, perciò quello che fate mi affascina".

"Oh... capisco" rispose Shiro, che aveva meno voglia che mai di fare conversazione, ma ormai aveva le spalle al muro. Non poteva sottrarsi nè lasciare l'ospite con Keith, che già lo sopportava a malapena. Quel viaggio sembrava essere iniziato nella prospettiva meno rosea possibile, e il suo onnipresente mal di testa non era che una fastidiosa ciliegina sulla torta.

"Il vostro equipaggio è molto particolare... è raro trovare un comandante donna così giovane oltretutto, sono rimasto davvero stupito in positivo" continuò Lotor, che evidentemente doveva recuperare le ore in silenzio passate nella sua cabina.

"In realtà Allura non ama essere definita 'comandante', insiste sempre nel dire che sul Voltron siamo tutti allo stesso livello perchè ognuno di noi ha il suo bagaglio di esperienza ed eccelle in qualcosa" puntualizzò Keith, nel tentativo di arginare gli stupidi convenevoli di Lotor.

"Anche questo le fa onore... comunque detto tra noi, ho deciso di affidare questo lavoro proprio a voi perchè conosco la sua storia. So chi era suo padre, e so che ha un forte coinvolgimento personale per quanto riguarda l'Altea. Ho scoperto la vicenda di quella nave anni fa e ho letto moltissimo in merito, e penso che nessuno meriti più di lei di ritrovarla, anche se probabilmente l'emozione sarà molto forte" Lotor fece il gesto teatrale di asciugarsi una lacrima, guadagnandosi una malcelata smorfia di Keith.

"Mi spiace interrompere questa piacevole chiacchierata, ma direi che è l'ora di tornare nelle nostre cabine... domani sarà una giornata molto lunga, forse già entro ventiquattr'ore entreremo nel raggio della possibile rotta dell'Altea e potremmo avvistarla in qualsiasi momento" disse Shiro, che in effetti aveva l'aria di essere estremamente stanco.

"Lo so, ho già mandato uno dei miei droni in avanscoperta, ma non l'ho ancora individuata" annuì l'uomo, ancora sorridendo "allora buonanotte, svegliatemi in qualsiasi momento in caso di avvistamenti improvvisi!" concluse, voltando le spalle.

 

Lance era appoggiato allo stipite della porta della sala macchine, e da almeno dieci minuti non faceva che lamentarsi senza interruzione: "Non è che doveva venire per forza per pavoneggiarsi del ritrovamento... poteva restarsene tranquillo nella sua villa con piscina – sono sicuro che quello ha una villa con piscina – a sorseggiare cocktail aspettando che noi concludessimo la missione, mi sarei evitato tanto di quel sangue marcio! E sono sicuro che starà toccando tutte le mie cose, spero che almeno come minimo ci paghi un extra per il disturbo. Mi comprerò qualcosa di bello e costoso al nostro ritorno, alla faccia sua".

"Tocca stringere i denti, non resterà mica con noi per sempre... poi non si fa vedere molto, dovrai sopportarlo ancora per poco: entro pochi giorni troviamo l'Altea, la rimorchiamo in porto, incassiamo i soldi e non lo vedrai mai più" rispose Hunk, accomodante.

"Spero di non dover condividere la foto in prima pagina del New York Times con lui, almeno" bofonchiò il cubano, sospirando.

"Non dovresti lasciarti trasportare da tutta questa negatività, loro lo sentono, si demotivano e lavorano peggio" disse Hunk, serio.

La sala macchine era il suo regno, e i cinque motori Rolls Royce con la potenza di oltre 20mila cavalli erano le sue creature, che ogni tanto trattava come esseri senzienti. Non era raro che gli altri lo sorprendessero a parlare ad alta voce mentre faceva manutenzione, ma ormai anche quello era una parte di lui. Aveva perfino dato loro dei nomi in base ai colori delle targhette con i numeri di serie. "Soprattutto Yellow è molto sensibile, se percepisce una brutta atmosfera digerisce male il gasolio e devo oliargli i pistoni più spesso".

"Basta che non glieli lubrifichi con la mia crema da centocinquanta dollari, visto che è così sensibile..." ribattè Lance, incapace di smettere di pensare al torto che aveva subìto.

 

Nella notte, la nebbia iniziò a scendere tutt'intorno al Voltron, inghiottendolo in una coltre densa e spettrale.

Coran, al timone, aveva acceso tutte le potenti luci sul ponte, ma non poteva che affidarsi ai radar perchè aveva l'impressione di navigare immerso in un bicchiere di latte.

Fino a poche ore prima il cielo era terso e sereno, il mare calmo e le stelle nitide e rassicuranti.

Erano le quattro del mattino quando, improvvisamente, la coltre di nebbia davanti a lui tradì la presenza di un ostacolo solido. Un enorme ostacolo solido, ad una distanza forse appena sufficiente per una virata di emergenza.

Pidge, che prevedibilmente non aveva chiuso occhio, lo aveva avvisato non appena i radar avevano rilevato la sagoma di una nave, ma non credeva ai suoi occhi: per quanto quelle apparecchiature sofisticatissime avessero un raggio di decine e decine di miglia marine, l'ostacolo era apparso come dal nulla davanti a loro lasciando un minimo margine di manovra, e si stava dirigendo precisamente in rotta di collisione verso il Voltron.

Mentre Coran si lanciava nella sua migliore virata per evitare lo schianto, un allarme risuonò in tutta la nave, per svegliare l'equipaggio in modo da affrontare prontamente qualsiasi tipo di emergenza. La prima a presentarsi fu Allura, che a sua volta non aveva dormito affatto, e si attaccò subito alla radio per cercare di comunicare con l'equipaggio della nave che stava quasi per speronarli. Oltre la nebbia vedeva solo una sagoma indistinta, ma il radar parlava chiaro.

"Qui Voltron, passo" iniziò, una volta individuata la frequenza.

Nessuna risposta.

"Qui Voltron, siete in rotta di collisione, stiamo virando per evitarvi ma la vostra rotta non è segnalata, passo"

Ancora silenzio.

 

Nel frattempo Shiro, Keith e Lance avevano raggiunto la plancia di comando, ma non c'era nulla che potessero fare se non assistere alla manovra disperata, mentre due piani più giù Hunk stava mandando i motori al massimo per accelerare il più possibile il tempo di virata.

Improvvisamente, un rumore secco fece sussultare tutti: Allura aveva lasciato cadere il microfono della radio e teneva una mano davanti alla bocca, gli occhi pieni di lacrime.

Lance sollevò il secondo paio di cuffie e le accostò all'orecchio: nel silenzio, dalla radio della nave che continuava ad avanzare verso di loro provenivano le note del Notturno di Chopin. Un brivido gelido gli attraversò la schiena.

"La suonava sempre mio padre... al pianoforte..." disse Allura, come a cercare di giustificare il suo crollo improvviso, nel tentativo di riprendere il controllo di sè.

Il Voltron stava finalmente iniziando a virare recependo il comando del timone, ma la nave ignota era sempre più vicina. Nonostante la nebbia, ormai riuscivano a individuarne i contorni ad occhio nudo. Era enorme, non vi era alcuna luce accesa e lo scafo era ricoperto di uno spesso strato di ruggine verdastra. Nonostante ciò, la nave avanzava a velocità sostenuta, sempre nella loro direzione. Paradossalmente, sembrava che l'ignoto comandante avesse regolato leggermente la rotta per compensare la loro manovra.

Nel silenzio iniziò a crescere la consapevolezza di essersi imbattuti nell'oggetto delle loro ricerche, anche se nel modo peggiore. Subito dopo capirono che il Voltron non ce l'avrebbe fatta, e che quella virata non sarebbe stata sufficiente. Per quanto sembrasse assurdo non aver potuto evitare una circostanza simile con tutte le strumentazioni all'avanguardia del rimorchiatore, lo schianto sembrava ormai ineluttabile.

Le note di Chopin ormai si sentivano anche nell'aria, come se galleggiassero sulle onde.

"Venti secondi alla collisione" disse Pidge nell'interfono dalla sala radar, mentre il panico aveva ormai preso possesso dell'intero equipaggio.

"Sono troppo giovane e bello per morire così..." disse Lance, le pupille contratte per il terrore di ciò che stava per accadere.

"Dieci secondi..."

Allura aveva gli occhi sbarrati, nelle orecchie le note un tempo familiari e rassicuranti del Notturno che si stavano trasformando nella colonna sonora di un incubo.

"Cinque secondi"

Ormai vedevano chiaramente lo scafo a pochissima distanza, tanto da poter distinguere alla perfezione tutti i particolari del metallo rovinato da vent'anni di navigazione.

Shiro chiuse inconsciamente gli occhi, convinto di vivere in un orribile deja-vu.

Contò fino a cinque, rassegnato che infine fosse davvero giunto il suo momento, che il mare fosse tornato a riscuotere il suo prezzo.

Riaprì gli occhi.

La nebbia si stava diradando.

L'Altea era scomparsa.

 

Lotor apparve sulla soglia, fasciato in una vestaglia aperta su un pigiama di seta blu notte, i capelli sciolti e lo sguardo di chi ha appena terminato un sonno di bellezza ristoratore.

"Mi sono perso qualcosa?"

 

   
 
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