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Autore: Nemamiah    24/10/2017    4 recensioni
Dal testo:
Verity sorrise e rispose: ‹‹Io invece credo che ci sia sempre un motivo per il modo in cui si sceglie di agire, indipendentemente dall’essere buoni o cattivi.››
‹‹È un altro modo di vedere la vita, ma penso porti alla sofferenza. Chiunque può tradirti, fingere di essere in un modo e rivelarsi l’opposto. È necessario classificare le persone e scegliere chi non far avvicinare per essere felici.››
‹‹Anche la sofferenza può condurre alla felicità, non è sempre negativa.››
[...]
‹‹Forse è solo questione di scegliere quale rischio correre quando si conosce qualcuno, se tenerlo lontano dal tuo cuore o donarglielo anche se potrebbe distruggerlo, sapendo che significa concedergli la tua fiducia, saltare nel vuoto e sperare che ti prenda prima che tocchi il suolo.››
‹‹Un po’ come l’amore.››
‹‹No. L’amore è saltare nel vuoto e sapere che non toccherai il suolo perché qualcuno ti prenderà prima.››
[...]
‹‹Il problema è questo: fare la cosa giusta non è sinonimo di rendere tutti felici.››
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nero come il bianco - Raccolta'
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Capitolo 1

“Moltissimi anni fa, in un’epoca di cui noi umani non abbiamo memoria, la magia non era diffusa sulla Terra. Ogni singola azione era svolta con le mani o con gli strumenti che l’uomo aveva saputo inventare: nulla poteva volare o essere trasportato dalla sola forza del pensiero come oggi. I ragazzi studiavano materie classiche come matematica o storia, non incantesimi e mutazioni.

Fu un periodo luminoso e ricco di scoperte, forse poco pacifico ma non per questo meno sereno e felice. Ma come tutte le luci hanno le proprie ombre, e come queste sono tanto più grandi quanto più brillante è luce, anche quella felicità si oscurò. Un giorno, nessuno ricorda più bene quando, apparvero sulla Terra due oggetti che infusero la magia in ognuno di noi. Per molti millenni la razza umana non si rese conto del grande potere che possedeva. Ignorò la magia che fluiva dalle sue mani, condannò coloro che l’accettavano e la praticavano.

Secondo le leggende, due arcangeli, il serafino Metatron e il cherubino Raziel, portarono sul nostro pianeta due elementi magici, custodi dei poteri dell’angelo dai due volti. Raziel teneva con sé Hikarihime, Principessa di Luce, e la depose in un tempio sperduto di un bosco di millenaria esistenza; Metatron trattò Benihime, Principessa Scarlatta, allo stesso modo, lasciandola però nelle rovine di una vecchia miniera di diamanti. A causa di ciò Lucifero, il primo e più splendente angelo del Paradiso, si ribellò, trascinando nel suo delirio centinaia di giovani angeli. La battaglia tra i ribelli e i fedeli fu lunga e dolorosa, con innumerevoli perdite da entrambi le parti. A nulla valeva quel sacrificio per Lucifero, poiché credeva di agire dalla parte della ragione.

La guerra si concluse con l’epica battaglia tra Lucifero e Michele. Entrambi estremamente abili nelle evocazioni, avevano una sola differenza: la potenza. Lucifero combatté Michele con tutte le proprie forze, ma non riuscì in alcun modo ad arginare il divario tra loro e uscì sconfitto: i ribelli suoi seguaci furono cacciati dal Paradiso, non più degni di risiedervi, e mai più vi rientrarono. Questa cacciata è anche nota come la “Caduta degli Angeli”. La leggenda racconta ancora di come Michele, con gli arcangeli rimasti, abbia creato un mondo nuovo, estraneo ed esterno al Paradiso, dove i ribelli avrebbero scontato il loro eterno esilio: un luogo freddo, lugubre, scavato nella roccia e nutrito dall’odio e dal rancore, dove Lucifero avrebbe regnato incontrastato. I ribelli non accettarono questa divisione e si ribellarono ancora, ma stavolta tutto fu represso nel sangue e non ebbero alcuna opportunità di negoziazione. Gli Arcangeli crearono poi un terzo regno a metà fra i due, in cui avrebbero vissuto i più degni delle due fazioni, uno per ciascuna, e avrebbero vegliato sulla pace per entrambi. Infine Michele pregò a lungo affinché il loro dio creasse un terzo angelo, un custode puro nato dalla luce, che potesse giudicare senza influenze, e lo facesse crescere sulla Terra per poi farlo salire al terzo regno al momento opportuno. Nessuno sa però se la sua preghiera fu mai esaudita.

In questo volume analizzeremo con obiettività la comparsa della magia sulle Terra, considerando gli effetti straordinari sulla vita e…”

 

‹‹È un peccato che non si possa leggere la vera leggenda anziché il libro di Storia della Magia, vero Dakota?››

‹‹Mah… Sinceramente queste storie sugli angeli non mi piacciono molto.››

‹‹Ma dai, Dakota! La magia viene dagli angeli e tantissimi misteri su di essa non sono ancora stati risolti. Non ho nemmeno una briciola di magia dentro di me e questo mi rende curiosa.››

‹‹Verity, sai che il motivo per cui Michelle si diverte a prenderti in giro è proprio questo tuo curiosare, vero?››

‹‹Già… Ma voglio sapere la verità. Forse scoprirò anche qualcosa su di me.››

Dakota recitò a memoria le motivazioni dell’amica come se fosse sul palco di un teatro e Verity ne rise, sempre contenta che la sua vita fosse banalizzata con poche parole ad effetto, alleggerendo la tristezza che si portava dietro.

Il sorriso di Dakota si spense quando volse lo sguardo verso l’ingresso della biblioteca. C’erano cinque ragazze disposte in cerchio intorno a Michelle. Era la più alta del gruppo e anche la più bella, almeno per i ragazzi della scuola: lunghi capelli lisci e neri e penetranti occhi color acquamarina. Le ragazze sedute ai tavoli sospirarono ammirando la camminata sensuale da pantera e i ragazzi si scambiarono sorrisi soddisfatti.

‹‹Ehy, senza-poteri! La professoressa Anna ti aspetta nel suo ufficio…›› le disse con un ghigno.

L’acquamarina e la nebbia si scontrarono: ‹‹Sempre a prenderla in giro, Michelle. Nessuno ti ha insegnato le buone maniere, eh››

‹‹E tu sempre a difenderla, vero Dakota?››

Le ragazze si guardavano con astio e la tensione era elettrica, ma Verity intervenne a far da paciere: ‹‹Non iniziate a litigare come al solito! Non ho voglia di sentirvi gridare e nemmeno chi studia qui ne ha››.

Disse a Dakota che si sarebbero incontrate più tardi all’area snack, raccolse i suoi libri e uscì velocemente.

Si concesse una lenta camminata nel corridoio. L’ala professori, con gli uffici, era dall’altro lato della scuola e il percorso sorpassava molte aule e il cortile interno.

Il corridoio era terribilmente lungo, ma estremamente bello secondo la ragazza. Grandi arcate, alternate a colonne imponenti, formavano le pareti color panna; le volte del soffitto erano affrescate con storie tratte dalla Bibbia e dalla mitologia greca, dettagliate e colorate. I suoi preferiti erano Orfeo ed Euridice, protagonisti dell’omonimo mito: la loro tragica storia d’amore faceva sognare la giovane, raggiungendo le corde di sentimenti e destini ancora avvolti nelle tenebre. Orfeo, bello e prestante come gli antichi dei, ed Euridice, piccola e delicata, formavano una coppia invidiabile.

Il dipinto cui si sentiva più legata era però quello dello scontro tra Michele e Lucifero, seguito poi dall’arcangelo intento a pregare. Sentiva che qualcosa di quell’atto le sfuggiva, che c’erano collegamenti da fare e misteri da risolvere.

Sorpassò le aula di fisica e scienze e poté sbirciare all’interno della seconda. La professoressa stava preparando una mistura dall’aspetto poco rassicurante: un intruglio azzurro che frizzava vivacemente. Certo, spaventava un po’ non sapere cosa sarebbe successo, se fosse esploso o no, ma le erano sempre piaciute le lezioni dove l’unica abilità che le serviva non era la magia, ma quel magico organo che è il cervello. L’insegnante aggiunse alcune gocce di un liquido rosso alla soluzione e nel giro di un decimo di secondo le esplose in faccia con una nuvoletta violacea: gli abiti erano bagnati e, mentre la donna cercava di togliersi la sciarpa senza ferirsi con i cocci del becher, la classe rideva rumorosamente. Si unì a loro in una risata leggera e si allontanò sorridendo, camminando fino alla grande porta finestra che dava sul cortile interno.

‹‹Signorina Verity! Stia attenta! In cortile ci sono delle matricole che si esercitano, ma non sono molto brave… Potrebbe farsi male.››

‹‹Grazie Mr.Jay, prometto che starò attenta.››

Mr.Jay era un bell’uomo sulla cinquantina, forzuto e simpatico. Amava ridere con gli studenti e con i colleghi, ma al tempo stesso sapeva essere serio e incutere timore con la voce grave che aveva. Condivideva con Verity un legame particolare e durante le lezioni di magia rimanevano insieme. Lei lo aiutava con alcune delle sue mansioni da bidello, poi lui la viziava offrendole la merenda. All’inizio la conversazione era stata scarsa a causa della natura timida di entrambi, ma con lo scorrere dei giorni il ghiaccio si era sciolto in un’amicizia sincera.

Appena uscita Verity si accostò al muro e procedette rasente ad esso calpestando le foglie rosse e gialle che coprivano la terra marrone. Gli studenti non erano solo poco bravi, ma dei veri e propri disastri e, pur tenendosi ben lontano dal “campo di allenamento”, rischiò più volte di essere colpita da un incantesimo mal riuscito o mal direzionato, mentre il giovane che avrebbe dovuto controllarli dormiva beatamente appoggiato contro la vecchia quercia. Nel torneo scolastico non sarebbero sopravvissuti nemmeno alle qualificazioni se non fossero migliorati. Alzò gli occhi al cielo, passò oltre la quercia e, felice di tornare al sicuro, rientrò nella scuola e bussò lievemente alla grande porta bianca che era l’ingresso della sala professori.

Attese qualche secondo e l’insegnante di Levitazione la fece entrare.

La professoressa Anna era seduta sul davanzale della finestra, respirando a pieni polmoni l’aria pura del grande parco in cui era immerso l’istituto. Di fronte a lei una larga scrivania in mogano piena di vecchie fotografie dominava la stanza. La luce illuminava le foto di studenti meritevoli del passato, familiari e illustri insegnanti ormai ritirati. Un gusto del passato permeava l’ufficio, donando la sensazione del ritorno a un tempo lontano: tantissimi libri veri, con le pagine di carta e le parole scritte con l’inchiostro erano chiusi nelle vetrine, quadri dipinti da veri pennelli erano appesi alle pareti. In un angolo della stanza un’antichissima macchina da scrivere era poggiata su un tavolino di vetro e molti altri oggetti trovati in chissà quale luogo della Terra erano conservati sotto teche trasparenti. Anche se la professoressa insegnava ai suoi studenti a usare la magia, non aveva mai smesso di credere che le azione compiute con le mani, con il contatto fisico e la fatica, fossero ancora importanti: ciò che caratterizzava un oggetto creato senza magia era ancora pregno di un potere che nessuna magia poteva eguagliare. Questo a Verity, che la magia non la possedeva, sembrava magnifico e forse anche per questo stimava Anna. C’erano dei valori in lei che la ragazza non aveva mai trovato in nessun altro.

‹‹Verity cara, come stai? Spero tu non ti sia troppo preoccupata, essere chiamata dalla preside spaventa sempre un po’…››

Scese dal davanzale e le versò una tazza di thè caldo, facendole cenno con la mano di sedersi, poi continuò a parlare.

‹‹Tua madre è venuta ieri a scuola, credo ti cercasse, ma le ho detto che eri fuori per una ricerca. Però è rimasta a parlarmi e ciò mi ha sorpreso non poco: mi ha chiesto come stessi, come ti trovassi a scuola e poi mi ha domandato come andasse la questione della magia.››

‹‹Lei cos’ha risposto?››

‹‹La verità, Verity, e cioè che nulla è cambiato da quando sei qui… Per favore, non guardarmi con quell’espressione, l’avrebbe scoperto prima o poi. Si è molto arrabbiata, accusando la scuola di non saper insegnare ai suoi studenti. Non sono riuscita a calmarla o a farle cambiare idea, mi spiace.››

‹‹Che idea scusi?››

‹‹Vuole che torni a casa. Dice che ormai hai tutti i titoli di studio che ti servono e che stare qui a sperare nell’impossibile non cambierà nulla.››

Verity era allibita. Sua madre che veniva a scuola era già un evento epocale, scoprire poi che aveva parlato con la professoressa Anna aveva qualcosa di incredibile e sapere che sarebbe dovuta tornare a casa la gettò in un baratro di tristezza. Forse, pensandoci in quel momento, avrebbe fatto meglio a preoccuparsi quando Michelle l’aveva chiamata: almeno avrebbe avuto una piccola preparazione per quello. Posò con lentezza esasperante la tazza sulla scrivania, terrorizzata dall’idea che, se solo avesse provato a dire qualcosa, le sarebbe caduta. Sentiva i palmi delle mani sudati e lo sguardo appannato di quando non voleva credere a ciò che udiva. Non poteva tornare a casa, non poteva tornare nell’unico posto al mondo dove nessuno le avrebbe più rivolto un sorriso di benevolenza o comprensione. In istituto Michelle la prendeva in giro, ma tanti l’avevano difesa nel corso degli anni e continuavano a farlo, professori inclusi.

Firmò il modulo di rinuncia volontaria trattenendo le lacrime e mordendosi il labbro inferiore fino a farlo diventare rosso e pulsante; firmò la sua condanna senza nemmeno provare a protestare. Si diresse lentamente verso la porta, carezzando con uno sguardo d’addio quei cimeli che non avrebbe visto mai più.

‹‹Verity, aspetta un minuto ancora! Anche se non vivrai più qui le mie porte sono sempre aperte per te. Vieni ogni volta che desideri e non lasciare che tua madre ti cambi, okay? Vali molto più di altri studenti con la magia…››

L’abbracciò dolcemente, stringendo quella ragazza così pronta a donare amore anche quando non ne riceveva nemmeno una briciola in cambio.

Per un’insegnante è sempre triste perdere un allievo, meritevole o meno, ma nel caso di Verity la tristezza era doppia: era entrata nella scuola sconsolata e senza speranze. Crepare la barriera gelida che indossava in ogni momento non era stato facile. Convincerla ad esporsi, a raccontarsi, a mostrare il grande cuore che possedeva era stato ancora più complicato.

La ragazza decise di abbandonarsi a quell’abbraccio tenero, assorbendo tutto quello che riusciva, ma appena sentì di non poter più trattenere le lacrime lo sciolse e uscì con un breve ultimo saluto.

Con gli occhi pieni di lacrime non vedeva bene dove stesse andando e inciampò nelle gambe di quel ragazzo appoggiato alla quercia. Si sbucciò i palmi delle mani che aveva proteso in avanti per attutire la caduta e sentì il sapore salato del pianto sulla lingua e sul palato. Il ragazzo si svegliò, guardandola incuriosito.

‹‹Ehy tu, ti sei fatta male?››

Verity non rispose e non accettò la mano che le porgeva per aiutarla. Si alzò da sola e scappò via, evitando per pochi centimetri un raggio congelante su una gamba. Gli occhi di lui la seguirono fino a che non scomparve all’interno della scuola. Che fretta poteva avere, si chiese, una ragazza con gli occhi rossi per le lacrime e un sorriso triste e finto sul viso? Guardò i due maghi in allenamento: non avevano notato la caduta di lei. Meglio così, pensò, non avrebbero notato nemmeno lui mentre andava via.

 

Rientrata al caldo Verity si appoggiò alla porta e scivolò giù, chiudendosi in se stessa. Mr.Jay provò più volte a farle raccontare cosa fosse accaduto, ma a ogni tentativo il mutismo della ragazza aumentava, tanto che finì per piangere in silenzio tutte le sue lacrime. La prese di forza e la depose su uno dei divani dell’area snack, poi mandò a chiamare Dakota, certo che in sua presenza avrebbe parlato.

L’arrivo dell’amica illuminò per un attimo gli occhi di Verity, per poi lasciarli tornare vitrei e distanti in quello successivo. Piano piano Dakota riuscì però a farla parlare e, sottile come un sussurro senza vita, Verity riferì le parole della professoressa. Parola dopo parola, frase dopo frase, i due ascoltatori passarono dallo stupore alla rabbia e alla tristezza.

‹‹Verity, devi parlare con i tuoi genitori! Convincili a farti rimanere. Tu appartieni a questa scuola. Sei qui da più tempo di qualsiasi altro studente, non hai nulla da spartire con i tuoi familiari. Poi, quanti anni sono che non si fanno vedere? Non possono pretendere che abbandoni tutto per stare da sola in quella casa enorme.››

Non serviva che Dakota glielo ricordasse, sapeva cosa avrebbe dovuto fare ma, allo stesso tempo, conosceva bene sua madre. Eleonore era una donna orgogliosa, primogenita di un’antica dinastia di maghi e streghe particolarmente potenti. In città tutti la rispettavano per il grande nome che portava sulle spalle e ne riconoscevano il fascino e la bellezza: pensare prima all’onore della famiglia che alla felicità di Verity era la normalità.

‹‹Dovrei andare a casa in ogni caso, ho già firmato il modulo, ma discutere con loro è inutile. Mio padre non c’è mai e mia madre… Non ne parliamo. Per l’intera mia famiglia sono uno scherzo della natura e hanno pure ragione: quando mai la figlia di due maghi nasce senza magia? Quando Non mi daranno spiegazioni e meno chiedo, meglio sarà.››

‹‹Ma sono i tuoi genitori!››

‹‹Questo non conta nulla, Dakota, nulla.››

 

Dakota decise di accompagnarla fino a casa, sperando di poter ancora farle cambiare idea, anche se sapeva di essere senza speranze. Sorpassarono un locale affollato e un parco dove dei bambini giocavano e si dondolavano sulle altalene. Verity non li notò. Chiusa nei suoi pensieri nulla la distraeva: non i profumi o i colori, non le risate cristalline dei piccoli. I passi erano lenti, le spalle incurvate come sotto il peso di un enorme macigno. Si salutarono con un cenno del capo di fronte al cancello.

Verity cercò la chiave arrugginita nel mazzo e varcò la cancellata. Il giardino era vivo, pulsante di energia positiva, ma la ragazza l’attraversò ignorandolo. Quel luogo era stato suo un tempo. Aveva piantato fiori di ogni specie e colore sotto lo sguardo attento del nonno, l’unico della famiglia a cui piacesse trascorrere del tempo con lei. Aveva lavorato al fianco dei giardinieri, aiutandoli così spesso che avevano riservato un angolo di prato solo per lei. Aveva riempito quel regno in poco tempo, trasformandolo in un arcobaleno di colori, anche se i fiori per cui aveva lavorato maggiormente erano state le rose nere, che la nonna le aveva portato da uno dei suoi viaggi intorno al mondo. Le aveva seguite gelosa, ammaliata dal profumo e dalla bellezza mozzafiato, e le aveva usate per decorare la tavola da pranzo, la porta della sua stanza, i mazzi di fiori che regalava a sua madre o che lasciava sul tavolino in ingresso per suo padre. Erano state l’unico dono che Eleonore aveva apertamente mostrato di gradire.

Si fermò sotto il portico mentre i ricordi si facevano spazio prepotentemente: si rivedeva seduta lì fuori, sulle gradinate, a mangiare gli acini d’uva sputandone la buccia; ricordava di aver cercato di arrampicarsi sull’edera che ricopriva il muro, di aver guardato la neve cadere infagottata nelle coperte, di aver cantato con i grilli nell’estate afosa di quando aveva cinque anni; sentiva sulla pelle il calore del vento e la sensazione di ruvidezza della barba non fatta di suo padre quando l’aveva salutata per  l’ultima volta prima che si trasferisse nel collegio dell’istituto, forse uno dei pochi abbracci che aveva ricevuto da lui e forse la prima volta che lo avesse visto in apprensione. Adesso c’erano solo foglie secche e una vecchia sedia di legno scurita dal tempo. Spalancò la porta con un sospiro: probabilmente non avrebbe rivisto più nessuno del dormitorio. Non che avesse particolari rapporti con i suoi vicini, ma le piaceva sentire la ragazza con cui divideva la stanza cantare sotto la doccia, incurante di essere stonata e di urlare per superare il rumore del getto o l’insegnante di musica che suonava sempre l’arpa dopo pranzo e si applaudiva da sola.

Le sarebbero mancati tutti quanti.

 

‹‹C’è qualcuno in casa?››

Non rispose nessuno… Non che se lo aspettasse, ovviamente.

Fece pochi passi ed entrò in quella che credeva essere la cucina, fu felice di non sbagliarsi e di ritrovarla spaziosa e brillante come ricordava. Aprì le antine e i cassetti fino a che non trovò dei biscotti e prese dal frigo il cartone del latte. Li lasciò su un mobile in cima alla grande scala e si chiuse a chiave nel bagno. Fece un doccia lunga, bollente e rilassante. Si insaponò con dolcezza, cercando di distendere i muscoli tesi con un massaggio, mentre seguiva le bolle di sapone che fluttuavano e scoppiavano a contatto con la parete. Uscita dal vapore quasi ustionante si fermò davanti allo specchio fissandosi con insistenza, attentamente. Era carina: aveva lineamenti delicati e il naso leggermente all’insù. I suoi tratti esprimevano tranquillità e calma, ma erano pochi quelli che le si avvicinavano a causa dei capelli rossi come il fuoco e degli occhi smeraldo. Si era spesso chiesta da quale antenato li avesse ereditati perché né Eleonore né Victor li avevano verdi. Non le piacevano. Troppo espressivi, troppo comunicativi, erano come un libro aperto dove si leggevano con facilità tutti i suoi sentimenti. Distolse lo sguardo e uscì, recuperò il mangiare e salì in soffitta.

 

Tutto era esattamente come lo aveva lasciato: il letto sfatto di quando era andata via, i barattoli di vernice in un angolo per terra e i pennelli posati sui gradini della scala che portava alla terrazza. Accese la musica di un vecchio giradischi e, intinto uno dei pennelli in uno dei barattoli ancora utilizzabili, dipinse con il rosso il soffitto inclinato sopra il suo letto, gocciolando un poco sulle lenzuola stropicciate. Aveva dipinto spesso, da bambina, sulle pareti della sua stanza, soprattutto quando i suoi genitori litigavano, magari svegliandola nel cuore della notte. Dipinse un grande fuoco, rosso e giallo, tanto bello da parere vero. Presa come da un’illuminazione controllò poi gli altri barattoli, scoprendo che quelli vecchi erano in realtà stati sostituiti e rimessi al loro posto. Aggiunse allora una lunga scia luminosa, bianca e celeste, che nasceva dalla mano aggraziata di un angelo dalla veste sontuosa e dai capelli biondi e riccioluti. Dalla parte opposta rappresentò invece un giovane dalla carnagione abbronzata, con i capelli neri e lucidi che cercava di deviare quella scia con un’altra molto più scura, ricca di riflessi violacei. Si allontanò per osservare meglio: Michele e Lucifero intenti a combattere, come li descriveva il primo libro che aveva letto sul loro scontro.

Continuò a dipingere fino a che non ebbe vuotato il cartone del latte e si rese conto che il viso di Lucifero assomigliava vagamente a quel ragazzo contro cui era inciampata quello stesso pomeriggio. Alla fine si accorse di non aver mangiato nessuno dei biscotti e decise di scendere in cucina per cenare con qualcosa di buono e salutare. Chiuse la porta a chiave e notò le luci dell’ingresso accese. Scese i gradini in fretta, sperando di trovare suo nonno o il suo cane. Non c’era nessuno, solo una luce leggera che filtrava da sotto la porta dell’antico salone. I genitori lo usavano solo per le cene importanti o per le festicciole con altre famiglie illustri di maghi. Nulla di tutto ciò aveva mai avuto a che fare con lei, ma non le era mai dispiaciuto davvero. Pensava sempre che si sarebbe annoiata e allora si chiudeva a chiave nella sua soffitta e dipingeva. Però era incuriosita. Si avvicinò senza fare rumore e poggiò l’orecchio sulla serratura per origliare la conversazione, anziché ignorarla come avrebbe dovuto.

La madre si stava lamentando di qualcosa, come al solito. Sbirciò allora nella serratura per sapere chi fosse nella stanza. Il nonno era seduto su una delle poltrone di velluto verde scuro e Kai era accucciato ai suoi piedi, mentre la nonna stava seduta sul divano insieme agli zii. Forse per istinto Kai alzò il muso in direzione della porta, aprendo la bocca come per sorriderle.

‹‹Finalmente Verity è a casa. Lasciarla a scuola era inutile.››

‹‹Eleonore aveva degli amici là, ora è sola…››

‹‹Ne abbiamo già parlato, Victor. Preferisco averla in questa casa, dove posso sempre sapere come sta e posso cercare di cambiarla.››

La nonna sbuffò annoiata, stufa di sentire sempre gli stessi commenti fatti dalla figlia: ‹‹Spero tu non pensi ancora che sia colpa sua!››

‹‹E di chi sarebbe, mamma Sia io che Victor sappiamo usare la magia, tutto dipende da lei.››

Ci fu un attimo di silenzio, come quando il temporale si acquieta un secondo e poi un fulmine più forte degli altri colpisce all’improvviso, e il nonno si alzò in piedi gesticolando con le mani.

‹‹La colpa non è nostra, tutto dipende da lei… Smettila di addossare colpe su quella povera ragazza e inizia a comportarti come una madre amorevole, Eleonore. L’hai trattata come un’emarginata per tutta l’infanzia e ora la riporti in questa casa vuota e sai benissimo, sapete entrambi benissimo, che sarà sola anche qui. Poi io rimango sempre della mia idea, è simile a Mary e ogni anno che passa le somiglia di più: se la genetica non è un’opinione, ha ereditato tutte le sue caratteristiche, compresa…››

‹‹Certo, Dante, perché l’esistenza degli angeli è un fatto scientifico e provato. Sei anziano ma smettila di credere in queste leggende senza fondo!››

‹‹Eleonore, sei la moglie di mio figlio, ma non ti permettere mai più di mettere in dubbio la mia intelligenza. Le antiche leggende non sono storielle per bambini e gli Ingranaggi avrebbero fatto bene a rimanere nascosti dov’erano.››

Il fratello di Eleonore disse al nonno di stare zitto, di smettere di ripetere ogni volta di lasciare in pace Verity e trattarla meglio di quanto non facessero: la ragazza era uno scherzo della natura. La moglie dell’uomo prese poi la parola, cercando di mitigare la tensione: ‹‹Signor Dante, ci ascolti: sono anni che studiamo gli Ingranaggi e non abbiamo ancora scoperto nulla di certo. Sono sicuramente una grande fonte di energia, ma da qui a parlare di angeli e guardiani protettori c’è ancora molta strada da fare.››

‹‹Certo, cerchiamo informazioni, andiamo a trovare angeli e guardiani. Se li hanno depositati in posti isolati ci sarà stata una ragione, no? Ve lo sarete chiesti spero!››

‹‹Papà, adesso basta! Sono storie senza capo né coda, e ti dirò di più, sono state le persone che facevano loro da guardia a consegnarceli. Secondo loro non c’erano problemi e se nessuno ci ha attaccato in questi anni non vedo come potrebbero farlo in futuro.››

Dante sgranò gli occhi e sedette sulla poltrona con un tonfo. Sapeva di non avere un figlio particolarmente saggio, ma credeva che la saggezza fosse un requisito fondamentale almeno per i monaci. Tutto quello che conosceva gli era stato trasmesso da loro e lui lo aveva tramandato a suo figlio, ma Victor non aveva mai compreso fino in fondo. Pochi nella famiglia in realtà avevano capito: la magia donava un senso di onnipotenza tale che l’esistenza di esseri divini, dalle capacità infinite, diventava inconcepibile, e credere nel trascendente era quasi impossibile. Era però abbastanza intelligente da sapere che parlare ancora avrebbe peggiorato l’umore di tutti e perciò uscì dalla stanza, premurandosi di sbattere la porta per esternare tutto il suo disappunto.

Verity si era allontanata già da un po’, e precisamente alle parole “scherzo della natura”, sedendosi sul primo scalino di fronte alla soffitta, stanca di sentirsi chiamare sempre allo stesso modo. Amareggiata e con le lacrime agli occhi, appena sentì i passi del nonno sulla scala si alzò di corsa ed entrò, lasciando la porta accostata e uscendo sulla terrazza. Il nonno la raggiunse e le posò una coperta leggera sulle spalle, sedendosi con fatica al suo fianco.

‹‹Cosa sono quelle lacrime? Non devi piangere, piccola mia.››

‹‹Non riesco a smettere, nonno. Perché devono sempre parlare di me in quel modo?››

‹‹Non lo so, amore. Tuo padre è così assente che non può permettersi di ribattere e gli altri… Bah, lasciali a cuocere nel loro brodo!››

Le lasciò un bacio sulla fronte e rientrò in casa. La ragazza rimase fino a che il cielo si trasformò in una notte buia e piena di stelle: la luna nera si confondeva con l’infinto. Guardando con attenzione scorse una luce in movimento: segnali inviati dagli astronomi, pensò. Eppure… Eppure non lampeggiava come al solito e lasciava dietro sé una scia violetta, appena percepibile sul manto scuro del cielo. Si avvicinò alla ringhiera, stringendola fino a farsi venire le nocche bianche e sporgendosi per vedere meglio, strizzando gli occhi. Sfortunatamente era troppo lontana e scomparve all’improvviso, anche se Verity avrebbe giurato di averla vista fermarsi per un secondo. Colpita dall’idea che si fosse arrestata per effetto dei suoi pensieri, decise di aggiungere quella scia al dipinto sopra il letto, pensando che potesse essere un angelo messaggero o un’altra creatura dei cieli.

Angolo dell'autrice

Non è la prima volta che pubblico su Efp, ma è assolutamente la prima che pubblico a) un originale nel fantasy e b)un storia originale con più di due capitoli. Spero che vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione, sia positiva che negativa. Sono entrambe estreamente utili per migliorare la mia scrittura e la storia. La trama è gia stata tutta scritta, quindi dovrò solo postare i capitoli. Cercherò di metterne uno alla settimana, ma siccome l'università mi impegna moltissimo, soprattutto al pomeriggio, alcune volte potrei saltare. Mi premurerò in ogni caso di postare sempre almeno due capitoli al mese. Se avete delle domande, chiedete pure. 

Un saluto a tutti i lettori!

Ci sentiamo la prossima settimana!

Nemamiah

   
 
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