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Autore: Vegeta_Sutcliffe    02/11/2017    2 recensioni
La sfidò. Quella relazione era una lotta perenne, due poli opposti che si erano intestarditi a volersi avvicinare, ma che erano impossibilitati dalla loro natura. Lei tornò vicino a lui e si sedette suelle sue gambe.
“Non lo farai se ti tengo la bocca occupata.” Esclamò sorridente e vittoriosa lei, prima di adagiare le sue carnose e morbide labbra su quelle sottili di lui, che non aveva voglia di lasciarla vincere. Andava contro il piacere fisico, andava contro la sua voglia di toccarle le coscie da sotto la gonna della divisa, ma volgerle contro le sue parole, farla cadere in contraddizione e farla avvedere dell’incoerenza tra il suo ruolo istituzionale e il suo volere individuale era decisamente meglio, fosse solo per il fatto che la sua convinzione di perfezione si sarebbe infranta contro uno specchio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Freezer, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU, Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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E' molto facile, in nome della libertà esteriore, soffocare la libertà interiore dell'uomo. 
Tagore

L’imponente struttura dell’Orange Star High School si ergeva davanti a loro in tutta la sua maestosità. Una costruzione moderna che vantava la reputazione delle antiche scuole del paese, un preside intransigente, un ottimo corpo docenti e studenti scelti in base al merito. Questo la rendeva uno tra gli istituti educativi più sospirati da genitori ambiziosi e studenti sognatori di un roseo e non banale futuro lavorativo.
Chi aveva seduto tra quei banchi, aveva poi frequentato prestigiose università e aveva coronato infine le proprie aspettative o i propri sogni che dir si volesse.
Frequentare quella scuola aveva il sapore della vittoria, perché significava essere riuscita dove molti altri avevano fallito, essere riconosciuta per le proprie doti intellettive. Ma, una volta averne assaporato il prelibato gusto, restava in bocca l’amaro retrogusto di una possibile umiliazione.
Suo padre era un famoso scienziato e presidente di un’importante azienda e conseguire un diploma con ottimi voti era un curriculum vitae sufficiente per aspirare ad esserne l’erede. Fin da quando era piccola tutti gli avevano inculcato in testa il desiderio di essere come suo padre, di essere suo padre. E ora che stava lavorando per realizzare questo desiderio, si sentiva schiacciata dalla paura di deludere le aspettative.
“Eccoci qui allora…” Disse, mandando giù un grosso groppo di saliva e stringendo maggiormente la mano dell’amica.
“Si, Bulma, ma non rompermi la mano.” Si voltò e guardò la ragazza al suo fianco.
Tremava impercettibilmente e i suoi occhi castani erano sbarrati e seguitavano a mirare il liceo. Era nervosa, agitata, preoccupata di non essere all’altezza degli altri ragazzi.
Lei, ragazzina tenace e dalla dura tempra ma dai sentimenti fragili, era la sua migliore amica da una vita.
Era l’unica che non l’aveva derisa, quando, appena bambina di sei anni, dichiarò orgogliosamente alla classe di volere fare la ‘Cambiatrice’ del mondo. Troppo stolti gli altri bambini per non prendersi gioco di lei, troppo disillusa la maestra per non elargirle un sorriso rassegnato e parole di sconforto.
Complimentandosi per i bei vestitini che indossavano, avevano pian piano scoperto che, oltre la moda e le futilità piacevoli della vita, potevano parlare liberamente tra di loro di argomenti importanti, senza che una criticasse o ridesse dei pensieri dell’altra.
“Andiamo Chichi, la nostra vita da liceali ci aspetta.” Cercò di incoraggiare entrambe con un sorriso forzatamente spontaneo.
“E’ un peccato che alla fine hai scelto il liceo scientifico.” Confessò la mora all’amica: dall’elementari non erano mai più state in classi separate.
“Sono contenta della mia scelta, dispiace solo di non poter stare in classe con te.”
“La vita allontana…” L’azzurra scoppiò in una risata sinceramente divertita, perché la loro giovinezza permetteva loro di ridire nello scimmiottare i discorsi degli anziani. Il tempo era loro amico o loro sarebbero stati abbastanza forti da sconfiggerlo e rimanere assieme.
Bulma prese per mano l’amica e incominciò a correre verso l’ingresso della sua nuova scuola, perché arrivare in ritardo il primo giorno sarebbe stato controproducente sicuramente. Invece voleva che il viaggio verso il futuro iniziasse nel migliore dei modi.
Appena varcato l’ingresso della scuola, girarono su se stesse, con espressione stupita, ispezionando tutto, anche il più minimo e infimo dettaglio. I corridoi lunghi e larghi, le aule enormi, professori costretti in seri vestiti e ragazzi, tanti ragazzi. Ragazzi loro coetanei, ragazzi più grandi. Ragazzi con la faccia pulita e la divisa in ordine, ragazzi trasandati e smaliziati.
Si sentivano piccole, il loro futuro era arrivato, diventando presente, e si sentivano piccole, terribilmente piccole, tanto da non sapere nemmeno orientarsi.
“Come facciamo a trovare l’aula magna?”
“Chiediamo in giro.” Rispose ovvia e intraprendente l’azzurra. La risolutezza era sempre stata una sua dote naturale e sapeva che l’avrebbe aiutata.
I suoi occhi celesti, brillanti e intensi, scrutavano minuziosamente ogni volto, studiandone la fisionomia e cercando di intuire, con una prima occhiata, il carattere di ognuno, fin quando, curiosi e inconsciamente crudeli verso la sua stessa persona, si fermarono sulla soglia dell’ingresso.
Un giovane carismatico e affascinante stava entrando, attirando su di se gli occhi indiscreti di tutti i ragazzi.
Aveva capelli di pece, acconciati in una singolare pettinatura a fiamma, ossidiana incastonata in due occhi dal taglio crudele. Labbra sottili e naso adatto ai lineamenti severi e spigolosi del suo viso. Ma ciò che più reclamava attenzione non era la bellezza perfetta di quel volto virile, quanto l’incedere lento e regale di quel corpo non troppo alto, ma muscoloso e ben proporzionato. Postura dritta e portamento fiero, fisico snello e asciutto, sottratto agli occhi delle femmine dalla divisa scolastica. Sulla spalla reggeva una tracolla di pelle nera, tra le dita una sigaretta accesa.
Bulma si stupì di vedere la camicia bianca stirata e la giacca a doppiopetto abbottonata perfettamente e la cravatta annodata elegantemente. Benchè tutti gli studenti fossero costretti a indossare quell’abbigliamento, vedere quel giovane sconosciuto, dallo sguardo misterioso e distaccato, vestito in tal maniera, le recava fastidio. Sembrava essere un controsenso. L’ostentata rigidezza del vestiario cozzava palesemente con la cicca fumante e gli occhi scuri e tempestosi di lui.
Il ragazzo si era diretto a passo cadenzato verso di lei e ora la fronteggiava in tutta la sua eleganza e compostezza. La scrutava con occhi severi, contraddicendosi con un malizioso sorriso.
Il mondo si fermò per un istante interminabile. Il cuore le si fermò per un istante interminabile.
“Secondo te perché le matricole sono ogni anno sempre più stupide?”
“Come prego?” Controbatté risentita a quelle ironiche parole, colpevoli di aver interrotto bruscamente il suo personale sogno sul nuovo ragazzo.
“Ti sto dicendo che sei stupida.” Fermo e risoluto lui, senza mostrare intenzione di voler cancellare dal suo viso quel ghigno beffardo, l’aveva appena insultata, prendendosi una famigliarità e palesando un senso di superiorità a suo avviso inadeguato.
“E cosa te lo farebbe credere, scusa?” Era bello, ma era anche stronzo e spocchioso e già sentiva di odiarlo. Nessuno, se non se stesse, poteva mettersi in dubbio, che si trattasse della sua bellezza o della sua intelligenza.
“Il fatto che mi guardi intensamente da dieci minuti e non ti sei minimamente accorta che sei davanti al mio armadietto. Evapora.”
Si voltò di scatto e notò, con somma vergogna, che si trovava esattamente dove lui aveva detto e che aveva fatto davvero la figura della bambina stupida. Si scostò veloce e cercò di giustificarsi.
“Scusa è che io… noi cercavamo l’aula magna e non sapevamo a chi chiedere.”
Si era diretto verso il suo armadietto, lo aveva aperto, noncurante degli sguardi femminili sulla sua schiena, e ne aveva estratto un pesante dizionario di greco.
“Guardare una cartina della struttura interna della scuola, affissa ogni dieci metri, ti sembrava un’idea troppo intelligente per te?” Il dispiacere durò poco, il tempo che sopravvenne il fastidio per quella sua condiscendenza e quella sua saccenteria.
Il ragazzo ebbe un lungo tiro dalla sigaretta e poi espirò il tabacco sulla sua faccia. Bulma tossì di rimando. Non aveva mai fumato e respirare quel fumo dannoso le aveva infastidito i polmoni.
“Mocciosa.” sbuffò indifferente e annoiato, per poi dileguarsi dalla sua vista.
La ragazza strinse i pugni nervosa e furibonda guardava il luogo vuoto, dove prima stava in piedi quell'arrogante. I suoi allegri occhi azzurri erano diventati mare in tempesta. Pensava alla maleducazione di quel ragazzo, vestita dalla più perfetta eleganza.
Chi diavolo era? Perché si permetteva di rivolgersi a lei, piccolo genio in erba, in quella rozza maniera?
“Su Bulma, calmati.” Cercava di convincerla Chichi, sconcertata, ma non ugualmente furiosa, per i modi discutibili del giovane.
“Io lo ammazzo prima o poi.” Giurò spontaneamente l’azzurra, destando un divertito timore nell’amica.



“Io sto aspettando”. Incalzò insistente e fastidioso.
Pronunciò queste parole col tono orgoglioso del vincitore che aspetta gli onori a lui dovuti dai vinti.
Se avesse potuto incrociare le braccia, l’avrebbe fatto per palesargli la sua indisposizione. Se i suoi occhi avessero sputato fuoco, l’avrebbe incenerito.
“No, mai!” Risoluta. Come sempre.
“L’orgoglio uccide.”
La paradossalità di quella frase era più che evidente, che forse in un altro momento ne avrebbe riso divertita. Ma in quella cella ogni riferimento a quel che era stato l’infastidiva solamente. “Proprio tu lo dici?” Se solo non fosse stato sempre così orgoglioso… 
Si alzò dalla sedia e le si portò davanti. Le carezzò la guancia con estenuante lentezza, saggiando col tatto la morbidezza di quella pelle, studiando con le dita ogni centimetro del suo volto.
“Ch-che stai facendo?” Si irrigidì all'istante al tocco inusualmente tenero dell’uomo.
La vita allontana, ma i ricordi uniscono. Non lo vedeva da anni, eppure le sue calde carezze non erano riuscite a cadere del tutto nell'oblio del tempo. Erano state troppo sospirate per poter essere rinnegate, troppo combattute per non essere ancora in qualche modo apprezzate. Eppure quel gentile tocco non era probabile per quell’uomo dal corpo e dal cuore di marmo.
Ieri come oggi Vegeta impersonava la contraddizione.
“Hai una pelle così delicata...”
Le guance le si stavano colorando di un leggero rossore.
“… Cosa preferisci l’orgoglio della morte senza resa, o la bellezza della vita coi compromessi?” Doveva aspettarselo da lui. Ricattarla con quanto di più caro avesse, lei; rovinare un momento piacevole con parole dal significato cattivo. Lo odiava. Cercò di mordergli il dito che le si era posato sulle labbra.
“Il mio aiuto costa. Se lo vuoi, devi guadagnartelo.” C’erano cose che non sarebbero mai cambiate. A Vegeta piaceva avere il potere assoluto e avvilire le persone. Non solo essere più forti degli altri, ma farli vergognare della propria debolezza.
“Non basta che ti sto chiedendo aiuto? Vuoi umiliarmi ancora? Perché questo sadico piacere?” Era sempre sul punto di piangere con lui e per lui, ma non poteva concedergli quello. Il suo sorriso mefistofelico significava che stava già godendo più di quel che meritava. Bulma lo odiava.
“Se sono qui dentro è solo colpa tua, brutto bastardo!” Urlò nella sua direzione con le guance bagnate dalla sua disperazione. Dovere supplicare il colpevole di una tale situazione era ridicolo, specie quando il colpevole era Vegeta, ma lui voleva spingersi oltre e vedere la sua afflizione non gli bastava.
Avvicinò il suo volto a quella della ragazza e le parlò alitandole in bocca. Erano vicini, troppo vicini e se le loro labbra non si toccavano, era perché i nasi lo impedivano.
“Se sei qui dentro, è perché sei una povera idiota che si crede intelligente. Se sei qui dentro, è perché ti sei sopravvalutata e ti sei messa contro le persone sbagliate. E se sei qui dentro, è solo perché sono stato così generoso da non spararti.”
Spostò la bocca al suo orecchio.
“La tua vita e la tua morte dipendono solo dalla mia volontà. Cerca di non dimenticarlo e pregami di salvarti.”
Gocce di sconfitta solcavano il suo viso e pensieri di resa schiacciavano il suo orgoglio. Poteva fare la ribelle e la forte solo fin quando lui non delineava in maniera così precisa la realtà, solo fintantoché lui non sottolineava la sua impotenza.
Vegeta aveva ragione, era solo una bambina troppo cresciuta che aveva giocato in un mondo di grandi, ma, se avesse avuto l’occasione di tornare indietro, avrebbe rifatto tutto e con più determinazione.
Tentava di mascherare i singhiozzi con una voce ferma. “Chiedo perdono.”
Voleva vivere. Aveva bisogno di vivere, anche solo per non vanificare quello che aveva fatto, per non sconfessare i suoi propositi.
“Perchè?” Incalzò, preparandosi a deliziarsi di una risposta che già conosceva, perché gliel’aveva imposta lui.
“Perché io ho…” Il suo stomaco era oppresso da un macigno tanto pesante quanto impossibile da dissolvere. Non poteva farcela, ma doveva.
Sospirò e sputò fuori la verità, non curandosi del suo orgoglio che urlava di vincere. Lottava per la vita, non per l’orgoglio.
“Chiedo perdono perchè ho cercato di ucciderti.” Se avesse dovuto limitarsi a chiedere scusa, più o meno formalmente, non sarebbe stata così restia a quel colloquio, ma conoscendolo sapeva perfettamente che non si sarebbe stato soddisfatto da semplici scuse. La sua faccia si era contratta in un’espressione di godimento, appositamente mal celato e si era ripetuto più volte quelle parole, ma era solo un preludio. E avrebbe pure voluto pensare bene, ma oltre i suoi ricordi e l’abitudine, la sua risata e i suoi occhi contenti non promettevano nulla di buono.
Si chiese se in qualche maniera la morte sarebbe stata preferibile.
“Dovrai fare molto di più.” Così per fugare ogni dubbio, o ogni possibile e illusoria speranza, nel caso lei fosse riuscita a trovarne una.
“Avvocato, la detenuta deve tornare nella sua cella. Mi dispiace ma deve andarsene.” 
Una guardia dal volto serio e impassibile li interruppe momentaneamente, ma non l’aveva salvato. Il giorno dopo lui sarebbe tornato.
Vegeta annuì e con una cenno del capo intimò alla guardia di uscire e che lui l’avrebbe seguito subito dopo.
“Hai promesso di farmi uscire da questo schifo.” Bulma non avrebbe voluto rodersi il fegato per ritrovarsi in mano con un nulla di fatto. Gli ricordò la sua promessa e gli ricordò che ora toccava a lui fare la sua parte.
“Ti fidi di me?” Domandò improvvisamente, con un tempismo che sembrava strano e inopportuno.
Aveva sentito quella domanda troppe volte e troppo volte sentiva di aver dato la risposta sbagliata.
“No.” Ma non quella volta.
“E fai bene. Stanotte avrai tutto il tempo che ti serve per pensare a quanto sei stata stupida ad affidarti a me. Per pensare che non mene frega nulla che tu marcisca in una cella putrida, perché tanto io ho le comodità di casa mia…”
Bulma ringhiò nella sua dimensioni, sapendo che lui non parlava tanto per dare fiato alla bocca e che motivi per sbattersene di lei ne aveva più di quanti ne avesse per occuparsene.
“…e tutte le puttane che voglio.”
Vegeta non avrebbe mai fatto quell'insinuazione, se non avesse voluto ottenere una determinata reazione, ma Bulma non riusciva a capire perché avesse quella mira. E, sebbene non avrebbe voluto dargli soddisfazioni, parlò tanto spontaneamente da pentirsene quanto da compiacerlo.
“Io ti ammazzo prima o poi.”
“Gelosa? Ancora?”

La sua macchina sportiva aveva raggiunto velocità folli nel percorrere la strada deserta che separava la prigione di stato dal suo appartamento. Questo si trovava nella periferia della Città dell’Ovest. Era un luogo isolato e appartato, l’ideale per chi, come lui, detestava il caos della vita.
Entrò nel suo mondo personale, lasciando la porta aperta e si premurò subito di recuperare la propria libertà. Buttò la giacca nera in terra e allentò il nodo alla cravatta. La leggera camicia, sbottonata distrattamente, seguitava a coprirgli le ampie spalle, ma le scarpe furono lanciate senza delicatezza e i calzini tolti con noncuranza. Si versò dello scotch in un bicchiere di cristallo e si diresse in terrazza.
L’aria era fresca e pungente, ma non abbastanza da scalfire la sua pelle bronzea. Appoggiato alla balaustra, mirava il cielo e le stelle che lo illuminavano. Piccoli puntini lucenti in un vasto oceano di oscurità. Erano nulla in confronto all’immensità del cielo, eppure riuscivano a far lume. Perdendo anche una sola stella, il cielo avrebbe perso un suo punto di forza. Un sua unica peculiarità.
Un ronzio proveniente dalla sua tasca, interruppe i suoi pensieri e la sua serenità. Odiava essere disturbato.
E non si capacitava del perché, benchè fosse l’unico abitante di un palazzo di cinque piani, non riuscisse mai a rilassarsi nel suo silenzio.
“Che vuoi?” esordì vagamente irritato.
“Vegeta, perché sei sempre così scontroso?”
“Che vuoi, Freezer?” ripeté, sorseggiando la bevanda alcolica, anche se poteva intuire cosa potesse interessare all’altro.
“Come è andata?”
“Bene, ma domani devo tornare da lei. C’è stato poco tempo oggi.”
“Mi fido di te.” Dichiarò serio.
“Almeno tu.” Potette ridere di quel riferimento solo tra se, ma il ricordo delle parole insensate e deboli della Brief lo metteva di buon umore.
Riattaccò il telefono senza salutare, perché non voleva sprecare tempo a cianciare inutilmente, avendo Bulma esaurito la dose giornaliera di sopportazione altrui che solitamente aveva. L’unica cosa che desiderava era farsi una doccia, in assoluto silenzio, sentendo solo lo scrosciare dell’acqua dal sifone.
Si slacciò la cintura e sfilò i pantaloni neri del completo, quando udì la porta di ingresso essere richiusa e dei leggeri passi dirigersi verso la sua camera.
“Vegeta, ti aspetto a letto.”
Bevve d’un sorso il suo drink e posò malamente il bicchiere sul banco d’appoggio più vicino a lui. D’improvviso pensò che la doccia sarebbe stato meglio farla la mattina dopo e non per forza da solo.

Il sole entrava silenzioso, ma al contempo invadente, dalla finestra a barre della prigione, la brandina sulla quale aveva trascorso la notte non era né particolarmente spaziosa né comoda, la schiena le doleva e un’emicrania insopportabile le martellava il cervello e la sua compagna l’aveva resa partecipe delle sue fantasie oniriche, urlando di tanto in tanto il nome di questa o quell’altra persona, seguita da varie minacce di morte.
Si issò a sedere e accolse la testa dolorante tra le sue mani. Maledetto Ice!
Motivi per non chiudere occhio la notte ne aveva già abbastanza, non era assolutamente necessario che Vegeta la minacciasse, le rinfacciasse e le rinfacciasse la sua misera condizione.
Al diavolo lui e le sue comodità. Sperò ardentemente che anche lui non avesse dormito, magari per qualche indisposizione fisica, particolarmente dolorosa. Non avrebbe risolto i suoi problemi, ma pensarlo malato e sofferente era una piccola soddisfazione personale che almeno l’avrebbe fatta stare meglio.
Magari tante puttane aveva avuto che qualcuna avrebbe potuto fortuitamente e fortunatamente mischiato qualche malattia sessualmente trasmissibile.
Vegeta poteva avere tutte le puttane che voleva.
Bulma assottigliò lo sguardo e si strinse i capelli tra le mani, perché non era buono che lei non trovasse buono che Vegeta potesse avere rapporti con altre.
Vegeta non Doveva avere tutte le puttane che voleva.
Bulma sapeva che Vegeta indicasse ogni esponente femminile con il termine puttana, perché per lui la donna non aveva utilità se non fosse stato per quel buco caldo che accoglieva il suo pene e un corpo statuario per farlo godere dell’estetica. Bulma sapeva pure che Vegeta avesse avuto, potesse avere tutte le donne che voleva e le più belle.
Digrignò i denti con rabbia, producendo un fastidioso rumore. Perché aveva avuto cura di sottolineare quelle parole? Era un povero sciocco se pensava che bastava una semplice allusione per invadere i pensieri di lei. Lei non era una delle puttane di Vegeta. Non una di quelle sensuali e sofisticate donnine intraprendenti e dal temperamento forte che diventavano cagnolini sottomessi al perverso piacere di un crudele padrone. No lei non era loro. E Bulma non capì se era infastidita dal fatto che lui frequentasse donne del genere, dal fatto che un tempo era stata una di loro o dalla constatazione che non lo era più.
Scrollò la testa per allontanare certi pensieri. Il suo cervello era una tempio inviolabile, in cui lui non poteva assolutamente entrare.
Era un povero sciocco se pensava che lei potesse stare male per lui.
Era una povera sciocca se si era fatta irretire nuovamente nella sua rete.
“Bastardo Vegeta!” gridò stizzita.

Qualcuno bussava alla porta. 
Si rigirò nel letto, intrappolato nel piacevole torpore della dormiveglia. Stirò le braccia e le gambe, finchè con il piede non toccò un corpo caldo e nudo.
Altre nocche seguitavano a picchiettare sulla porta d’ingresso.
Volse lo sguardo all’oggetto ancora non bene identificato che giaceva sul suo stesso letto e, dopo un tortuoso viaggio nelle memorie del giorno prima, si ricordò essere Irene. Stava ancora dormendo placidamente, rannicchiata nell’angolo in basso del letto, ciucciandosi il pollice. Sempre più spesso Vegeta aveva impressione di avere a che fare con una donna strana in tutto e per tutto.
Il rumore non voleva cessare e dopo aver sbadigliato, assonnato dal riposante sonno, e, nudo com’era, si diresse alla porta per aprire.
Appena sveglio vedere Freezer nervoso e incazzato non era il massimo, ma era famigliare. Molto famigliare. Troppo famigliare.
“Sono fuori da dieci minuti. Io odio aspettare.”
Vegeta aprì e richiuse la bocca impastata dal sonno.
“Cosa non odi?” Osò inopportuno.
Freezer lo sorpassò veloce, entrando nello spazioso e male arredato soggiorno dell’appartamento, sedendosi sul divano. Si guardò attorno, sentendosi circondato da un disordine che mal tollerava. Sul pavimento erano ancora disseminati gli abiti del giorno precedente.
“Prego accomodati, fai pure.” Vegeta sbatté violentemente l’uscio e lo raggiunse, sedendosi di fronte a lui, con le gambe incrociate.
“Che ci fai qui?” Domandò, ancora non troppo abituato alla realtà.
“Volevo vederti- rispose meccanico- con i vestiti addosso.”
“Pensa se ero Dodoria…” Vegeta insinuò maligno l’immagine indecente nella testa dell’altro.
Freezer abbassò il suo sguardo, sciogliendo il contatto tra i loro occhi, e si soffermò a mirare il suo corpo statuario e nudo. L’attenzione era ferma, fissa sulla sua imponente virilità. Un sorriso mellifluo curvò le labbra scure, Vegeta aveva ragione e per lo meno si trovava davanti uno spettacolo oggettivamente bello, peccato che non accontentava, non poteva, i suoi gusti.
“Oggi verrò con te.” Ingiunse glaciale e sintetico, tornando ad argomenti seri.
L’uomo più giovane sbuffò, infastidito da quella intrusione e quasi risentito che lui potesse dubitare delle sue capacità. Lui era il migliore.
“Assolutamente no.”
“Non intendo intralciare quello che farai, ma verrò con te. E’ un ordine.”
Vegeta ponderò attentamente sulle sue parole e scrutava il suo immobile volto, cercando di capire il motivo di quella decisione e di quella perentorietà. Aveva la chiarezza della’acqua fangosa, torbida e stagnante di una pozzanghera.
“Fa come vuoi. Basta che non rompi i coglioni.” D'altronde parlare con Freezer era inutile, specie quando era di cattivo umore. Voltò le spalle all’ospite e si diresse nella sua stanza per lavarsi e cambiarsi. “Oggi mi offri la colazione.” Urlò in direzione di quello, non curandosi della ragazza che, beata, occupava ancora il suo talamo. Sapeva perfettamente che non si sarebbe svegliata né per un terremoto né per una sparatoria. Strana donna quella!
“Come sempre, d’altronde.” Ricordò infastidito l’uomo sul divano. “Hai un quarto d’ora per fare tutto.”
In riposta alle sue parole sentì il rumore scrosciante dell’acqua.
Si accomodò meglio sul divano e appoggiò la testa allo schienale, chiudendo gli occhi, stanco di volgere la vista a quell’immenso porcile che era l’appartamento di Vegeta. Quel ragazzo era viziato, aveva sempre avuto la fortuna che qualcuno si occupasse della faccende noiose al posto suo.
Passarono i quindici minuti da lui concessi, e poi altri quindici. La sua pazienza aveva un limite ben definito ed era consigliabile, a tutti quelli che intrattenevano una qualche sorta di relazione con lui, di non oltrepassarlo. Ma con quell’uomo, ogni limite, ogni regola, ogni imposizione era totalmente vana e inutile. Quel ragazzo era viziato.
Si alzò indisposto dal divano, deciso a sfondare la porta del bagno e trascinarlo per i capelli, se fosse stato necessario, e per di più in qualunque circostanza si trovasse.
Ma, appena lasciatosi alle spalle il salone, vide Vegeta venirgli incontro e rivolgergli un ghignò derisorio.
“Già ti mancavo?” Disse, stirandosi con le mani tutte le pieghe del vestito.
Gli voltò le spalle e con passo veloce tornò indietro e incominciò a scendere le scale.
Ormai era sordo alle sue parole di scherno. “Seguimi, ora!”

Arrivarono, sgommando nel parcheggio del carcere.
Freezer aveva dimostrato fretta e quasi, quasi una sorta d’impazienza e non aveva voluto sentire ragioni e non gli aveva permesso nemmeno di prendersi il caffè. Vegeta riuscì solo a strappargli la promessa di un invito a pranzo.
Entrarono in quel cupo edificio e una sensazione malinconica colpì l’uomo più anziano.
“Quanti bei momenti passati qui.” Ricordò vago e allusivo, allargando quel ghigno beffardo, dipinto sul volto.Si girò verso Vegeta che non mostrava nessuna emozione, se questa non era né il fastidio né la noia.

“Dejavuù.”
Era un suo intimo pensiero, ma lo disse ugualmente ad alta voce. Aveva un matto bisogno di parlare, di non perdere quella capacità unica del genere umano. Aveva bisogno in qualche modo di dimostrare che aveva ancora il lume della ragione. Ma la situazione, i suoi vestiti, i suoi capelli, le sue occhiaie, il suo malumore, tutto era uguale al giorno precedente e questo la stava facendo ammattire. Quella grigia monotonia le stava distruggendo la sanità mentale. Il giorno dopo magari si sarebbe svegliata, sicura che fosse il giorno prima. Ma che importanza aveva conoscere la data? Martedì o Mercoledì faceva differenza in un omogeneo miscuglio di noiosa abitudine?
“No. Stai esagerando.”
Le venne spontaneo ricambiare le sue parole con uno sguardo totalmente perplesso.
“Ieri avevo i boxer neri, oggi li ho blu scuro. Non è tutto uguale a ieri…” L’innocua curiosità subito mutò in un terribile smarrimento. Le leggeva il pensiero, forse? Capiva i suoi pensieri guardandola negli occhi? O forse aveva gli analoghi pensieri?
“E poi oggi non saremo solo noi due.” L’aveva sottoposta a qualche sonda o a qualche marchingegno che si insinuava tra le tortuose vie del suo cervello? Continuava a guadarlo esterrefatta, ignorando inconsciamente le sue parole.
“Mi stai ascoltando?” Richiamò la sua attenzione. Essere ignorato lo mandava in bestia.
Il suo tono infastidito la riportò alla realtà della loro conversazione. Più volte si era distratta e aveva pensato ad altro. Rifiuto inconscio di quella situazione o più semplicemente troppa stanchezza. Pensò che sarebbe stato meglio giustificarsi, tanto per non farlo innervosire ulteriormente, anche se non capiva il motivo di quell'accortezza.
“Stanotte non ho dormito tanto e mi sento un po’ intronata.” Forse aveva davvero che Vegeta l’avrebbe potuta abbandonare e sicuramente era così testarda e stupida da pensare alla prima volta che l’aveva fatto.
“Nemmeno io ho dormito tanto stanotte, eppure mi sento benissimo.” Insinuò malizioso e crudele, ma in fondo la colpa era di Bulma che pareva avergliela servita su un piatto d’argento.
“Spero ti venga l’Aids.” Volesse la giustizia che tutto governa riuscire ad ammazzarlo. Volesse riuscire dove lei era fallita. Volesse darle una buona notizia, una ricompensa dopo tanto.
“Solo quando scoperò con te.” Era ancora vivo. Che ingiustizia.
“Chi ci sarà oggi con noi?” Cambiare argomento non poteva essere che un bene. Continuare su quella linea significava finire a parlare del passato, di loro due, della sua scelta, dei loro errori. E come risultato finale lei sarebbe marcita in galera. Se tutto fosse andato bene…
“Oggi con noi ci sarà una persona che ti renderà particolarmente felice.” Disse falsamente emozionato e eccitato. Non lo voleva nemmeno lui, ma nulla aveva potuto.
“E chi è?” Domandò curiosa e ingenuamente felice. Sperava finalmente qualcuno di piacevole con cui avrebbe potuto parlare di qualsiasi cosa, di ogni convenevole, del tempo, della moda, di macchine, di trucco e capelli. Sperava davvero in una dose di normalità. Le mancava.
Vegeta pregustò il divertimento che ne avrebbe tratto. Distruggere quelle allegre e infantili aspettative sarebbe stato per lui un piacere ineffabile.
“Freezer.” Scandì quel nome con una lentezza estenuante, pronunciando ogni lettera chiara e forte.
Il suo largo sorriso era scemato gradualmente, diventando un’espressione irata e spaventata al contempo, man mano che il cervello recepiva quel messaggio.
Freezer. Quel nome rimbombava nella sua testa, facendole battere all’impazzata anche il cuore.
“E’ invecchiato dal’ultima volte, ma è in perfetta salute e i medici dicono che avrà una vita longeva. Finchè nessuno l’accoppa…” Dichiarò, ostentando un coinvolgimento che non aveva realmente, ma la ragazza aveva dei repentini sbalzi d’umore che lo facevano stare bene. Passava dalla rabbia al terrore, dallo sconforto alla tristezza in un lasso di tempo oggettivamente brevissimo.
“Che fortuna per lui che sia così difficile farlo.” Disse totalmente distrutta. Lei ci aveva provato, ma non era riuscita e se fosse uscita viva, da quella situazione, avrebbe tanto voluto riprovare.
“Fortunate te, più di tutti. Il mondo è un posto grande e pericoloso e affrontare tutto da soli può essere difficile. Devi stare attenta a dove ti muovi e a chi pesti i piedi.” D’un tratto Vegeta diventò serio. Fare del sano terrorismo psicologica lo divertiva, ma doveva smetterla di perdere tempo e assolvere il suo compito.
“Ogni riferimento a fatti, veramente accaduti, è puramente casuale. Immagino.”
Scherzava con le parole, ma moriva dentro, quell’aria austera la infastidiva e quell’ostentata professionalità le facevano sembrare la sua situazione fin troppo vera.
“Non se ne trovano in giro persone come te. Sei intuitiva, sei sveglia, sei veloce nei ragionamenti. Hai una faccia pulita che non desta sospetti. Sei brillante, riesci facilmente a circondarti di gente. Di ottima gente.
Hai un fisico slanciato e sei agile, aggraziata nei movimenti. E ancora sei giovane. Troppo giovane per consumarti qui.”
Quelle parole gentili e disinteressate non erano da lui. Non che lei non avesse davvero tutte quelle caratteristiche, ma non l’avrebbe mai voluto ammettere, né davanti a lei, né nell'intimità dei suoi pensieri.
“Sei troppo speciale per consumarti qui.” Quante stronzate riusciva a dire senza che rigurgitasse bile? Adulare le persone era un metodo subdolo, ma vedere il loro ego ingrandirsi e poi sottomettersi era un qualcosa di impareggiabile. 
“Non ci casco, Vegeta.”
Si dimenticava sempre che lei non era una persona qualunque, lei era Bulma e purtroppo era intelligente. Sottometterla sarebbe stato arduo, ma lo sforzo sarebbe stato ben ricompensato dall’immagine che lei che piegava al testa a lui e lo spirito al sistema. Perché una persona per quanto intelligente, aveva sempre delle debolezze.
“Immaginavo. Ti pongo la questione in maniera diversa allora. Hai ucciso 4 persone, tutti membri della malavita. Tutte persone che tu avevi pedinato, spiato, minacciato. L’omicidio, benché di reietti della società, non è felicemente accolto da nessun tribunale e ora tu rischi di perdere la vita. Tu non vuoi morire.” Esisteva la paura.
Bulma irrigidì nella sedia. Lei non sapeva che lui sapesse anche quello.
“Ti sei già macchiata di un delitto per poterli vendicare, eppure non ci sei riuscita a pieno. La tua coscienza non è sporca, è macchiata. E quelli aloni nessuno potrà mai cancellarli.”
Sospirò prendendosi una pausa.
“I tuoi genitori sono morti e nessuno te li ridarà indietro. Ma loro vivono in te, in te solamente.” Esisteva la nostalgia.
Se Vegeta non avesse odiato on tutto il cuore calde lacrime e sciocchi sentimentalismi, si sarebbe commosso alle sue stesse parole, tanto era stato convincente.
“Devi scegliere se morire e uccidere completamente loro con te, oppure continuare a vivere, vendicarli, riprenderti ciò che è tuo di diritto. Nessuno te lo impedirà, anzi ti aiuteremo, ti aiuterà.” Esisteva la speranza.
“Il perdono si paga.” Era la conclusione del giorno precedente, un nuovo mantra che Vegeta avesse voluto lei interiorizzasse e a quanto pare, lei pareva averlo ascoltato.
“Mai niente è per niente. Però tu per poco, puoi avere tutto quello che vuoi.” Esisteva l’ingenuità.
“Dovrei prima uscire da qui, incolume. Chi mi garantisce che succederà?”
Tentò l’estremo tentativo, prima di vendere la sua anima completamente al demonio. Era ammaliante, era suadente. Quello era un ricatto in piena regola e le sembrava l’unico salvagente in una mare, in cui non sapeva nuotare, ma era cattivo.
“Ti ricordi quando mi dicevi che la vera forza del mondo era l’amicizia?”
Bulma annuì impercettibilmente e lui continuò: “Freezer ha tanti amici, e muove il mondo come più gli piace. Il giudice che dovrebbe presenziare al tuo processo è un suo amico. L’ha aiutato qualche tempo fa e lui non avrebbe inibizione alcuna a ricambiare il favore.”
Lei lo sospettava. Il problema non era scappare alla legge, era abbandonare la giustizia. Lei sarebbe uscita di prigione e sarebbe tornata in un mondo nel quale aveva sempre meno fiducia.
“Che schifo! Un giudice dovrebbe essere imparziale. Dovrebbe amministrare la giustizia, farla rispettare.”
Perché nonostante i crimini, lei si poteva definire una donna buona e innocente. Aveva agito nel bene e nel giusto e lo sapeva.
“La giustizia la fanno gli uomini. Gli uomini potenti. E Freezer lo è.” Vegeta non aveva mai avuto ideali e forse era il motivo per cui lui sembrava soddisfatto, per cui lui era libero, per cui ora stava dettando le condizioni.
“No, piuttosto la morte.” Era meglio morire per le sue giuste cause, piuttosto che vivere nella sua maniera sbagliata.
Si appoggiò esasperato allo schienale della sedia. Quella donna era troppo convinta, troppo fondamentalista e quasi le faceva pena.
“Chi ti dice che la morte non sarà peggio? Hai la certezza di quello che c’è dopo? Sarai in un mondo di luce, retto dalla giustizia o in un’orgia di malvagità?”
“Non lo so.” Ammise.
“Secondo la giustizia divina, quella stessa giustizia che tu dici di seguire, saresti colpevole, perché nessun uomo può levare la vita ad un altro uomo.”
“Ma avevano sbagliato, meritavano di essere puniti.”
“Anche tu hai sbagliato, anche tu meriti di essere punita. Se non in questo mondo, nell’aldilà, se veramente esiste.”
“Sbaglierà anche chi mi uccide allora.”
“Esatto. Con la tua morte perpetueresti quello che nella tua vita hai cercato di fermare. Non farti togliere la vita dagli uomini.”
Se avesse potuto, si sarebbe rosicata tutte le unghia delle mani. Era nervosa, era indecisa, era esortata al male contro la sua volontà.
Pensava di avere le idee chiare, eppure quelle parole l’avevano confusa. Lui l’aveva confusa. Non sapeva se era più importante vivere o restare coerenti a se stessi.
“Collaborare con noi, non vuol dire tradire i tuoi ideali.”
Sì! Quell’uomo usava la magia per leggerle dentro.
“Vuoi la vendetta? Ti ho detto che l’avrai. Cercheremo in lungo e in largo quelli che hanno tramato contro i tuoi genitori e li uccideremo, nel modo più doloroso che esista o in quello più dolce. Li uccideremo come vuoi tu. E alla fine avrai ciò che è tuo. E’ per questo che uccidi, no?”
“Freezer mi farà assolvere, ma io gli dovrei un favore, come glielo deve il giudice.” Qualunque cattiveria Bulma avesse potuto dire su Freezer sarebbe stata un eufenismo. Forse non esistevano parole per esprimere quanto riteneva cattivo e infame quell’uomo e mai si sarebbe voluta ritrovare a doverlo scegliere. Davvero non sapeva cosa fosse peggio tra la morte e Freezer.
“Questi non sono affar miei. Mi interressa solo sapere la tua scelta.”
Freezer e la morte. Era un dilemma che aveva solo la forma di una scelta, perché il contenuto era piuttosto sovrapponibile: Freezer era la morte. Sua e di qualsiasi cosa avesse sempre creduto. Pensare che potesse scednere a patti con persone profondamente ingiuste e sbagliato le faceva schifo.
“Tu mi dovresti difendere comunque.” Era un tentativo disperato e sapeva infruttuoso, ma sperava sempre che almeno un po’ di etica professionale e umana fosse rimasta in Vegeta.
“Certo, ma è il giudice che deciderà se assolverti o meno e quattro omicidi con prove inconfutabili a tuo carico sono difficili da perdonare.”
“Io non sono un’ assassina.” Non sapeva per quale uditore lo stesso dicendo. Se per Vegeta che ripetutamente le sbatteva in faccia la verità fattuale che voleva ignorare, o la sua coscienza che voleva ancora mentirsi.
“Ti piacciono i bei vestiti? Le feste? I gioielli e le macchine sportive? Attici lussuosi? La scienza?” Esistevano i piaceri materiali.
“Si.” Disse con la voce tremante e cedevole. Erano cose che le mancavano, che sapeva essere sue e che purtroppo non aveva mai potuto esperire appieno.
“Nell’aldilà forse non ci saranno.” Esisteva la minaccia.
La morte era una rinuncia troppo grande per una giovane donna come lei. Aveva un passato da non vanificare e un futuro che l’aspettava a braccia aperte. In forti e robuste braccia. In viscide braccia.
“Mi prometti che uscirò da qui? E che avrò tutto quello che hai detto?” Bulma era arrivata allo stremo. Discutere con Vegeta era sempre spossante, mai piacevole, ma quella volta la paura di morire e perdere la vita la stavano portando all’isteria. E per beni materiali e sanità mentale credeva di poter rinunciare momentaneamente a i suoi principi.
Vegeta tirò fuori dalla tasca il pacchetto di sigarette e ne accese una. Si alzò e le si portò davanti, appoggiandole il filtro tra le labbra.
“Vuoi? E’ tua. Puoi fumare.”
Bulma aspirò con affanno, come un assetato a cui viene portato un bicchiere d’acqua. Come una fumatrice che da troppo tempo non fumava. Nella foga dell’azione, posò le labbra sulle sue dita.
Erano così le mani del diavolo? Morbide e calde e profumate?
“Puoi avere tutto quello che vuoi, se stai dalla nostra parte.”
Forse non era tanto male come compromesso. “Ci sto. Sono dalla vostra parte.” Disse distrattamente, troppo presa dal gusto del tabacco.
A Vegeta scappò una smorfia compiaciuta e condiscendente, ma lei non se ne accorse. Esistevano tanti nomi diversi per chiamarle, ma finchè fossero esistite le emozioni e le paure, lui avrebbe sempre saputo come essere più forti degli altri.
Quante buone cose si sarebbe persa, se non avesse accettato il suo invito. A Vegeta scappò una smorfia vittoriosa, perché era riuscita ad avere la meglio addirittura su due mostri sacri, come la giustizia e la libertà.
Bulma era piegata, tradita e sottomessa a lui, ma non se ne accorgeva. Ma finché il collare non stringe, non si accorge di essere in cattività.



Buonasera!
Sono super gasata da questi aggiornamenti super veloci *-*
Anche se in effetti, penso a come modificare tutto più di quel che avevo preventivato. Oltre ad esserci sempre reticenza a cancellare mezza parola, devo fare attenzione a non cambiare il senso, a non scordarmi quelle sottigliezze che fanno parte del gioco e che potrei svelare in un attimo di disattenzione e poi nemmeno ora è facile scrivere di qualcosa del genere.
Ho snellito i dialoghi, ho reso il tutto meno coerente e meno schizzofrenico, spero, eppure la pesantezza rimane, me ne rendo conto, anzi forse aumenta.
Ringrazio tutti quelli che si stanno avventurando con me in questa nuova avventura! Siete preziosi, davvero! <3
Mi rimetto di nuovo al vostro giudizio e alla prossima!

 
  
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