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Autore: Levyan    03/11/2017    1 recensioni
Una sostanziosa One shot che fa da prequel a Ceneri e Piume, chiarendo alcune vicende relative al padre di Ruby, il Capopalestra Norman, di Petalipoli. Si tratta di una storia dai toni noir e investigativi; ho provato a creare un'atmosfera più adatta possibile. Buona lettura ;)
Genere: Azione, Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Norman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga
- Questa storia fa parte della serie 'Levyanbräu (Pokémon Adventures)'
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Quando scese il buio
 
 
Petalipoli, Hoenn
 
Erano le sette e cinquantacinque, l’aria che aleggiava all’interno del bar di Joel era tiepida e sapeva di caffè e paste calde. Il proprietario, un uomo pienotto che indossava sempre una camicia a quadri, era intento a lucidare compulsivamente dei bicchieri dietro al bancone, mentre le cameriere portavano cappuccini e cornetti ai clienti dei tavoli.
«Una brioche danese, tesoro» ammiccava Milly servendo la colazione al commissario Rodney che di lì a dieci minuti sarebbe entrato in servizio.
«Ultimamente mia moglie è fissata con lo yoga, non immagini quanto costi uno di quei corsi» si lamentava uno seduto ad un tavolo limitrofo, mentre l’amico scuoteva la testa.
«Gemma, dolcezza, sei libera per stasera?» chiedeva un altro cliente non troppo sobrio avvinghiandosi alla cameriera che stava servendogli l’ennesima birra.
Nel chiacchierio generale, si udì il campanello suonare all’arrivo di un nuovo cliente. Joel si voltò per salutare, con quel suo sorriso sbiadito di sempre.
«Eccolo, il grand’uomo» esclamò.
«Buongiorno, Joel» rispose Norman, il Capopalestra di Petalipoli, sedendo al bancone.
«Espresso e integrale con marmellata ai frutti di bosco» ripeté il barista servendogli il solito.
«Grazie mille» fece Norman, salutando la cameriera che lo fissava lucidando un tavolo, dall’altra parte del locale.
«Che coincidenza, guarda chi c’è alla televisione» rise Joel, indicando lo schermo piatto che aveva appeso in un angolo del suo locale.
«...per la venticinquesima edizione del Concorso Ellade, qui a Grecalopoli, con un ospite speciale dell’evento, il Maestro Coordinatore Ruby» annunciava la presentatrice, tutta entusiasmata, mentre il programma dava qualche immagine della grande festa che si stava tenendo in occasione di una dei campionati delle virtù di Unima.
Norman sorrise, nascondendosi dietro la tazzina da caffè.
«Immagino ti abbia dato grandi soddisfazioni» tentò Joel.
Il Capopalestra alzò un sopracciglio «è una sfida andare d’accordo con Ruby» fece.
«Come sempre, con i figli» commentò il barista.
«Quanto hai ragione» ribatté.
Joel continuò a tenere gli occhi sulla televisione, finché non diedero alcune immagini prese da uno dei galà di lusso avvenuto la sera precedente, in cui Ruby, vestito con un completo Tom Ford elegantissimo, accompagnava sul tappeto rosso una ragazza altrettanto elegante, con dei bei capelli castani raccolti in uno chignon e dei lucenti occhi color zaffiro.
«Però si dà da fare, vedo» commentò.
Norman diede una seconda occhiata allo schermo, quasi divertito.
«E’ ancora giovane, alla sua età avevamo tutti soltanto una cosa in testa» affermò.
Il barista riprese a lucidare i bicchieri, distraendosi dalla conversazione per permettere a Norman di mangiare in pace.
«Senti, Joel» si rivolse di nuovo a lui il Capopalestra, quando ebbe finito «hai visto gente nuova, da queste parti, ultimamente?»
Quello non comprese subito il senso della domanda.
«Intendi... forestieri?»
«Sì» rispose Norman «e non Allenatori o Ranger... uomini vestiti di tutto punto, non viaggiatori» aggiunse frettolosamente.
«Oh, beh» Joel rifletté per qualche istante, grattandosi il mento irsuto «è difficile ma... sì, ora che mi ci fai pensare, sì, un paio. Mi hanno ordinato qualche caffè, di sicuro, per poi andarsene. Sono in pochi ad entrare qui e a non aver voglia di scambiare una parola con nessuno» rivelò.
«Grazie, amico» Norman allungò i soldi per pagare il conto più qualche spicciolo per la mancia sul bancone e lasciò il locale salutando.
Il Capopalestra camminava con il suo tipico passo calmo e cadenzato in direzione della sua palestra. Le persone lo salutavano, lui rispondeva senza esagerare con le cordialità, avevano imparato a leggere la gentilezza nella sua serietà imperturbabile. Entrò nella palestra passando dall’entrata sul retro, accese le luci dal quadro elettrico sistemò alcune attrezzature da allenamento. Avrebbe tenuto una lezione, quel giorno, era uno dei pochi Capipalestra al mondo che prestava tale servizio, proponendosi come mentore dei giovani Allenatori.
Quando tutto era stato sistemato, Norman si sedette alla sua scrivania, gettandovi sopra le buste che aveva trovato nella cassetta delle lettere. Nella maggior parte dei casi erano bollette, documenti riguardanti polizze assicurative o conti in banca e altra immondizia burocratica.
Mise tutto da parte e rimase a fissare l’unico documento a cui era realmente interessato che, dopo essere rimasto solo su quella scrivania, sembrava guardarlo con aria di sfida. Prese a sfogliare le carte del divorzio che Emily, sua moglie, gli aveva fatto recapitare alcuni giorni prima. Ogni pagina, ogni riga, ogni cavillo scorreva senza lasciare alcuna traccia nella sua mente. Doveva ricominciare daccapo ogni volta che, giunto a metà pagina, si rendeva conto di non aver capito niente. Nel profondo sentiva di dover rimuginare su qualcosa e provare del senso di colpa, ma si rendeva lentamente conto che tutti i litigi, gli scontri verbali e le sfuriate avute con sua moglie erano solo i rivoli di fumo di un immensa nebbia indistinguibile che ottundeva la sua mente. Era stato poco presente, un po’ per la lontananza, un po’ per la sua indole introversa e poco aperta agli affetti e alle relazioni. Tutti quegli anni alla ricerca di Rayquaza, seguiti da quelli in cui aveva occupato il ruolo del Capopalestra, lo avevano tenuto sempre più lontano dalla sua famiglia. La donna che aveva sposato era rimasta sola, con un figlio e una casa da gestire.
Per il bene di Ruby, avevano rimandato giorno dopo giorno, finché non si erano resi conto che il loro ragazzo era finalmente divenuto indipendente e in grado di badare a se stesso. A quel punto, Emily aveva preso la spinosa decisione. Aveva spedito le carte in cui chiedeva ufficialmente la separazione, senza neanche degnarsi di portarle lei stessa a Petalipoli, d’altronde lo stesso Norman tornava ad Albanova tanto raramente da non avere un posto fisso a tavola durante i pasti.
La cosa che più lo metteva a disagio, era il fatto che Ruby non fosse a conoscenza di ciò che stava avvenendo tra le due persone che lo avevano messo al mondo. Che fosse per il tatto con cui viene trattato il figlio unico, che fosse per la loro educazione o per qualche altro motivo, non era noto a nessuno dei due, ma Norman e Emily si erano sempre guardati dal litigare in presenza di Ruby, lasciandosi andare soltanto quando erano in solitudine.
Come avrebbe reagito Ruby se, tornando dall’estero, avesse trovato la loro villetta ad Albanova svuotata da ogni bene appartenente a suo padre? Norman richiuse i fascicoli, non era dell’umore giusto per certe cose, li avrebbe affrontati poi, in un secondo momento.
Si concentrò invece sul sospetto che era balenato nel suo cervello pochi giorni prima: dopo anni di lavoro a Petalipoli, a stretto contatto con i cittadini e le loro famiglie, aveva quasi imparato a memoria ogni nome, ogni volto e ogni angolo della sua città. Ragion per cui, aveva avuto modo di avvertire alcune presenze insolite nel territorio: si era incuriosito e aveva colto con lo sguardo qualche individuo sospetto nell’apparente tentativo di pedinarlo, osservarlo, studiarlo. Lui li aveva lasciati fare per due giorni, poi si era messo al lavoro nel raccogliere informazioni, controllando alcuni video delle telecamere di sorveglianza della sua zona e chiedendo a persone come Joel se avessero avuto contatti con alcuni di questi individui. Ogni sua ricerca, aveva portato a esiti positivi, era pedinato da ben due persone diverse che si intercambiavano ogni cinque ore, senza mai perderlo d’occhio e senza mai attirare i sospetti di nessuno che non fosse abbastanza guardingo da notare persino la minima stranezza in un contesto così ampio.
Si decise ad agire, quella sera avrebbe scoperto cosa mai stesse succedendo a sua insaputa, si prese l’intera giornata per elaborare una strategia efficace.
 
Alle venti e quindici, dopo una dura giornata di Allenamenti, sudore, fatica e lotte Pokémon, anche l’ultimo inserviente lasciò la Palestra, avendo concluso le pulizie. Norman si annotò mentalmente di occuparsi delle loro buste paga, la settimana seguente, apprestandosi a spegnere tutte le luci del suo dojo, prima di uscire dalla porta di servizio. Aveva fatto una doccia nel bagno del suo studio, ma aveva preferito indossare una comoda tuta da allenamento dopo essersi asciugato.
Cominciò a camminare lentamente, lungo Dandelion Avenue, nella speranza di individuare l’ombra dell’uomo che lo pedinava sporcare i cerchi di luce prodotti dai lampioni, su quella strada buia. Fu bravo a fermarsi poco dopo aver oltrepassato grosse insegne al neon, vetrine illuminate e incroci in cui molte auto con i fari accesi si concentravano tutte in una volta. Con qualche sguardo rubato agli ultimi istanti, riuscì ad individuare la sagoma privata per qualche istante del favore del buio. Ne aveva la certezza, ormai, quel tale lo stava pedinando.
“Facciamo una bella chiacchierata...” pensò, ripercorrendo le poche e semplici fasi del suo piano.
Era ormai giunto fino a Columbine Terrace, individuò un vicolo che si immetteva nella strada in un punto abbastanza buio, lo imboccò con rapidità felina. Si arrampicò sulla scala antincendio del palazzo adiacente, raggiungendone il terzo piano con facilità impressionante. Smise di muoversi per evitare di fare troppo rumore, attese alcuni istanti. L’uomo vestito di nero raggiunse il vicolo, si guardò attorno, sbucò nella via parallela, guardò a destra e a sinistra, scuotendo la testa. Allora estrasse una ricetrasmittente, o qualcosa di simile, Norman non riuscì a distinguerla con precisione.
«Jackson, qui è Rumlow, ho perso contatto con l’obiettivo, ha imboccato un sentiero insolito e non sembra diretto verso nessuno dei suoi punti di interesse, sono tra Columbine Terrace e Daisy Street, riprendi la posizione nel settore B, io andrò a sorvegliare il suo appartamento» disse al dispositivo di comunicazione.
«Roger, mi dirigo subito lì» rispose il collega dall’altra parte del collegamento.
Perfetto. Norman pensò di aver sentito abbastanza. Scese dalla scala antincendio, calandosi in silenzio proprio alle spalle dell’uomo vestito di nero, che era intento a segnare alcuni punti sulle mappe digitali di un dispositivo palmare che aveva con sé.
Un bracciò gli avvolse il collo, l’altro gli immobilizzò la mano, facendo pressione sui punti sensibili tra il pollice e l’indice. L’agente Rumlow era in completa balia del suo aggressore.
«Per chi lavori?» chiese Norman, filtrando le parole per purificarle da ogni vaga emozione.
Quello digrignava i denti emettendo uno sgradevole stridio, tentando in ogni modo di sfuggire alla presa. Ma più lui si divincolava e cercava si sgusciare via, più Norman stringeva forte, bloccandogli l’afflusso di sangue e la respirazione.
«Per chi lavori?» ripeté il Capopalestra, con voce più spietata.
Quello emise solo gorgoglii privi di senso compiuto.
«Rispondimi, altrimenti sarò costretto a tirarti fuori le informazioni con la forza» sibilò Norman, premendo più forte sui punti sensibili.
Quello sembrò contorcersi del dolore, nei limiti delle sue costrizioni.
«Ha... pr... s...» mormorò, con voce strozzata.
Norman allargò leggermente la presa, per permettergli di riformulare meglio.
«Hai perso...» ripeté quello, con una nota di ilarità nella voce.
Il Capopalestra avvertì il suo strano movimento della mandibola, lo vide masticare qualcosa, ma si rese conto troppo tardi di cosa stesse accadendo. Quello cominciò a sbavare copiosamente, agitandosi come in preda ad un attacco di convulsioni. Dopo alcuni secondi, smise di opporre ogni resistenza. Norman lo lasciò, quello cadde a peso morto sull’asfalto umido di quel vicolo buio. Aveva rotto una capsula contenente del veleno, come una spia di guerra. Il Capopalestra di Petalipoli stentava ancora a crederci: quell’uomo aveva avuto l’incarico di pedinarlo, votandosi talmente tanto alla sua causa da accettare di uccidersi in caso di fallimento.
Impiegò qualche secondo per riprendersi, ma fece appello ai suoi nervi d’acciaio e alla sua concentrazione. Aveva un’ultima possibilità per cercare di scoprire qualcosa su quell’agente: facendo ben attenzione a non lasciare impronte digitali, si mise a rovistare sul suo cadavere. Tastò pure il polso, per verificare che il suo cuore non battesse più. Poi cominciò a studiare la gli strumenti di cui era provvisto: una ricetrasmittente con un’auricolare, il palmare che scoprì essere solo una mappa satellitare di Hoenn, una Makarov 6P9 provvista di silenziatore e due caricatori di scorta, un coltello a serramanico, una torcia, quasi cinquecento Pokédollari in contanti e un portadocumenti in cuoio.
“Bingo” pensò Norman.
Lo aprì.
 
Raye Penber, agente del FBI
 
“Il tuo compagno ti ha chiamato Rumlow, questo documento è falso” imprecò Norman. Tenne il distintivo con sé, per sicurezza. A quel punto si rese conto di non avere più alcuna pista da seguire: un agente era morto e lui aveva fatto un buco nell’acqua.
Poi gli balenò in testa l’ombra di un’idea. Spogliò l’uomo del giaccone pesante e controllò ogni piega e ogni cucitura della fodera interna: niente. Studiò allo stesso modo la sua uniforme e le fondine strette attorno al torace: niente. Finalmente, quando giunse alla cintura, riuscì a trovare ciò che cercava:
 
FACES International
 
La scritta a righine sottili era incisa nella parte interna della fibbia, quasi invisibile, forse neanche l’agente stesso ne era a conoscenza. Eppure, quei pochi caratteri lo avevano tradito.
“Faces...” Norman stava facendo mente locale, tentando di ricordare dove aveva già sentito quel nome “...oh, merda” si rese conto di conoscere benissimo quell’organizzazione: era società enorme, diffusa in ogni regione, composta da molte compagnie e molto attiva nel campo della sicurezza privata e non. Aveva avuto alcune controversie con la Faces, quando gli era toccato superare la muraglia burocratica che gli avrebbe permesso di aprire la sua palestra. Qualcosa divenne più chiaro, probabilmente era tutto collegato.
Norman decise di impegnarsi per fare chiarezza, un uomo era morto e lui ne era stato l’indiretto carnefice, ormai era una sua responsabilità.
Abbandonò il cadavere in mezzo al vicolo, si allontanò sempre più, percorrendo i profumati viali di Petalipoli. Prese la strada più lunga possibile, allungando il percorso in modo da poter seminare un possibile secondo agente; camminò in maniera disinvolta e tranquilla, così da non attirare l’attenzione.
 
Norman si abbandonò a peso morto sulla sedia del suo studio. Era lievemente destabilizzato, ma il suo codice comportamentale lo obbligava a resistere e farsi forza. Fece alcune ricerche su Google dal suo Mac, ovviamente non si aspettava di trovare alcunché riguardo ai pedinamenti segreti di agenti inviati dalla Faces, ma ottenne comunque alcune informazioni utili: scoprì anche che le sedi Faces a Hoenn erano due, la principale a Porto Alghepoli, un enorme grattacielo di vetro stile Dubai, più una piccola filiale a Ciclamipoli. Per un momento una sinistra idea balenò nella sua mente, spegnendosi quasi subito sotto la massa del buon senso.
Tuttavia, si rese conto che probabilmente quello era uno dei casi in cui seguire il suo istinto sarebbe stata cosa buona e giusta. Fece un rapido calcolo all’interno della sua mente: il tempo di andata e ritorno da Ciclamipoli più quello indicativo di svolgimento del suo compito.
Norman osservò la sua scrivania, cercando un ordine in quel caos scomposto e accuratamente costruito col passare dei giorni. Conoscendolo, nessuno avrebbe creduto che quella fosse la sua postazione di lavoro.
Batté un pugno sul tavolo. Si sarebbe infiltrato nella sede Faces di Ciclamipoli. Se avesse dovuto essere scoperto, avrebbero sicuramente ricollegato a lui la morte di quell’agente e un crimine tanto grave era sufficiente per relegare in un carcere tutti i suoi restanti anni di vita. Ne era cosciente. Ma non stava prendendo quella decisione con leggerezza. Lui non avrebbe commesso errori, era pur sempre Norman, maledizione! Ogni cosa poteva attendere, quella notte, avrebbe lavorato a modo suo.
Prese dal suo armadio una tuta scura e opaca, un passamontagna, dei guanti e delle scarpe comode provviste di fondo ammorbidito, utile per attutire i suoni.
 
Raggiunse Ciclamipoli durante la notte, si appostò all’interno di un Centro Pokémon, infagottato in un cappotto lungo e dal bavero alto, in modo da non essere riconosciuto. Fortunatamente, i pochi presenti stavano tutti annegando nel sonno, quando quell’individuò si presentò nella loro stessa stanza, persino l’infermiera sembrava fortemente provata da quel turno di notte così lungo e noioso. Norman, dal canto suo, stava tenendo d’occhio la televisione, sulla quale scorrevano i titoli del notiziario. Tra le nuove tette di un’attrice famosa e gli scandali relativi a qualche parlamentare estero, non comparve niente a proposito di un corpo rinvenuto nei vicoli di Petalipoli. Bene, pensò Norman, ciò gli dava solo più tempo del previsto.
Uscì dal centro dopo aver preso un caffè alle macchinette automatiche, il terzo, quel giorno.
Lungo la città vecchia, la zona più malfamata della città, Norman camminava senza emettere suoni sul marciapiede costellato di gomme da masticare e untuose carte di cheeseburger. I tombini emettevano un sottile fiato umido, i senzatetto tentavano di accaparrarsi delle carte di giornale per poi ritirarsi a dormire all’interno di edifici in costruzione e cantieri abbandonati.
«Vieni a divertirti, bell’uomo» stava gridando qualche prostituta nei pressi di uno strip club illegale. Norman ne scrutò i contorni strizzati in un corpetto con la coda dell’occhio, ma non rispose al suo richiamo.
Percorse a piedi, evitando le zone troppo illuminate e popolate, anche mezzo quartiere residenziale. Giunse quindi alla Midtown di Ciclamipoli, la Wall Street di Hoenn, quartiere densamente urbanizzato che risultava soffocante per chi era abituato a vivere a stretto contatto con la natura e non era abituato a quei soffocanti grattacieli.
Per la strada giravano molte auto, nonostante fosse ormai notte inoltrata. Quella zona della città non dormiva mai: le società erano impegnate nel trading ventiquattro ore su ventiquattro; tuttavia, dopo la chiusura della borsa nazionale nel tardo pomeriggio, le attività si facevano più diradate e dirette solo verso il mercato estero, lasciando al quartiere un minimo di riposo.
Osservò quei due o tre aspiranti broker con le cravatte fuori posto che chiamavano goffamente un taxi per tornare a casa, mentre i loro capi se ne andavano in Lamborghini, in compagnia di un paio di escort thailandesi e qualche pacco di cocaina. Dopo aver oltrepassato l’ultimo grattacielo di dimensioni spropositate, si rese conto di essere arrivato a destinazione.
La filiale FACES era un edificio dalle vetrate scure, raggiungeva i venticinque piani, ma sembrava una cabina telefonica, se messo a paragone con le gigantesche torri di vetro delle multinazionali. Non era possibile capire se tutte le luci fossero accese o spente, all’interno, ma la reception del pianterreno era debolmente illuminata e presieduta da una commessa annoiata. Norman non lo osservò per troppo tempo, per non dare nell’occhio. Si infilò in un vicoletto adiacente e liberò il suo Swellow dalla Poké Ball, intimandogli di rimanere appostato su un tetto, per intervenire in caso di necessità. Chiuse il cappotto, alzò il bavero, prese una seconda Ball e si avviò verso l’entrata.
La receptionist era immersa nella lettura di una rivista di gossip, quando tutte le luci parvero spegnersi di colpo. Ritrovandosi al buio, si allarmò immediatamente, alzandosi di scatto e artigliando il proprio cellulare per accendere la torcia.
«Chi c’è?» esclamò ingenuamente, dirigendo il fascio di luce che proveniva dal piccolo LED del suo iPhone in diversi angoli della stanza.
Ovviamente non udì risposta, quindi si avviò a passo cauto e attento verso il quadro generale, che sapeva essere nello sgabuzzino adiacente all’ascensore. Si mosse nel buio cercando di non inciampare e di verificare che non ci fossero malintenzionati in attesa di un suo passo falso, riuscì a toccare la maniglia della porta del piccolo ripostiglio: la girò ed entrò. Una volta all’interno di quella stanzetta polverosa e umida, tentò di aprire lo sportelletto della centralina, ma le sue unghie smaltate non erano adatte a certi lavori. Dovette posare il cellulare e riprovare con entrambe le mani, riuscendo. Cominciò a tastare i piccoli interruttori uno ad uno, trovando immediatamente l’unico che era rivolto verso il basso. Inquadrò la scritta con la torcia: salvavita. Riattivò il sistema, spingendo la levetta verso l’alto. Finalmente, ogni lampadina si riaccese. Gli occhi della ragazza impiegarono un po’ per riabituarsi alla luminosità.
Poi si udì un rumore soffocato, come un tonfo metallico attutito con delicatezza, sembrava provenire dall’esterno.
La receptionist tornò in allarme: era stanca e molto spaventata, due caratteristiche che la mettevano fortemente in pericolo. Con cautela, uscì dallo sgabuzzino, un poco rassicurata alla vista della sua postazione di lavoro illuminata come a mezzogiorno. Si guardò attorno, senza riuscire a individuare nulla che avrebbe mai potuto emettere quel suono che aveva udito. Passò davanti alla porta dell’ascensore, che era stato riattivato pochi secondi prima. Era fermo al piano terra e non era entrato in movimento. Eppure, le sembrava proprio che quel rumore fosse venuto da lì.
Premette il tasto di chiamata, con la mano tremante, questo si illuminò e fu seguito dallo spalancarsi delle porte automatiche.
«Ah!» esclamò la ragazza, raggelando.
Poi si rese conto di aver commesso un’idiozia. Non appena la porte si erano aperte, lei si era trovata davanti una sagoma umana: il suo riflesso proiettato nello specchio dell’ascensore. Si tranquillizzò dopo alcuni secondi, tentando di calmare i battiti e regolarizzando la respirazione. Assunse con rassegnazione che la sua immaginazione aveva viaggiato, guidata dalla paura. Non vi era stato alcun suono e lei non era in pericolo. Tornò a leggere la sua rivista, nascondendosi il più possibile dietro al bancone.
Intanto, all’interno del vano dell’ascensore, Norman era appena uscito dalla botola di sicurezza, dopo aver forzato le porte col favore del buio. Stringeva la Ball di Electrode nella mano sinistra, aveva messo in pratica gli insegnamenti di Walter su come mandare in cortocircuito una centralina senza dare nell’occhio. Il Capopalestra cominciò a risalire i cavi con la forza delle braccia, senza emettere il minimo suono. Raggiunse l’ultimo piano dopo alcuni minuti di fatica, l’obiettivo era quasi raggiunto. Si calò il passamontagna sul volto, nascose ogni elemento del suo vestiario che avrebbe potuto tradire la sua identità e forzò le porte dell’ascensore per una seconda volta. I due parallelepipedi metallici scorsero con difficoltà all’interno delle loro fughe, ma il sottile varco era sufficiente perché Norman potesse saltare nel corridoio debolmente illuminato del venticinquesimo piano. Non si udiva alcun suono, segno che forse i pochi lavoratori ancora impegnati all’interno di quell’edificio stessero lavorando altrove, ma lui stava andando a tentativi, non era certo di trovare ciò che stava cercando.
Cercò l’ufficio più lussuoso di tutto il piano, sicuro che fosse quello del direttore. Quando lo trovò, muovendosi sulla moquette, fiancheggiando i mobili cerati e oltrepassando la scrivania in mogano, si sedette alla postazione computer. L’accesso richiedeva una password che lui non conosceva e mai avrebbe potuto conoscere, ma non si sarebbe certamente arreso di fronte ad una simile piccolezza. Inserì in una delle porte USB uno dei dispositivi di decrittazione che Lanette aveva sviluppato qualche anno fa, erano stati consegnati ad ognuno dei Capipalestra perché fossero testati da persone fidate. Mentre la pennetta processava le informazioni, trovava le chiavi di accesso e sottraeva le informazioni, lui si mise a spulciare all’interno dell’ufficio. Indossava dei guanti sottili, in modo da non lasciare impronte e rimetteva tutto ciò che non era di suo interesse nello stesso posto in cui lo aveva trovato. Estrasse un paio di fascicoli dal cassetto della scrivania: parlavano di una ricerca condotta a Sinnoh da alcuni membri delle squadre speciali FACES, ma non risultava tanto interessante per Norman. Capitò invece proprio su una grossa cartella che raccoglieva molti fogli stampati, dei profili approfonditi e dettagliati riguardanti i Dexholder. Al Capopalestra bastò oltrepassare sette o otto schede per raggiungere quella relativa a suo figlio Ruby. Rimase stupito, mentre ogni scheda era stata stampata in bianco e nero e presentava numerosi appunti presi a penna in maniera frettolosa su di essa, quella di Ruby era a colori e perfettamente intonsa, come appena uscita dalla stampante. La cosa lo mise lievemente a disagio.
Non prelevò nessuno di quei documenti, avrebbe attirato sospetti, decise invece di caricare sulla chiavetta tutti i file che potessero risultare anche solo un minimo interessanti, prima di avviarsi verso l’uscita. Lasciò tutto nello stato in cui lo aveva trovato, spegnendo il computer, chiudendo i cassetti, assettando la scrivania. Aprì una delle finestre del corridoio, assicurandosi di poterla chiudere dall’esterno, quindi si gettò sul proprio Swellow, che era già svolazzante e pronto a riceverlo in groppa. Impiegò oltre tre ore per tornare alla sua palestra, inizialmente prese direzione nord per depistare eventuali pedinatori, scese nel quartiere più periferico di Ciclamipoli e, gettando via il cappotto e indossando una sciarpa e un cappello che teneva nascosti nelle tasche, prese ben tre metro diverse per raggiungere Petalipoli. Sicuro di non avere nessuno appresso, entrò di nuovo nel suo ufficio, che era abituato a vedere anche di notte, da quando i conflitti con sua moglie lo avevano costretto a dormire spesso fuori casa.
Fremente come un bambino in procinto di aprire i regali di natale, inserì la chiavetta nel suo Mac e cominciò a scorrerne il contenuto. Lesse numerosi file di testo, studiò altrettanti file di progettazione, passò quasi due ore di fronte al display, concentrato. Il suo telefono squillò tre o quattro volte, ma lui non se ne curò minimamente.
Quando si staccò finalmente dallo schermo, allontanandosi dalla scrivania sulle ruote della sua sedia, non riusciva a credere a ciò che aveva appena letto. I progetti segreti della FACES che era riuscito a sottrarre gli avevano permesso uno scorcio dei loro piani folli e pericolosi. Doveva assolutamente presentare quei dati alla Federazione Pokémon, probabilmente era l’unica cosa da fare, l’unica speranza di stroncare i loro progetti sul nascere.
Chiuse i file ancora aperti sul computer, si accinse ad estrarre la chiavetta dalla porta USB, ma qualcosa lo fermò. Una piccola finestra aperta nell’angolo del desktop, un basilare file di testo che sembrava starsi scrivendo da solo, lettera dopo lettera, come se un fantasma riuscisse ad interagire silenziosamente con la sua tastiera. Lentamente, di fronte allo sguardo esterrefatto dell’uomo, si composero tre parole
 
Norman, resta fermo
 
Il Capopalestra comprese di aver appena commesso l’errore più grande della sua vita. Si chiese come avesse fatto ad essere stato così ingenuo e precipitoso, ma non trovò alcuna risposta. Si morse l’interno delle guance con tanta forza da riuscire a sentire il sapore del sangue sulla lingua.
 
Fai ciò che ti verrà chiesto e non accadrà niente a te e a nessun altro
 
La scritta continuava a formarsi, lenta, inesorabile. Norman era completamente paralizzato, sapeva di non poter fare niente, eccetto seguire gli ordini, finché non avesse compreso meglio quella situazione.
 
Prendi la chiavetta con i file rubati
 
Estrasse la USB dal computer, la strinse in mano.
 
Esci dalla palestra, poggiala sulla panchina rivolta ad est, nel parco giochi. Fatto ciò, vattene senza dare nell’occhio.
 
L’uomo trasse un lungo sospiro.
 
Ricorda: sei sotto vigilanza costante.
 
La finestra di testo si chiuse in automatico, non sembrò aver lasciato alcuna traccia sul display o nella memoria del computer, in generale. Norman si apprestò ad eseguire ciò che gli era stato ordinato, non aveva modo di ribellarsi, probabilmente coloro che erano stati capaci di inserirsi nel suo computer, lo stavano anche tenendo sotto sorveglianza, in modo tale da impedirgli di inviare quei dati a qualcun altro. Uscì dal suo ufficio afferrando il giaccone e infilandoselo frettolosamente. Pochi istanti dopo, la porta della palestra si chiuse alle sue spalle. L’uomo vide il parco giochi a cui si riferiva l’ordine in lontananza, la panchina che dava ad est era sicuramente quella adiacente allo scivolo. Mosse dei passi in quella direzione, spremendo ogni neurone del suo cervello per trovare una soluzione al problema, ma non riuscì ad arrivare a nessuna conclusione decente.
Poi, ad un certo punto, qualcosa cambiò quel gelido attimo della sua vita. Norman vide un’ombra muoversi lungo il marciapiede, camminava verso di lui a passo svelto, ma sembrava cercare di evitare di mostrarsi. Sorrise, dentro di sé, sapeva che un confronto diretto, privo di mezzucci digitali e trappole ingannevoli, ma basato solamente sullo scontro uomo-uomo, non avrebbe potuto vedere altri vincitori fuorché lui. Questa volta, erano stati i nemici a commettere uno sbaglio, mandando qualcuno ad eseguire il lavoro in prima persona.
«Sei l’inviato della FACES?» gli chiese, immobilizzandosi in mezzo alla strada, prima che questo potesse anche solo raggiungerlo.
Momento di gelo, si udì solo il vento frusciare tra le foglie degli alberi, Norman era fermo e la sagoma scura era rimasta paralizzata al suo posto.
«FACES? Che stai dicendo?» chiese la sagoma.
A Norman smise di battere il cuore. Conosceva quella voce femminile.
«Ti ho chiamato già cinque volte, perché non rispondi neanche ai miei messaggi? Dobbiamo risolvere questa questione insieme» continuò lei.
Il Capopalestra si voltò, tremando. Finalmente, la luce del lampione riusciva a rendere chiara l’immagine della persona che si era avvicinata a lui nel momento più sbagliato della sua vita. Ma ormai, era troppo tardi.
«Emily, vattene...» riuscì soltanto a mormorare.
«No, devi starmi a sentire!» cominciò ad gridare la donna.
Poi accadde tutto in un battito di ciglia.
Norman udì due debolissimi suoni, come due scatti di fotografia. Vide sua moglie cadere a terra priva di vita e percepì un dolore lancinante al petto, subito dopo. Avvertì la debolezza inondare ogni sua parte del corpo, annichilire le gambe e costringerlo a rovinare sul terreno, rendere le sue palpebre due pesanti saracinesche, ottundere ogni suono attorno a lui.
In quel momento, scese il buio.
 
«Qui è Rumlow, il bersaglio è stato neutralizzato, due vittime, stiamo portando via i corpi, passo» disse l’agente alla ricetrasmittente.
«Neutralizzato? Avevo ordinato di non toccarlo» ribatté l’uomo dall’altra parte.
«C’è stato un imprevisto, si è presentata sua moglie e lui ha fatto il nome dell’organizzazione, ho dovuto impedire che le cose peggiorassero, passo» spiegò Rumlow.
«Maledizione...» imprecò il direttore «avete almeno recuperato i dati sensibili?»
«La chiavetta è al sicuro» rispose l’agente.
«Va bene, portate i corpi nella loro casa ad Albanova».
L’agente si massaggiava il collo e la nuca, gli faceva ancora male il punto in cui Norman lo aveva stritolato, ma ciò che veramente lo stava uccidendo, era l’emicrania causata dalla pastiglia di tetrodotossina che aveva simulato la sua morte alcune ore prima.
«E poi date fuoco a tutto, simulate un incendio accidentale, forse possiamo riutilizzare questa simulazione a nostro vantaggio» decise il capo.
«Eseguiamo» accettò Rumlow, osservando il suo collega che era intento ad infilare i corpi in due sacchi neri completamente ermetici.
Avrebbe lavorato ancora parecchio, quella notte.
   
 
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