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Autore: EffyLou    04/11/2017    0 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
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I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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Avevo detto che ci avrei messo un po' di più per questo capitolo, mi sbagliavo hahaha. In realtà, è complice il fatto che non l'ho riscritto di sana pianta, avevo una base su cui lavorare e apportare modifiche. Non è un capitolo molto descrittivo come altri, perché è stato un combattimento molto statico e non c'era molto da scrivere... MI scuso se questo può causare delusione.
Come ho fatto anche con un paio di capitoli fa, ho una piccola "playlist" che mi ha dato la carica per scrivere questo capitolo (già i titoli fanno molto Rukeli HAHAH) :
Guts over fear, Eminem ft Sia
Paid my dues, Anastacia
I will not bow, Breaking Benjamin
- I'm not afraid, Eminem
Kings never die, Eminem ft Gwen Stephani
Elastic heart, Sia
Unbreakable heart, Three days grace

Fun fact: è stato proprio questo episodio a farmi appassionare alla storia di Johann Trollmann!




 
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16. Der Stolz von Rukeli


 
Box-Sport, edizione del 17 luglio 1933 – Presentazione dell’incontro Eder-Trollmann.
Se si fa partecipare Trollmann ad un incontro principale, esiste la possibilità – anzi, la probabilità – che fornisca una prova estremamente deludente. Si pensi a come si è comportato nel match contro Witt per il titolo di campione dei pesi mediomassimi. Non solo ha umiliato lo sport e sé stesso, con quel piagnisteo, ma ha anche privato il suo avversario del prestigio che si era guadagnato nel suo ultimo match contro Hower. Era penoso assistere ad un simile match e le conseguenze sono evidenti a tutti.
[…] Ma d’altro canto occorre obbiettivamente dire che Trollmann ha disputato dei grandi combattimenti. Contro Ogren, Seeling, Domogoergen, ad esempio. In queste occasioni è stato un grandioso combattente. Questo ragazzo ha commesso molti peccati. Quand’era dilettante i dirigenti sportivi non hanno apprezzato i suoi trucchetti, da professionista gli è mancata la mano forte che avrebbe potuto metterlo sulla retta via. Gli manca l’educazione sportiva. Una testa matta come Trollmann va costantemente gestita, non si può abbassare la guardia perché tornerebbe alla carica con i suoi dispetti.
[...] Se consideriamo l’aspetto sportivo, allora dobbiamo pretendere da Trollmann che risarcisca con un match combattivo e senza tregua il grande danno provocato al pugilato tedesco nell’ultimo match di Berlino. Non è accettabile che un pugile con licenza dia sul ring una prova della sua condotta sportiva che porti danni anziché aiuto allo sviluppo del nostro sport.
A Trollmann si deve dire che una sconfitta non è dannosa se sopportata con dignità.


 
* * * 
 
21 luglio 1933

Berlino. Birreria Bock.
Dove tutto era cominciato, dove tutto sarebbe finito. L’ascesa e la caduta.
Uno scontro dettato da regole ariane, su un ring ariano, con un avversario ariano.
Trollmann non si presentò alla cerimonia del peso. Leyendecker e Zirzow ci fecero una pessima figura, e tentarono di tappare questa mancanza dichiarando che il pugile pesava settantadue chilogrammi circa.
«Ma come? Quel gran fenomeno di Gipsy Trollmann che non si presenta? È proprio uno zingaro, buono solo a scappare» aveva ululato Eder, sguaiato, generando le risate composte delle SA lì presenti.
Quel peso welter, campione nazionale della sua categoria, era un concentrato di cattiveria. Capelli neri e folti, ordinati e ben gelatinati indietro, occhi neri, labbra prominenti, pelle bianca come latte. Un corpo magro e muscoloso, un fascio di nervi, e un ciuffo di peli neri sul petto.
Aspettava al suo angolo del ring il suo avversario. Era nato nello stesso anno di Trollmann, Eder era più grande di soli due giorni.
Era professionista dal 1928 e quello sarebbe stato il suo cinquantesimo incontro, mentre per Rukeli che era professionista dal 1929 sarebbe stato il cinquantaquattresimo. Erano due campioni delle rispettive categorie, gli stili di combattimento molto diversi.
Era uno di quei pugili che boxavano secondo lo stile, cosiddetto, dell’aggressore perché combatteva nella guardia dell’avversario. Era statico, violento, granitico, una macchina da guerra perfettamente addestrata secondo le regole del Faustkampf.
«Quel maledetto zingaro che fa? Dà forfait?» borbottava con il manager e l’allenatore.
Effettivamente, Johann Trollmann era in ritardo di ben tre ore. Si sarebbe beccato una multa di dieci marchi. L’arbitro incalzò Leyendecker e Zirzow, ma nemmeno loro sapevano dove si trovasse Rukeli. Avevano chiesto a Frieda, che quella sera se ne voleva restare in platea, ma non lo sapeva neanche lei.
Il pubblico aveva cominciato a parlare, ironizzare, additando lo zingaro come vigliacco e sgangherato.
«Ormai conosciamo Trollmann, si sarà dimenticato»
Diceva qualcuno. I giornalisti scrivevano per il loro articolo di giornale, smaniosi di darlo per vinto.
Le donne si agitavano sulle sedie, bramose di rivedere quel dio della guerra dalla pelle ambrata. Gli uomini ridevano, commentavano cattivi, inveivano a voce alta anche contro Zirzow e Leyendecker.
Alle prime file, c’erano gli alti funzionari del Reich, i gerarchi nazisti, e i capostipite della Federazione. Dietro, tutta l’ondata delle camice brune. Heyl e Radamm erano seduti vicini.

Improvvisamente, tutto si quietò. Ad interrompere il silenzio mortale, solo lo sfrigolare delle luci sopra il ring.
Rukeli Trollmann era arrivato. Pronto a sottostare alle regole che gli erano state imposte.
Aveva attraversato i quindici metri che lo separavano dal ring, le spalle dritte e il mento sollevato. Niente accappatoio.
Era passato sotto le corde, entrato nel quadrato di luce. Aveva guardato i volti delle camice brune e degli alti funzionari, le facce sconvolte del pubblico debolmente illuminate. Li perdonò tutti.
Perdonò quel pubblico che fino a un mese prima lo osannava e che ora gli sputava addosso. Era sempre stato uno zingaro, solo ora se ne ricordavano? Perdonò quei funzionari che avevano sottratto ad un uomo come lui, tutta la sua ambizione.
Incrociò lo sguardo di Heyl e di Radamm. Allargò le braccia, come a dire: “Così vado bene? Sono abbastanza ariano per voi?”.
Nessuno fiatava. Erano tutti sconvolti, dal primo all’ultimo.
Lo zingaro: ricci neri, indomabili, la pelle calda color nocciola.
Ora il suo corpo era cosparso di talco, i suoi capelli dipinti di biondo e gelatinati indietro, ordinati, alla moda del Reich. Un angelo, una vittima sacrificale, come se fosse lì ad espiare tutti i peccati della Terra. Il ring tanto amato, il suo Golgota. I guantoni, la sua croce. Il tragitto dagli spogliatoi fino a lì, la via Crucis. Gli occhi neri erano l’unica cosa che restava di Rukeli.
Sul ring non avrebbero visto Johann Rukeli Trollmann, detto Gipsy, ma un ariano qualunque che combatteva come un ariano qualunque. Che avrebbe perso come un ariano qualunque.
Qualcuno comprese l’ironia, ma l‘indignazione per tale affronto lasciò molti fanatici disgustati. A Zirzow si gelò il sangue nelle vene a vederlo così, nella sua perfetta caricatura di un ariano. In prima fila, le camice brune e i loro capi erano ammutoliti di disprezzo.
Come si permetteva, quel maledetto zingaro, a sbeffeggiare così la pura razza?

«La ballerina ha finito di incipriarsi il naso, finalmente!» proruppe Eder, cattivo, sciogliendo i muscoli del collo. Rukeli gli lanciò un’occhiata indecifrabile.
«Johann. – era Zirzow, la faccia livida. – Che cosa credi di fare? Non è uno spettacolo di circo, maledizione.»
«Ah, davvero?» inarcò le sopracciglia, l’espressione eloquente, poi si voltò.
Leyendecker si massaggiò la mascella, senza sapere bene cosa pensare del suo pupillo. Eppure una cosa la sapeva: i veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c’era una cosa che Gipsy aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. E in quel momento fu chiaro a tutti, in caso avessero avuto ancora dubbi.
Johann sapeva che stava rischiando moltissimo con quel gesto ribelle davanti ai funzionari del Reich. Lo sapeva che erano folli, che bastava premere un dito sul grilletto per mettere a tacere quell’anima in rivolta che gridava per la libertà.
Sapeva che quella sera avrebbe rischiato la vita. Ma che importava ormai? Se combatteva con il suo stile avrebbe vinto ma avrebbe perso la licenza e messo in pericolo la sua famiglia; se combatteva come volevano loro avrebbe perso il match e il tenore di vita, e sarebbe stato costretto a sparire dalla circolazione. Non aveva vie di scampo, era stato messo all’angolo. Eppure era dell’idea che non poteva abbassare la testa, a qualunque prezzo. Non avrebbe permesso a quella gente di incatenare la sua anima.

Suonò il gong. Erano previsti otto round.
Rukeli non si limitò ai simboli come i capelli pitturati e il talco sul corpo, accettò lo scontro alla tedesca. Il primo round fu statico, un incontro tra picchiatori. Violento, furioso e brutale come piaceva al pubblico, si pestò con Eder senza fare un solo passo indietro ma limitandosi a pesanti passi sul tappeto del ring, a enfatizzare l’assenza dei suoi saltelli.
Alla seconda ripresa, Eder sfoderò i suoi colpi migliori. Trollmann si mise sulla difensiva: i gomiti chiusi sul corpo, il mento incassato. Le lezioni sull’imparare a incassare di Leyendecker davano i suoi frutti. Non indietreggiò mai, restò piantato al centro del ring a farsi martellare di colpi.
Alla fine del secondo round sanguinava da una ferita al sopracciglio.
Al terzo round Trollmann strinse Eder all’angolo e lo colpì con un furioso diretto che gli spaccò il naso. I suoi sostenitori nel pubblico trattennero il fiato, fiutando il caso eccezionale e il ritorno di Gipsy. Eder si liberò a fatica dall’angolo e colpì Trollmann al plesso solare.
Al quarto round, Eder aprì un vero e proprio fuoco di fila di annientamento sullo zingaro.
I pugni arrivavano da ogni direzione: al corpo, al volto, ai fianchi. E poi ancora, in un limbo ripetitivo, l’ariano colpiva lo stereotipo dell’ariano. Lo colpiva con cattiveria, con tutta la potenza e la ferocia che avrebbe riservato ad uno zingaro o ad un ebreo. Negli occhi di Eder, ora Rukeli vedeva la rabbia cieca, la frustrazione, perché lo zingaro non cadeva.
Ma non poteva resistere per sempre, piantato in mezzo al ring a farsi martellare. Era come prendere a pugni un sacco in palestra. Vittoria facile, scontata.
Il talco sul viso si era sciolto a causa del sangue delle ferite e del sudore, era diventato una maschera drammatica. Nessuno riuscì a fermare quel sanguinamento. In cuor suo, Johann ne era anche felice.
C’era l’ariano sul quadrato, non Gipsy, e l’ariano doveva perdere.
Era stanco, non ce la faceva più. Metà della sesta ripresa: in una nuvola bianca, cadde.



Alla fine, tutto ciò che era accaduto, è che non era morto.
Ricordava poco, della sera precedente. Ricordava di essersi alzato ed essere andato da Eder per fargli i complimenti della vittoria. Un po’ troppo sarcasmo gli aveva incrinato la voce. L’altro l’aveva guardato in cagnesco, in risposta gli aveva sputato sulla faccia.
«Prendi per il culo qualcun altro, sporco zingaro.»
Poi era tornato nello spogliatoio. Il sangue scendeva a fiotti da tutte le ferite sul volto tumefatto. Era svenuto.
Si era appena risvegliato dentro una camera d’ospedale, la luce del mattino che filtrava dalle tende bianche. Il volto fasciato quasi totalmente, anche il corpo. Gli faceva male tutto, non riusciva neanche a muovere le sopracciglia. L’occhio destro era così gonfio che era costretto a tenerlo chiuso.
Si guardò le mani, i lividi neri sulle nocche. Lo avevano lavato, la sua pelle era tornata quella di uno zingaro, i capelli di nuovo come la notte.
Tossì, si schiarì la voce. Aveva la gola secca, doveva assolutamente bere. Nella stanza entrò di fretta un’infermiera, lui riconobbe Gilda.
«Johann!»
«Acqua.» biascicò, la voce impastata.
Lei si affrettò a versarla nel bicchiere e lo aiutò a bere. Lo guardò, gli occhi dolci pieni di compassione.
«Mi dispiace per quello che è successo, Johann, tu…» cercò di dire.
Lui alzò leggermente una mano. «Dimmi solo se sono ridotto tanto male»
«Direi di sì. Hai tre costole incrinate, una in modo grave che ha quasi rischiato di lacerare il polmone. Potresti restare cieco dall’occhio destro e hai rischiato di farti fracassare la milza. Oh, inoltre abbiamo dovuto tagliarti via un piccolo pezzo d’orecchio perché era tumefatto.»
«Non male, insomma. – commentò, sarcastico. ─ C’è qualcuno qui fuori per me?»
«Ci sono tutti.»
«Frieda?»
«Sì, ma sta dormendo. È qui da ieri sera, da quando ti hanno portato. Si è messa a dormire solo quando le abbiamo detto che eri fuori pericolo.»
Johann non rispose, lasciò cadere la conversazione, e Gilda uscì.
Lui lo sapeva che da quel momento in poi la sua vita non sarebbe più stata la stessa: sentiva di star cadendo, sentiva che la follia nazista lo stava per travolgere come una mandria imbufalita. Ma non voleva abbandonare il pugilato, non voleva rinunciare alla sua carriera e nemmeno a Frieda. Perché se le cose si mettevano male, sapeva che avrebbe dovuto lasciarsi qualcosa indietro. O la boxe, o l’amore. Tra le due cose avrebbe lasciato andare lei: se le cose si mettevano male, Frieda non doveva rischiare. Non meritava una vita di sofferenze al fianco di uno zingaro che non aveva più niente da offrirle.
Nella camera entrarono Leyendecker, Zirzow e Kaspar. Si accomodarono ai lati del suo letto. Avrebbero voluto rimproverarlo, piangere, emozioni contrastanti che cozzavano tra di loro. L’allenatore sentiva le lacrime pungere dietro gli occhi. Prese la mano del suo pugile. L’affetto di un padre, di nuovo Dedalo che raccoglieva ciò che restava di Icaro.
«Sto bene, vecchio. Non farmi quella faccia.» cercò di fargli un sorriso.
«Dicono che potresti restare cieco da un occhio. Io non direi che stai messo tanto bene.» commentò Zirzow.
«Ho sempre l’altro.»
«Non sai cosa hai combinato, ragazzo.» mormorò Leyendecker scuotendo piano la testa.
«Sono salito sul ring e ho seguito le loro regole. Non possono farmi niente, ho ancora la mia licenza. Posso ancora combattere.»
«Hai affrontato il Reich a viso aperto. Ti sei preso gioco di loro davanti a duemilacinquecento persone, tra cui i più alti funzionari del governo e i capostipite della Federazione. Capisci? Uno zingaro che li sbeffeggia.»
«Sei completamente fuori di testa, Rukeli.» sorrise, tristemente, Kaspar.
«Non ti renderanno la vita semplice, anche se hai ancora la licenza.»
Johann sospirò dal naso. «Non c’è problema. Vorrà dire che finché mi lasceranno la licenza e combatterò, perderò sempre.»
I suoi occhi brillarono di una luce che tutti lì conoscevano bene: la sfida. Il puro gusto di provocare. Trollmann si divertiva a provocare i suoi avversari sul ring, e ora anche quelli fuori. Si divertiva a vederli perdere le staffe, la falsa compostezza, si divertiva a guardarli rivelarsi per ciò che erano. Mostri.
«Non giocare, Johann. – gli intimò l’allenatore. – Quelli non giocheranno con te. Ti farai ammazzare se continui a provocarli.»
«Non ho detto che continuerò a provocarli. – si difese. – Ho detto che ogni incontro che verrà organizzato, lo perderò.»
«Ritirati allora, e sparisci dalla circolazione.» replicò Zirzow.
«Non gli darò questa soddisfazione.»
Leyendecker scattò in piedi, esasperato. «Basta, Johann! Non so più come dirtelo, perché non lo vuoi capire? Ti stai rovinando la vita per questo tuo esasperante orgoglio! C’è un labile confine tra stupidità e dignità, te ne rendi conto? E lo stai oltrepassando. Quelli non si dimenticheranno di te e del tuo affronto, vedrai l’inferno se continuerai così»
Johann si rifiutò di rispondere ancora alle solite prediche del suo allenatore. Dal suo punto di vista, era lui che non voleva capire. O forse aveva capito, ma come gli altri cercava di cambiarlo – in buona fede, certo, ma la testardaggine e l’ottuso orgoglio erano più forti del buonsenso.
Leyendecker uscì senza fare un altro fiato, sbattendo la porta alle sue spalle.
Dopo nessuno parlò più. Zirzow si congedò per secondo. Kaspar guardava l’amico senza sapere bene cosa provare per lui. Nel dubbio non gli aveva detto nulla, e se n’era andato. Anche lui.
Era di nuovo solo. Sperò non per molto.

 
Si era riposato ancora un po’, poi Gilda l’aveva aiutato a mangiare. Infine aveva dormito di nuovo.
Si svegliò al tramonto. La luce arancione e rosa del sole che filtrava dalle tende chiuse. Seduta vicino al letto, con la testa sul materasso, c’era Frieda.
Da quanto tempo era lì? Aveva passato la notte e la giornata in ospedale?
Voleva accarezzarle i capelli, ma lei era lontana e lui troppo dolorante.
La guardava riposare, accoccolata vicino a lui ai piedi del letto. Johann aveva dormito molto perché era stanco, ferito. Ma sapeva che Frieda aveva dormito tanto perché doveva mettere a tacere il dolore, le sofferenze. Era uno dei suoi meccanismi di difesa d’altronde.
Era così bella. Una bambola di porcellana preziosa.
Sul collo intravide i succhiotti violacei che le aveva lasciato l’ultima volta che avevano fatto l’amore. Aveva lividi, non particolarmente marcati, anche sui polsi e sotto il gomito. Punti dove lui l’aveva afferrata. Si adombrò, i sensi di colpa a mordere il cuore. Aveva pensato a quello che gli aveva detto Leyendecker in ogni momento di veglia, e le sue preoccupazioni erano tutte rivolte a Frieda. L’aveva coinvolta in una situazione che si prospettava drammatica e lei, confusa e trascurata, non sapeva più cosa fare con quel ragazzo indisciplinato. Ormai aveva capito che avrebbe dovuto lasciarla andare. Avrebbe fatto male come una pugnalata in pieno cuore, ma l'amava troppo per metterla in pericolo con i nazisti.

Non seppe dire quanto rimase a contemplarla, lei si svegliò con un mugolio.
Si stropicciò gli occhi come una bambina, si stiracchiò alzando le braccia verso il soffitto. Rimase qualche momento con la faccia tra le mani, per cercare di svegliarsi del tutto. Infine alzò il viso su Johann.
«Sei sveglio» disse solamente.
Si avvicinò fino ad arrivare vicino al suo viso e gli fece una carezza tra i capelli. Il labbro stretto tra i denti e le sopracciglia aggrottate.
Quanto dolore nel vederlo così ridotto. Quanta sofferenza nel guardarlo e vedere tutta l’umiliazione, il peso schiacciante delle sue emozioni, il suo prezioso cuore infranto.
«Non credevo che il giallo del salotto ti sarebbe tornato utile» sussurrò, cercando di scacciare la bile che aveva ricominciato a salire.
Johann si lasciò andare in un sorriso. «Per la prossima volta pensavo di farli verdi folletto, come la cucina. Che ne dici?»
«Dico che sei pazzo»
«Freud stesso non disse qualcosa tipo “Un pazzo è un sognatore sveglio”?» replicò l’altro, tamburellandosi il mento con un dito.
Frieda sospirò, alzando gli occhi al cielo.
«Dicono che tra due o tre settimane ti fanno tornare a piede libero.» gli accarezzò il viso.
Lui si sciolse sotto le sue mani fresche. Chiuse gli occhi.
Restarono in silenzio a lungo. Frieda decise di riprendere parola.
«Andiamo via, Johann. Andiamo via dalla Germania. Anche Leyendecker ti ha detto che...»
Sapeva perché glielo stava dicendo. Ora non aveva più niente da perdere. Ma sapeva che questo pensiero aleggiava nella testa della ragazza già da un po’, dalla lettera di Seeling.
«Leyendecker non ha vincoli qui, io sì. – replicò, fulminandola con un’occhiata. – Tu vuoi andartene?»
«I miei non sono capricci. – sibilò. – Ho paura per te. Tu vuoi rimanere, e questo mi spaventa.»
«Tu vuoi andartene?» ripeté, serio.
«Non voglio andarmene senza di te, non voglio lasciarti solo ad affron-»
«Molto carino da parte tua, ma voglio che te ne vai. Devi sparire. – la interruppe, il tono di voce e lo sguardo erano duri, severi, gli occhi glaciali. ─ Vattene, io non ti fermerò. Ma adesso, mi hai capito? Devi uscire da questo ospedale, fare una valigia, e andartene lontano. Devi dimenticarti tutto di questo posto, dimenticati di me e di noi. Non ti voglio più vedere in giro per Berlino. Sparisci. Ricomincia da capo da un’altra parte, lontana dalla Germania.»
Lontana da me.
Doveva salvarla. Lui non se ne voleva andare, la sua ottusa dignità glielo impediva. Ma lei non poteva restare per il suo orgoglio ed egoismo, non poteva pagare per gli errori che Johann aveva deciso di commettere. Aveva già capito che piega avrebbero preso le cose dopo quel match, e non poteva permettere che Frieda soffrisse per la situazione. Sapeva che non l’avrebbe mai lasciato di sua spontanea volontà, doveva fare in modo che lei se ne andasse da quella pericolosa Germania o che, almeno, si allontanasse da lui. Si sarebbero ritrovati un giorno, in tempi migliori, ma Frieda doveva salvarsi da quella vita al suo fianco che si prospettava piena di sofferenze, dalle scelte pericolose che Johann avrebbe fatto. Doveva andare via da lui e da quella Germania dilaniata.
La ragazza aveva gli occhi pieni di lacrime, lo sguardo fiero di chi però non si sarebbe messo a piangere. L’aureola si era spezzata, c’era la guerra nei suoi occhi. Solo poco tempo prima si erano scambiati promesse.
Lo guardò senza riconoscerlo, senza sapere come replicare. Ma forse non c’era niente da dire, ormai. Lui aveva fatto la sua scelta.
Scattò in piedi e si chiuse la porta alle spalle senza sbatterla. Passi silenziosi che si allontanavano dalla vita di Johann.
   
 
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