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Autore: Haney Jardin    12/11/2017    3 recensioni
Lo aveva detto dal primo momento in cui aveva visto Itachi, che un giorno sarebbe andato tutto bene. Ma quando quel giorno arrivò, realizzò di trovarsi già all'inferno. Come un ossimoro, entrambi erano legati dall'amore così come dalla morte, e, alla fine del loro gioco letale, qualcuno rischiava di farsi davvero tanto male. Ma anche ferita mortalmente, perdersi nei suoi occhi andava oltre l'amore. Oltre la morte. Perché, così Sakura diceva, sbagliare in quell'amore tossico la faceva sentire viva, come se fosse meglio della vita stessa.
Tratto dalla storia:
''Se io tornassi indietro, ripeterei sempre gli stessi errori, lo sai, vero?'', lo guardai immergendomi nella notte dei suoi occhi.
''I tuoi errori sono un ossimoro, Sakura'', mi regalò un sorriso composto e rigido, pensando quasi di avermi colta alla sprovvista. Io invece non mi scomposi.
''Un po' come noi due insieme, non trovi?'', ancora una volta, ero sicura di essere morta perdendomi dentro di lui. E, di nuovo, il suo sguardo e i suoi occhi mi salvarono dalle nostre tenebre. Io morivo, lui viveva per me. Io mi perdevo, lui mi riportava in superficie. Amore e morte. Io e lui. Ossimoro della morte.
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Naruto prima serie, Naruto Shippuuden
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   I. La prima volta in cui morii.


 

Esattamente non so spiegarmi come tutto sia cominciato. E di certo non so neppure come andrà a finire. Ora che sono ad un vicolo cieco, non riesco a vedere nemmeno a due passi da me. Il tempo si è fermato, così come i cuori di tutte le persone che fino ad ora conoscevo.
Sono rimasta solo io. Ma non ho vinto nulla, perché non sono io la vincitrice.
In realtà qui nessuno ha ancora vinto, ma io non posso più combattere. Ho già perso contro me stessa. Quindi contro le tenebre non ho alcuna speranza. Non è una premonizione, semplicemente è il mio corpo che si arrende alla sola idea di doverlo fare.
Non so nemmeno se cadrò; anche se, in realtà, forse sono già caduta.
Questo perché ogni uomo, quando nasce, comincia un percorso su un filo sospeso nel nulla. Delle volte cadiamo; qualcuno riesce a rialzarsi, qualcun altro resta dove si è scavato la fossa da solo. Io, invece, ho spezzato l'equilibrio del mio filo nel momento in cui ho incontrato lui per la prima volta.
Non mi ero accorta che era stato proprio lui a farmi cadere. Inizialmente l'avevo portato con me, o forse era il contrario; anzi, pensandoci bene, adesso direi proprio che è stato lui a cadere, ed io mi sono fatta trasportare fino alla fine.
L'impatto della caduta è stato anche dolce, contro tutte le mie aspettative: in fondo, non ero da sola ad essermi fatta del male.
Ero completamente anestetizzata dal dolore, e non mi rendevo conto del pericoloso gioco a cui stavo partecipando; una guerra fredda in cui venivi ucciso silenziosamente.
Ma ora che sono da sola, percepisco il posto in cui sono rimasta tutto questo tempo: all'inferno.
E non c'è via di fuga. Non c'è tempo, solo eternità. Ci siamo solo io e le mie colpe che premono sulle labbra consumate da un amore tossico e letale.
Sono morta? Non lo escludo, ma non posso esserne certa; una sola cosa so di sicuro: se tornassi indietro, morirei ancora mille volte.


 

***



La prima volta non si scorda mai. Puoi cadere vittima delle malattie della memoria, ma neppure l'amore più vero al mondo può farti dimenticare di quella prima volta. Quella in cui scordi il resto del mondo perché, in quel momento, ci siete solo tu e lui.
Io, la prima volta, avevo quattordici anni. Stavo camminando da sola per una strada che non conoscevo, di un paese estraneo. Mi ero trasferita da poco a Konohagakure, venivo da Kiri, il Villaggio della Nebbia, ma mio padre, al tempo shinobi, era stato scelto dal Consiglio degli anziani del Paese del Fuoco come oinin, cioè un ninja appartenente ad una squadra speciale che si occupa di catturare i ninja traditori. La loro sede si trovava proprio al Villaggio della Foglia, e così decidemmo di trasferirci. Non che a me importasse molto; avevo pochi amici e pochissimi interessi. Questo perché, all'epoca, ero una ragazzina piuttosto riservata e preferivo stare da sola piuttosto che stare in compagnia.
Proprio per questo motivo, a pochi giorni di distanza dal nostro trasferimento nel paese, profondamente annoiata, avevo deciso di fare due passi per staccare un po' dallo stress che i miei genitori continuavano ad alimentare in me. Uscii di casa sbuffando, mentre sentivo quei due discutere, e mi allontanai realizzando di aver allontanato da me un peso opprimente.
C'era un sole spento, che si preparava ad estendersi in un fioco tramonto; non c'era un filo di vento, l'aria era fresca al punto giusto ed accarezzava dolcemente le mie gambe nude. Facendosi caso, i pantaloncini erano un po’ troppo corti.
Presi una direzione a caso, e, in poco tempo, mi ritrovai inghiottita da palazzi e stradine strette e lunghe.
Quando il cielo divenne completamente arancione, l'atmosfera si era fatta molto tranquilla, senza un'anima viva in giro, ed io avevo perso sia il senso dell'orientamento che del tempo.
Ad un certo punto, distratta dai miei pensieri, mi ritrovai in un vicolo molto grande, dove si affacciavano ad entrambi i lati molte case. Erano tutte bellissime, avevano giardini immensi e colorati; c'era un simbolo che ricorreva un po' su tutti i muri dei cancelli, su striscioni e bandiere: sembrava un ventaglio, bianco e rosso. Cercai di ricollegarlo a qualche famiglia importante che avevo studiato in accademia, ma non mi venne in mente nulla.
Così decisi di proseguire, non accorgendomi che alla fine della strada, se non fossi tornata indietro, sarei finita nella villa di qualcuno.
Imbarazzata per essermi resa conto che ero entrata in un piccolo quartiere di famiglia, feci dietrofront con il volto abbassato. Sperai che nessuno mi avesse vista.

''Ehy, tu!’’.

Ma questo doveva succedere. Non potevo farla franca.
Mi girai, con le gote in fiamme, verso quella voce. Mi ritrovai quasi faccia a faccia con un bestione di tre metri: era un ragazzo più grande di me, doveva avere sedici o diciassette anni; altissimo e possente, aveva due occhi abbastanza ostili e la fronte aggrottata.
''Cercavi qualcuno?'', domandò poi, vedendomi in difficoltà.
''I-io, no, ho solo sbagliato strada, infatti stavo giusto per andare via...'', avanzai per andarmene, smorzando un piccolo sorriso, ma quello insistette bloccandomi per un braccio.
''Sicura? Lo sanno tutti dove abitano gli Uchiha''.
''Teme!'', qualcuno chiamò talmente forte che il ragazzo lasciò la presa su di me. Poi si girò così come feci io, e in quel momento sembrò che il mondo si fosse sgretolato in un istante.
A pochi metri di distanza, c'era un uomo. Descriverlo, ancora oggi, non mi è facile. Era talmente imponente la sua figura che non riuscivo a crederla reale: era giovane, più grande di me, forse aveva la stessa età dell'altro. Era molto alto ed aveva un fisico stazionario, non pompato ma asciutto al punto giusto; i suoi lineamenti erano delicatissimi, la bocca era spessa, due linee scure solcavano la pelle diafana, rendendo particolarissimo l'intero viso. Gli occhi erano penetranti, e la prima volta potei entrarci dentro solo per pochi istanti, per non essere inghiottita definitivamente da quelle tenebre accese. Nel complesso, il suo sguardo era talmente forte che mi vennero dei lunghi brividi per tutto il corpo. I capelli erano raccolti in una lunga coda, ed erano molto lunghi, neri come la pece ma lucenti quanto la luna.
Mentre lo osservavo, completamente dominata, lui mi si avvicinò.
Indossava una semplice maglietta a maniche corte grigia, mentre i pantaloni e le scarpe, neri, erano quelli che solitamente usano i ninja per allenarsi.
Mi accorsi solo dopo che legata dietro alle spalle portava una katana, lunga e bianca.
Allora indietreggiai un po', spaventata.
''La smetti di importunare così le ragazzine?'', disse, rivolgendosi all'altro, a quanto pare, suo amico.
''Veramente le ho solo chiesto che cosa ci facesse qui, Itachi!'', il ragazzo mi osservò bieco, mentre lui, inaspettatamente, mi sorrise, piegando un po' il busto per arrivare alla mia stessa altezza. Intimorita, mi morsi un labbro.
''Come ti chiami?'', mi chiese. La sua voce era calda e tenue, dava un senso di imponenza, quasi quanto la sua intera figura.
''S-Sakura'', dissi io.
''Ti sei persa?''.
Annuii, mentre cercavo di guardare da un'altra parte. Non riuscivo a reggere il suo sguardo, perché non potevo più  resistere ai brividi che martoriavano la mia pelle.
Alla fine, però, mi spiegò come uscire da lì. Non volle farmi altre domande sul perché mi fossi persa e quindi nemmeno da dove venissi e come fossi arrivata da loro. Io, in fretta e furia, mi congedai ringraziando entrambi, e di risposta al grazie, inaspettatamente, lui mi diede un colpetto sulla fronte; e questa cosa, ancora oggi, non riesco a dimenticarla.
In quel momento decisi che dovevo andarmene, ed avanzando pensai che in realtà da dove abitavo io, eravamo anche molto vicini, e che perdermi era stato proprio da stupidi.
Mentre camminavo accelerai il passo, sentendo i suoi occhi penetrarmi nelle spalle. Quando finalmente uscii da quel viale, cominciai a correre a perdifiato. Erano le mie gambe ad averlo deciso: non io. Decisi di correre per non pensare. Per soffocare tutti quei movimenti strani che sentivo nel ventre. E che salivano, sempre di più, tormentandomi le viscere e poi arrivando in gola.
Perché mi facesse quell'effetto, a quel tempo non potevo spiegarmelo: ma adesso lo so. So che quell'effetto era l'inizio di una dipendenza da cui non sarei mai più potuta uscire, se non sconfitta.
Allora adesso capisco che, alla fine, ho perso io.
Ora lo so. So che sono morta la prima volta che lo vidi, in quei pochi istanti in cui cercai di non farmi inghiottire dalla notte oscura dei suoi occhi. Era bastato solo quello, per spedirmi all'inferno. E ancora lo so, che se tornassi indietro, morirei ancora mille volte per quegli occhi.

   
 
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