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Autore: LadySelene_    26/11/2017    1 recensioni
Eventi terribili accadono che non possono essere impediti, ma la vita pare rallentarsi per segnare indelebile nella tua mente ogni fotogramma, ogni istante.
E quando si è spettatore obbligato, non si può evitare, a volte, di entrare in queste storie e viverle come fossero tue.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Credo che una premessa sia d'obbigo per capire cosa la mia mente e il mio cuore hanno deciso di creare. 
Il lavoro che ho scelto è quello dell'infermiera nell'intento di dedicare la mia vita a chi ne avesse bisogno. Ogni giorno non vivo soltanto le storie dei miei pazienti ma anche quelle dei loro familiari che riversano in me le loro emozioni che, a volte, raccolgo e custodisco con difficoltà.
Un tirocinio molto importante che penso mi abbia segnato è stato in una rianimazione. Su questo ambiente ho deciso di svolgere la mia tesi, e le numerose letture scientifiche lette mi hanno portata a ripensare a quei giorni, così vivi seppur lontani. Perciò eccomi qui, a liberar pensieri che affollavano la mente e opprimevano il cuore.
Buona lettura

 

Con la promessa di tornare

Sei mai stato testimone del momento in cui un famigliare viene a trovare il paziente in coma di cui ci si sta occupando? Io sì, e per quante differenze si possano riscontrare, le storie sembrano sempre tutte uguali.
Arrivano, gli occhi che non sanno dove guardare o chi guardare, l’espressione incerta, la paura visibile in ogni tratto. Alcuni sorridono, forse a tranquillizzare se stessi o gli infermieri che sono di fronte a loro, ma quelle piccole rughe sulla fronte sono la manifestazione di una preoccupazione che un sorriso forzato non potrà mai nascondere. Si avvicinano all’infermiere, salutano educatamente, chiedono di vedere il loro caro, anche se una scintilla nel loro sguardo sembra gridare alla fuga. Nessuno di loro vorrebbe essere lì, a chiedere di una persona che non dovrebbe essere lì. La vita stravolta, senza un perché che lo possa giustificare.
 
Prima di entrare è obbligo indossare i dispositivi di protezione: prima il camice, di quel tessuto all’apparenza così fragile da chiedersi cosa potrebbe mai proteggere, poi la cuffia, a nascondere capelli scarmigliati da dita nervose, infine il disinfettante per le mani che freddo scivola sui palmi e sul dorso, con quell’odore pungente che la mente non può fare altro che associare all’asetticità di un ospedale. Movimenti meccanici che impediscono al cervello, per brevi ed eterni secondi, di pensare, di ragionare su cosa è stato e cosa sarà.
 
Il tragitto è breve, l’infermiere è a soli uno o due passi avanti, intento a descrivere lo stato fisico-cognitivo del paziente, sforzandosi di usare termini semplici che anche tu, nonostante l’angoscia che ovatta i timpani, possa capire.
Capire cosa poi? Tutto quello che ti serve sapere è lì davanti i tuoi occhi. La persona che conosci da tutta una vita, riversa su un letto di lenzuola bianche, immobile e inerme. Il primo istinto è quello di scrollarlo violentemente, gridare di svegliarsi e andare via da quel posto che non è casa. Ma la presenza di fili e tubi di ogni genere e colore lo tiene avvinghiato stretto in quella stanza, in quel letto, quasi fosse parte di un arredamento macabro.
 
“se vuole può avvicinarsi e parlargli”. Un lieve sorriso accompagna la frase dell’infermiere che ancora ti sta accanto. Distogliere lo sguardo da quel corpo vestito di bianco è un tormento e al tempo stesso un sollievo. Parlargli può essere utile a qualcosa? La tua voce può in qualche modo agire dove la medicina sembra aver fallito? Come sa essere luminosa la speranza dopo che si è precipitati in un pozzo di terrore e angoscia.
Così bella. Così fragile.
L’infermiere sorride, ma i suoi occhi tradiscono un pensiero atroce che ti colpisce come un pugno allo stomaco: non è di aiuto al paziente, ma a te che attendi che un miracolo bussi alla porta.
La speranza non scompare dissolvendosi nella densità del buio, ma si spezza in schegge sottili che penetrano la carne e lì permangono, estranee e infette.
 
La sensazione è di aver passato ore al fianco del tuo caro, ma l’orologio ha spostato le sue lancette solo di una manciata di minuti. Gli hai stretto la mano, fredda da sembrare morta, e sussurrato rassicurazioni all’orecchio, falsità dal sapore del fiele sulla tua bocca quando dovevano essere balsamo per un cuore malconcio. Carezze sul capo e sul braccio, lievi e impalpabili come se avessi paura di svegliarlo, e poi il saluto, la promessa di tornare l’indomani e l’ordine scherzoso di farsi trovare sveglio e allegro.
 
La pratica si ripete, questa volta al contrario: ci si leva la cuffia e poi il camice che l’infermiere prenderà per buttarlo in quel cestino ingombrante già pieno di altri camici indossati da altre persone che come te soffrono e come te sorridono. L’espressione di gratitudine è dovuta, tornerai, ma fino ad allora il tuo caro resterà nelle mani di altri, professionisti che si accerteranno che le sue condizioni rimanghino stabili, ma non scalderanno quella mano che hai stretto e che ora sarà nuovamente fredda.
Prima di uscire poni la domanda che preme da quando hai messo piede su quelle piastrelle scure ideate per nascondere macchie rosse di vite finite.
“Si risveglierà?”
“Questo ancora non lo sappiamo”.
 
Lady Selene
   
 
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