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Autore: Eilanor    01/12/2017    9 recensioni
|STORIA INTERATTIVA| |FANART|
Raccolta di one shots multishiping e create a partire da una fanart inviata dai lettori.
Nessuna ship o fan art è sgradita.
Per partecipare attenersi al regolamento nel primo capitolo.
CAP 1 - scisaac (Photograh)
CAP 2 - sterek (WANTED - Dead or alive )
CAP 3 - sterek (I'll be there for you)
CAP 4 - sciles (Sorry)
CAP 5 - sterek (Oh Darling, what have I done?)
CAP 6 - thiam (People help the people)
CAP 7 - sterek (Poison)
|RICHIESTE APERTE|
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: AU, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Personaggi - Derek Hale, Stiles Stilinski
Coppia - slash
Raiting - giallo
Genere - azione, drammatico
Note - violenza, sangue, AU
 
Dedicata a Helena21 che ha fornito la fanart che è stata la mia dannazione. Come tutte le altre che mi hai mandato, disgraziata.
 

WANTED - Dead or alive




Note:
I dialoghi in corsivo sono immaginati in pashun, la lingua più parlata in Afghanistan; avrei voluto metterle davvero in pashtun, ma non mi sono fidata di google translate, e l’arabo non è la lingua ufficiale del paese; le frasi in grassetto sono in arabo.



L’aria condizionata nell’ufficio lo fece sospirare di sollievo dopo la calura esterna, ma il compito che l’aspettava era davvero ingrato ed era la seconda volta che gli capitava; per lo meno ora sapeva cosa aspettarsi.
Dal corridoio arrivarono i passi pesanti e cadenzati del suo superiore e lui si preparò all’incontro; raddrizzò le spalle e sistemò le pieghe della divisa, sapeva che il generale teneva molto all’ordine dell’uniforme, magari sarebbe riuscito ad evitare la retrocessione anche stavolta grazie a quegli accorgimenti. Per di più lui era solo l’ambasciatore dell’unità investigativa e di spionaggio, che colpa ne aveva se non riuscivano a localizzare i due fuggiaschi?
La porta si spalancò, permettendo l’ingresso di un uomo non più giovane ma dal corpo solido, muscoloso, forse accentuato dalla divisa inamidata; era alto e aveva i capelli biondi perfettamente pettinati, non un filo di barba e degli occhiali scuri che non permettevano di vedere i suoi occhi. Non era mai stato visto senza e alcuni mormoravano che fosse cieco, ma come poteva essere data la sicurezza con cui si muoveva?

«Generale Deucalinon» lo salutò rispettosamente l’ufficiale mentre l’uomo si sedeva all’imponente scrivania e apriva un fascicolo, da cui estrasse una foto. Ritraeva due giovani soldati in divisa d’assalto: uno, quello più vicino all’obiettivo, aveva un fisico allenato, ma non era muscoloso, non come ci si aspetterebbe da un soldato almeno; aveva la pelle pallida e coperta di nei, mentre i capelli erano castani ed arriffati. Stava facendo una linguaccia e un occhiolino all’obiettivo e probabilmente pure il dito medio, ma in quel punto la foto era un po’ sfocata.
L’altro soldato aveva i capelli neri e la pelle del volto abbronzata, si riusciva a capirlo nonostante l’attrezzatura militare e la barba che gli ricopriva le guance e il mento; aveva il fisico decisamente più muscoloso dell’altro e un’espressione seria, probabilmente era concentrato su quello che stava tenendo sotto tiro con il fucile d’assalto.
Con un sospiro secco, il generale gettò la foto di nuovo nel fascicolo con un gesto stizzito, per poi rivolgersi all’ufficiale che stava rigido davanti a lui.


 
Autore: vedi fanart


«Li avete presi capitano?» chiese squadrando lui e i sui gradi.

L’uomo deglutì e si affrettò a rispondere, cercando di evitare di guardare gli occhiali.

«No signore. Derek Hale e Miye- Micy- e il soldato Stilinski sono ancora liberi e hanno distrutto un’altra nostra base d’appoggio»

«Maledizione!» sbraitò il generale sbattendo il pugno sul tavolo «Possibile che siano così dannatamente bravi?!»

L’ufficiale non rispose e cercò di mantenere la calma: ora avrebbe dovuto riportare i danni che avevano fatto, ma doveva aspettare che fosse il generale a dargli il via, se avesse cominciato a parlare senza essere interpellato avrebbe solo aumentato la sua rabbia. Rimase ad aspettare che il generale smettesse di digrignare i denti e ingoiasse la sua furia sudando freddo.

«Quanti sono i danni stavolta?» chiese in un tono più calmo, ma si vedeva che cercava di trattenere la rabbia.

L’uomo inspirò e si mise a sciorinare il macello che erano riusciti a fare.

«Hanno interrotto la strada che avrebbe portato il convoglio alla base piazzando delle mine a tempo: il convoglio è stato bloccato in sicurezza dagli stessi disertori che hanno fornito tutte le informazioni necessarie perché nessuno rimanesse coinvolto. I nostri uomini hanno rinunciato a sminare la zona e non avevano idea di quanto fosse estesa la zona minata, perciò hanno dovuto attendere che il timer scattasse. Non abbiamo idea di come siano riusciti ad ottenere tale potenza di fuoco.» concluse in tono affranto.

«Hanno l’appoggio di qualcuno che ci sa fare, senza dubbio, e son certo che abbiano rubato dalle nostre scorte. Come è messa la base?» disse tra sé il generale, appoggiando il mento sulle mani.

«Non abbiamo più una base.» gli rispose i soldato con un fil di voce.

Deucalion si girò verso di lui sconvolto, lo si intuiva nonostante gli occhiali.

«Hanno bruciato la grotta dove tenevamo le armi, non si è salvato nulla. Come ha detto lei, probabilmente le bombe e le mine arrivavano dalle nostre scorte» sentì una goccia di sudore freddo scivolargli lungo la tempia, mentre il generale cominciava a realizzare la portata del danno subito.

«MALEDIZIONE!!» sbraitò battendo di nuovo il pugno sul tavolo. «È la terza questo mese! Come cazzo fanno a trovarle in così poco tempo?!» urlò con le vene del collo che pulsavano furiosamente. «Come fate ad essere sicuri che fossero loro!?»

«Di punto in bianco il convoglio, Ennis» si corresse con un tremito della voce «Ha ricevuto una telefonata. Le faccio ascoltare la registrazione» l’uomo mise un dispositivo sulla scrivania del generale e lo avviò.

Si sentì il rumore della presa di chiamata, poi una voce ruvida e profonda, quella di del capo spedizione.
“Pronto?”
Ci fu il rumore di una risata leggera e di qualcosa che veniva trascinato.
“Boom Baby”
Poi la chiamata venne chiusa.

«Ennis spergiura che quello era Stilinski. Abbiamo tentato di rintracciare la chiamata ma arrivava da un telefono usa e getta. Non abbiamo trovato nulla.»

L’uomo fece un grosso sospiro perché sapeva di dover ancora dire la parte peggiore, ma doveva farlo o sarebbe stato molto peggio.

«Siamo convinti che la popolazione li protegga, probabilmente sono riusciti a farsi vedere come dei salvatori» mormorò piano, me l’uomo sembrava avere un udito sopraffino.

«Certo che la popolazione li aiuta, altrimenti li avremmo scovati da un pezzo quei fottuti bastardi!» ringhiò alzandosi in piedi e mettendosi a camminare nervosamente per la stanza con le mani saldamente allacciate dietro la schiena. «Non possiamo nemmeno accusarli, sono capaci di farci danni enormi senza ferire nessuno, né soldati né civili; e si permettono pure di sbeffeggiarci!» disse indicando con un gesto la scrivania, irato.

L’ufficiale sapeva che si riferiva alla foto che aveva osservato poco prima: risaliva a due mesi prima ed era stata scattata in una base in cui tenevano rifornimenti e armi. Le armi erano state distrutte mentre i rifornimenti distribuiti oculatamente alla popolazione. I soldati della zona avevano visto i bambini mangiare barrette energetiche e cioccolato per settimane.

«Non ho finito» disse cupo l’ufficiale.

«Altre brutte notizie? Cosa può esserci di peggio della madre di Hale che riesce a mobilitare l’opinione del tribunale a favore del figlio? Quella donna non ha limiti di decenza quando si tratta dei suoi figli»

«Crediamo che Stilinski sia riuscito a contattare suo padre»

Si scambiarono un occhiata lunga qualche stante e poco dopo il generale Deucalion l’aveva afferrato per il colletto e stava sibilando a poca distanza dal suo volto:

«Mi stai dicendo che oltre a dovermi preoccupare di Talia e Peter Hale, mi devo pure preoccupare di Noah Stilinski? Come sapete che l’ha contattato? Cosa gli ha detto?»

«Non lo sappiamo. Non per certo almeno.» balbettò l’uomo. «Lo sceriffo ha semplicemente smesso di telefonare per chiedere del figlio e ci siamo insospettiti. Quando Ethan e Aiden sono andati a parlare con lui l’hanno trovato sereno e sicuro che suo figlio stesse bene. Abbiamo controllato i tabulati telefonici e il suo computer ma non abbiamo trovato nulla, neanche nella sua navigazione. Però resta sospetta la sua serenità»

«Certo che non avete trovato nulla, Stilinski è un informatico di alto livello, avrà sicuramente trovato un altro modo» grugnì l’uomo lasciando andare il bavero del suo sottoposto.

«L’avete messo sotto osservazione?» chiese cercando di recuperare la calma.

L’ufficiale annuì: se Stilinski aveva un modo di contattare il padre l’avrebbero scoperto.

«Vuole che organizziamo qualche ritorsione per spingerli a consegnarsi?» chiese pensando che potesse essere una soluzione; chi non avrebbe fatto il possibile per salvare i suoi cari?

Il generale tuttavia rise e si versò un bicchiere molto generoso di Bourbon e gli riservò un occhiata carica di sufficienza.

«È a causa di una rappresaglia che ci troviamo in questa situazione di merda. Non rifaremo lo stesso errore» spiegò per poi bere un lungo sorso di liquido ambrato. «Maledetto il giorno che lì ho messi in squadra insieme»

---

“L’obiettivo era nel centro della pizza come da piano e si attardava a parlare con un gruppo di uomini. Aveva sbuffato nervosamente, quella che doveva essere una missione relativamente semplice e veloce, si stava prolungando decisamente troppo: dovevano uccidere il capo di una cellula terroristica che operava nella periferia di Jalabad, l’uomo sotto osservazione che credevano reclutasse giovani da mandare ai campi d’addestramento talebani. Tuttavia non sembrava decisamente una persona capace di una cosa simile, anche il suo modo di comportarsi non corrispondeva alla scheda che avevano fornito loro i capi della base, né alle caratteristiche di un affiliato ai talebani come gli aveva spiegato il suo partner. Certo, poteva star recitando un ruolo, sicuramente stava recitando un ruolo, ma il suo istinto gli aveva detto di andare a controllare.

La missione era semplice: uccidere il terrorista nella sua casa e farla saltare in aria per nascondere le prove. Non erano previsti danni collaterali.
Diede un ultimo sguardo al tetto dove sapeva essere appostato il suo partner, che attendeva il suo via libera per far detonare la bomba, poi tornò a concentrarsi sull’obiettivo: finalmente si stava dirigendo nell’edificio.

Si posizionò in modo da essere comodo e perché il colpo andasse a segno: prese la mira sulla grande finestra che vedeva dal suo tetto; ora si trattava solo di aspettare che l’obiettivo entrasse nella stanza.

«Siamo in posizione signore. Alpha ha l’obiettivo sotto tiro» la voce del suo partner, distorta dal dispositivo, raggiunse le sue orecchie.

«Perfetto, soldato. Attenetevi al piano. Tra poco sarà finita» il sergente Ennis rispose dalla base.
«Obiettivo è ancora nella piazza e la gente gli si raccoglie intorno, è sicuro che possiamo procedere?» disse nel ricevitore mentre continuava ad osservare l’uomo; tutto in lui diceva che c’era qualcosa che non quadrava.
«Proseguite, non ci saranno danni collaterali» rispose con tono sicuro e leggermente scocciato il loro superiore.

Tornarono tutti in silenzio aspettando di poter concludere la missione.
L’uomo finalmente entrò e lui si concentrò sulla finestra, mentre con la coda dell’occhio notava che la gente cominciava a disperdersi. La porta della stanza si spalancò ed entrarono correndo dei bambini che sembravano giocare.

«Ma che caz-» l’obiettivo apparve sulla soglia e i suoi pensieri si fecero confusionari per le implicazioni che tutto ciò poteva avere.
«C’è qualcosa che non va» cominciò a dire nel ricevitore «Nell’edific-»

Alle sue orecchie, dal basso giunse la conversazione di due donne che si credevano protette e libere di parlare nel vicolo senza timore di ripercussioni. Parlavano un pasthun stretto, ma riuscì a cogliere qualche frammento di conversazione, quel tanto che bastava per fare la scelta giusta. Benedetto il giorno in cui il suo partner si era impuntato per faglielo imparare.

«Stiles, chiudi tutto! Disinnesca le bombe! Ci hanno mentito!» gridò al ricevitore prima di levarselo di dosso e distruggerlo, insieme col localizzatore.”
 

Il fumo della sigaretta si disperdeva subito nel vento che tirava sulla città, ma che non portava refrigerio dal sole rovente di mezzogiorno. Fece un ultimo tiro e spense la cicca nel posacenere ormai da svuotare. Un ultimo sbuffo di fumo, subito portato lontano dal terrazzo, e si costrinse a rientrare. Di sotto si osservare l’andirivieni dal bazar poco distante.

«Miecyzlaw, è pronto il pranzo» chiamò scendendo le scale.

Li avevano mandati a far esplodere un orfanotrofio e il presunto terrorista era in realtà l’uomo che si occupava di un centinaio di bambini provenienti da tutta la città e che stava intralciando i traffici d’armi del generale Deucalion. Se non avesse sentito le parole delle due donne nel vicolo, che stavano lodando il buon cuore dell’uomo, avrebbero ucciso degli innocenti e causato una crisi diplomatica se avessero scoperto che era opera degli americani.

«Miecyzlaw!» chiamò di nuovo più forte, ricevendo un mugolio scocciato in risposta.

Dopo aver disertato la missione non erano tornati alla base, ma si erano dati alla macchia per cercare informazioni: il suo partner lo sospettava da un po’ e faceva ricerche da qualche mese, dopo aver sentito i pettegolezzi e le voci nei bazar e nel giro di una settimana avevano scoperto che il Generale Deucalion e i suoi diretti sottoposti, tra cui il comandante della base dove sarebbero dovuti tornare, commerciavano illegalmente armi e fomentavano gli odi estremisti da entrambe le parti con il solo scopo di arricchirsi a spese delle popolazioni afghane. Da lì la scelta era stata semplice: erano soldati dell’esercito americano in missione di pace, non potevano permettere che il Generale continuasse coi suoi traffici.

«MIECYZLAW!» urlò entrando nella stanza del computer, facendo sussultare un ragazzo che non poteva avere più di ventidue anni, con capelli castani scompigliati a causa delle cuffie che portava.

«Derek» mormorò togliendosele «Sai che non mi piace essere chiamato così» continuò voltandosi verso l’uomo che stava appoggiata allo stipite della porta, squadrandolo: era un giovane dalla pelle abbronzata, che si avviava verso la trentina. Aveva capelli e barba neri, più lunghi di quello che ci si aspetterebbe da un soldato, in cui già si vedeva qualche filo bianco, probabilmente messo in risalto dallo sfondo scuro; lo scrutava con occhi verdi e luminosi. Le sopracciglia espressive erano piegate a dargli un’espressione accigliata, ma il lieve sorriso sulle sue labbra l’addolciva, rendendolo quasi inoffensivo, se non fosse per i muscoli che s’intravedevano nonostante il kurta che portava.

«Non capirò mai perché preferisci un nome in codice a quello reale, Stiles» gli rispose marcando l’ultima parola e facendo ridacchiare l’altro.

«Hai paura di dimenticartelo se non lo ripeti ogni tanto?» lo prese bonariamente in giro lui di rimando.

«Mi ci è voluta una settimana per impararlo, non voglio rifare tutta quella fatica» gli rispose con una smorfia.

Il suo partner gli sorrise prima di fargli segno di avvicinarsi. Derek sospirò e lo assecondò concedendosi di osservarlo per qualche secondo: era atletico, ma non muscoloso come i soldati della sua divisione, ma non per questo non era forte. Aveva un fisico nervoso e agile, e ancora più agili erano la mente e i suoi occhi castani, grandi e che coglievano ogni dettaglio. La pelle era pallida e coperta di nei, rendendolo facilmente riconoscibile tra i visi dai tratti orientali del paese.
Si grattò il naso, irrequieto, e stese le labbra in un sorriso fiero, mostrandogli lo schermo  del computer.

«Guarda, sono riuscito a tracciare anche l’ultimo pagamento sul conto di Taiwan» gli disse orgoglioso, indicandogli i dati degli spostamenti monetari.

«Benedetto il giorno che ti ho lasciato da solo con Laura» borbottò, notando che c’era un aumento di soldi, ma le sue conoscenze in materia di conti bancari si fermavano a quello, di solito lasciava tutto in mano a sua sorella, che si era laureata in economia e adorava quelle cose.

«Se è davvero un pagamento di armi, ora dobbiamo solo coglierli sul fatto e registrare le prove, poi potremo tornare a casa» disse sorridendo anche lui. «Come sono messi gli occhiali?»

Il castano accanto a lui battè qualche tasto sul pc e gli mostrò, un paio di occhiali dalla montatura spessa, che si mise sul naso. Dopo pochi istanti sullo schermo apparve il volto del moro e una barra di registrazione.

«Sei un genio» disse ammirato Derek, facendo arrossire Stiles d’orgoglio.

«Merito della manualità di Samir, io non avrei avuto tutta la sua pazienza» mormorò spegnendo tutto ed alzandosi, subito imitato dall’altro.

 Il ragazzo stava per uscire dalla stanza, ma il suo partner lo fermò, facendolo voltare e levandogli gli occhiali dal naso. Il castano sbuffò una risata e si arricciò una ciocca con le dita.

«Ormai sono così abituato a portarli per fare le prove che me li dimentico» borbottò arrossendo, poi osservò la lunghezza dei suoi capelli e sospirò. «Non vedo l’ora di tagliarli» Erano più lunghi anche di quelli di Derek e cominciavano ad arricciarsi verso le punte.

«Ti prego, non quel taglio con la macchinetta che avevi quando ci hanno messo in coppia, era tremendo» lo supplicò l’altro, alzando gli occhi al cielo e uscendo dalla stanza.

«Ma era così comodo!» ribattè lui seguendolo.

Due passi dopo erano in quella che avevano pomposamente ribattezzato “sala da pranzo”: era una stanza dalle pareti spoglie di cemento armato, che si scrostava, con qualche tappeto, dei cuscini e un tavolo basso su cui un giovane dell’età di Derek stava sistemando dei piatti.

«Che si mangia oggi Samir?» gli chiese in inglese Derek

Il giovane alzò i grandi occhi scuri dal tavolo e li fissò su di lui.

«Thè, naan, e verdure» rispose in inglese, ma con il marcato accento pashtun; aveva una voce sottile e calda, come il vento che soffiava in quella città.

«Peccato, speravo nell’agnello» sospirò Stiles «Per fortuna che sei un cuoco eccezionale» aggiunse regalandogli un largo sorriso.

Il ragazzo rispose allo stesso modo e aspettò che si sedessero e cominciassero a servirsi per poi imitarli. Aveva qualche anno in meno di Derek, ma sembrava perfino più giovane di Stiles; aveva la pelle ambrata ed era longilineo e con pochi muscoli, non molto alto, ma a colpire era soprattutto il viso: aveva tratti atipici per il paese, la fronte alta, gli occhi grandi e scuri, con ciglia lunghe; aveva il naso fine e affilato, e la bocca dal taglio largo e labbra ben disegnate. Aveva gli zigomi messi in evidenza e il mento leggermente aguzzo, su cui non cresceva un filo di barba.
Era decisamente insolito come fisionomia e gli aveva creato non pochi problemi: veniva spesso fermato per strada dagli estremisti, per chiedergli la ragione della mancanza della sua barba e ancora prima i suoi famigliari avevano dubitato che fosse figlio loro.

L’avevano incontrato in un vicolo.
Loro si erano dati alla macchia da appena un mese e lui era denutrito e sporco. Stiles avrebbe tirato dritto, abituato a vedere quelle scene di povertà, ma Derek si era impuntato e gli avevano proposto di far loro da tuttofare. Samir aveva accettato con una faccia da funerale e ne avevano capito il motivo solo dopo un mese: era convinto che sarebbe diventato il loro giocattolo sessuale, come gli avevano fatto credere in famiglia. Quando era venuto a raccontarglielo, aveva pianto per la vergogna di aver così mal giudicato le uniche persone che si erano preoccupate per lui.

«Ti prego smettila di magiare la verdura con un’aria così affranta» lo supplicò Derek alzando gli occhi al cielo.

«Ma la carne…» Cominciò a lamentarsi il castano, ma il moro lo interruppe subito.

«Non c’era nulla da festeggiare e dobbiamo risparmiare ogni centesimo, lo sai. Ti giuro che quando torneremo a casa te ne farò mangiare talmente tanta che ne avrai la nausea a vita» sbottò lui alzando gli occhi al cielo, e facendo ridacchiare Samir.

«Ma quando si torna a casa?» sospirò mesto, guardando le verdure.

«Quando riusciremo a trovare le ultime prove e a farle avere ai nostri contatti» rispose cercando di non farsi abbattere dalle sue stesse parole.

«Cosa manca ancora?» chiese Samir in un inglese tentennante.

«Abbiamo informazioni che dicono che dal 2003 vendono armi, creano attentati per insabbiare i loro traffici, uccidendo i civili che tentano di fermarli. Sappiamo che per colpa delle armi che hanno venduto sono morti settantatré soldati, dieci probabilmente per fuoco amico o giustiziati perché, come noi avevano scoperto i traffici di Deucalion, ma se non li prendiamo con le mani nel sacco non ci crederà nessuno e non potremo intavolate il processo e tornare a casa.» concluse tornando a parlare nella lingua più familiare al ragazzo.

«Questo solo se abbiamo prove schiaccianti.» aggiunse il moro alle parole del suo partner «Stiles dobbiamo aspettare che siano condannati in via definitiva o correremo il rischio che, se la facessero franca, ci portino in tribunale con l’accusa di diserzione nel migliore dei casi» concluse cupo.

«Forse posso aiutare» la voce di Samir li fece girare verso di lui, pieni di speranza ma combattevano contro di essa, temendo di restare delusi.
Il ragazzo si mordicchiò un po’ le labbra, nervoso.

«Non avrei mai voluto tornare dalla mia famiglia o farvela conoscere…»

---

Erano sul tetto, per prendere il fresco dopo la calura della giornata, godendosi il vento e le stelle che brillavano luminose sulla loro testa, complice l’ennesimo blackout.
Erano esausti dopo aver messo giù il piano d’azione e nessuno era particolarmente felice di ciò che stavano per fare: avevano intenzione di sfruttare la famiglia di Samir per incastrare Ennis. Tuttavia non erano scontenti di questo, i suoi famigliari erano persone orribili, che avevano reso la vita del ragazzo un vero inferno: prima l’avevano maltrattato credendolo il figlio di un jinn che aveva rapito il loro vero bambino, poi l’avevano schernito e minacciato per il suo amore per le storie e lo studio che non era la sharia ed infine l’avevano buttato fuori di casa quando si era rifiutato di partecipare ai loro folli piani di propaganda estremista. Nessuno soffriva a venderli per ottenere l’agognato ritorno a casa, men che meno Samir.
A rendere il piano così infelice era l’enorme rischio che avrebbero corso.
Forse avrebbero potuto ideare un piano migliore, ma non avevano tempo a sufficienza, così si erano dovuti accontentare di quello che avevano ideato quel pomeriggio.
Ora cercavano di non pensarci e di godersi la pace del momento.

Erano tutti e tre vicini con le foto delle loro famiglie tra le mani, se le erano portati da casa e Samir non si stancava mai di vedere. Le avevano usate per insegnargli rudimenti d’inglese e lui ne prediligeva una in particolare. Era una foto che ritraeva la sorella maggiore di Derek, Laura, nulla di straordinario in realtà; nella foto c’era un primo piano della ragazza sdraiata su un prato coi capelli sciolti, che cercava di riprendere fiato dopo una risata che l’aveva fatta piangere, lasciandole qualche lacrima intrappolate tra le ciglia; aveva gli occhi socchiusi e sul viso rosato si apriva un ampio sorriso.
Sorrideva anche Samir accarezzando piano il bordo della fotografia.

Stiles lo notò quando smise di osservare la costellazione del cigno e diede un colpetto leggero a Derek, che smise di guardare le stelle per guardare il ragazzo e fare un sorriso sghembo.

«Ti piace mia sorella?» chiese diretto facendolo sussultare; per la cultura in cui era cresciuto poteva essere vista come una mancanza di rispetto la sua.

Probabilmente se non vi fosse stato così buio e se la sua pelle fosse stata meno abbronzata, avrebbero visto il rossore delle sue guance.

«È… è molto bella» ammise guardandola ancora alla pallida luce della mezza luna «Le sue… guance sono rose e i suoi occhi sono stelle» continuò indicando ciò che poteva per spiegarsi al meglio.

Derek sorrise: era sicuramente una delle cose più belle che avesse sentito dire su sua sorella, perciò quando Samir gli allungò la foto la rifiutò.

«Tienila tu. Io ne ho molte altre» disse addolcendo lo sguardo, anche se probabilmente lui non poteva vederlo. «Credo che le piacerai quando vi incontrerete»

«Vi incontrerete?» ripetè l’altro, senza capire.

«Certo.» s’inserì anche Stiles «Quando torneremo a casa tu sarai sull’aereo con noi» poi aggiunse con un sospiro mesto «Se torneremo»

L’afghano continuava a guardarli con gli occhi sgranati, tanto che Derek pensò che il suo partner non fosse riuscito a farsi capire. Oppure Samir voleva semplicemente restare.

«Senti, non… non dev-»

«Anche se sono…» il ragazzo s’interruppe e si ritrovarono tutti e tre a fissarsi in silenzio.

I due militari sapevano come avrebbero potuto riempire quel vuoto di parole: “Afghano, mussulmano, mingherlino, poco virile, strano” ed erano solo alcuni delle parole che si era sentito dire il ragazzo. Se le era sentite dire così spesso che aveva finito per crederci: la sua famiglia lo trattava come uno schiavo e non si preoccupava minimamente di lui, non voleva nemmeno vederlo più del dovuto. Ci erano volute settimane prima che si convincesse a mangiare con i “Sahib” e non da solo nel bagno/cucina che avevano in quella casa diroccata.

«Le piacerai anche per questo» mormorò alla fine il moro e lo sentì sospirare di speranza.

«Ma il vostro paese mi accetterà? Siamo due popoli in guerra…» aggiunse mentre la speranza si spegneva ad ogni parola.

«Samir» cominciò a dire il castano toccandogli la spalla per attirare la sua attenzione «tu ci hai aiutato, non sei un nemico. Se ti lasciassimo qui sarebbe la tua condanna a morte, non possiamo permetterlo» gli diede un paio di pacche sulla spalla «La famiglia non finisce col sangue»

«Sarai il benvenuto» aggiunse Derek nel suo pashtun stentato.

Samir non rise della sua pronuncia, ma gli sorrise e strinse un po’ più forte la foto di Laura.

«Avanti, va a dormire» il ragazzo annuì e si diresse verso le scale lasciando soli i due militari.

Derek aspettò qualche secondo prima di ricominciare a parlare, giusto per essere sicuro che il ragazzo non sentisse.

«Sai che vale anche per te, vero?» mormorò voltandosi a guardare i suo partner, che ridacchiò.

«Solo perché ho salvato Cora?» rispose con un sorriso sornione sul volto, ma non riusciva a nascondere l’orgoglio che sentiva al solo ricordo di ciò che era riuscito a fare: la sorella minore di Derek era venuta a trovarlo quando erano stati spostai in una base in uno dei territori più sicuri per gli stranieri e dopo aver fatto il giro della base aveva insistito per essere accompagnata in città. Il moro nervoso, l’aveva accontentata e lui li aveva seguiti, come da ordini di Ennis, ma stando qualche passo indietro, nervoso pure lui: quella mattina aveva provato a parlargli su alcune frasi che aveva sentito al mercato, circa un traffico d’armi, e avevano finito per litigare.

Le cose non erano andate meglio arrivati in città: Cora si era impegnata per rispettare il dress-code del paese, ma aveva scelto colori troppo brillanti per i suoi abiti e in molti si voltavano a guardarla, aumentano il nervosismo di suo fratello. La folla li aveva poi divisi, ma lei, invece di preoccuparsi, si era messa a bighellonare tra chioschi e bancarelle finendo per essere presa di mira da un gruppo di quattro afghani che, senza che se ne accorgesse, si muovevano intorno a lei guardandola torvi.
Stiles, che aveva seguito il foulard arancione che usava per coprirsi il capo, se ne era accorto e aveva capito che doveva intervenire al più presto.
L’aveva raggiunta e, presala sotto braccio, l’aveva costretta a seguirlo, ma gli uomini non demordevano, così si era diretto subito verso la base. Purtroppo erano riusciti a bloccarli in una via deserta e subito il castano si era messo come scudo davanti a Cora, ma per fortuna non era successo nulla di grave: Derek li aveva presi alle spalle e se l’erano cavata solo con un grosso spavento e un livido sullo zigomo sinistro di Stiles.
Da quel giorno, Derek aveva messo da parte ogni dubbio su di lui e si era aperto, concedendogli la sua piena fiducia.

«Ehi…» richiamò la sa attenzione mettendogli un braccio sulle spalle «Apri bene le orecchie perché lo dirò solo una volta» Stiles già cominciava a ridacchiare e pure il moro cercava di restare serio, ma non pochi risultati «Mi piace averti intorno… e sono felice che ci abbiano messo in coppia insieme» Il suo viso fu poi illuminato da un sorriso «Grazie per aver salvato Cora»

«Aaah… finiscila, mi hai già ringraziato a sufficienza» ribattè lui arrossendo.

«Lo so, ma tu adori sentirti dire queste cose» ridacchiò il moro arruffandogli i capelli e fu naturale lasciarsi andare e ridere. Il moro lasciò poi scivolare il braccio, avvolgendolo intorno alle spalle del castano che ancora ridacchiava.

«Non riesco ancora a credere che stiamo per tornare a casa»

«Ma non eri tu a dire che “Finchè non-»

«So cosa ho detto Stiles, ma non riesco a non pensarci… non vedo l’ora di riabbracciare la mia famiglia e rivedere i miei amici… tu no?» gli chiese con un sorriso accennato.

«Cazzo sì! Devo assolutamente vedere papà e Scotty e poi trascinare quello scemo a tagliarsi i capelli, avrà di nuovo un mocio in testa senza di me…» esclamò alzando gli occhi al cielo.

Stavolta fu il turno i Derek di ridacchiare e Stiles si trovò a nascondere uno sbadiglio pochi istanti più tardi.

«Andiamo a letto pure noi?» chiese voltandosi verso il moro dopo aver appoggiato la testa sulla sua spalla.

Il giovane annuì, fregandosi gli occhi e si rialzò aiutandosi con in muro semi distrutto alle sue spalle; poi tirò su il suo partner e si avviarono per la buia tromba delle scale.

---

Samir li precedeva per le vie della città a passo sicuro, con una faccia che sembrava scolpita nella pietra. Non aveva detto una sola parola per tutta la mattina, probabilmente troppo nervoso all’idea di vedere di nuovo quelle spregevoli persone che erano la sua famiglia.
Derek e Stiles lo seguivano in silenzio e già cominciavano a sudare nei loro kurta per il caldo e l’ansia; avevano sul naso gli occhiali che registravano ogni loro e addosso, sotto i sottili e praticamente inutili giubbotti anti proiettile avevano dei registratori.

«Manca poco» li avvisò il ragazzo «Siete sicuri di volerlo fare?» chiese loro mentre si erano fermati, in attesa che una colonna di auto blindo dell’esercito americano finisse la loro sfilata per le strade della città.

I due annuirono conviti: non sapevano quando avrebbero avuto un’altra occasione simile.
Ripresero a pensare a come eseguire il piano in silenzio seguendo la loro guida nell’ultimo tratto che li separava dalle loro speranze di tornare a casa.
Ci vollero altri venti minuti di cammino nel calore cocente del mattino, ma alla fine arrivarono alla casa dove aveva abitato Samir. Era un complesso danneggiato, piuttosto grande, dove i due militari immaginarono vivere parecchie altre persone. Fu istintivo chiedersi quanti danni avrebbero fatto o se fossero da considerare nemici o collaboratori di quegli estremisti.
Il ragazzo si voltò verso di loro, spaventato, poi trattenne il respiro e bussò al portone. Sentirono i colpi riecheggiare nella casa che sembrava vuota, ma un minuto dopo il portone si aprì, mostrando un uomo corpulento e basso, dall’aria truce.

«Chi sei?» chiese spiccio.

Samir ingoiò la paura e gli rispose. «Sono Samir, il figlio di Tariq. Sono venuto a portare due fratelli in cerca della giustizia.»

«Chi vi manda?» chiese rivolgendosi direttamente a loro.

I due rimasero interdetti a guardarsi: dovevano fargli sapere che conoscevano la loro lingua o dovevano fingersi ignoranti? Samir per fortuna li levò da quell’impiccio, traducendo le parole dell’uomo dal pasthun all’arabo.

Stiles sospirò di sollievo e gli rispose in arabo.

«Nessuno. Solo la nostra fede fratello»

«Da dove venite?» indagò ancora, burbero.

Attesero entrambi che il ragazzo accanto a loro traducesse e risposero all’unisono “America”. L’uomo storse il naso, ma li fece entrare.
La prima parte era andata come si aspettavano, era impossibile che non cogliessero l’occasione di poter chiedere un riscatto. L’uomo gli chiuse la porta alle spalle con un tonfo e li studiò di nuovo da capo a piedi, mentre soggiungeva un uomo col viso bruciato dal sole e i capelli radi; si sorreggeva con l’aiuto di una stampella e aveva un moncherino di gamba, che finiva sopra il ginocchio.
Samir, vedendolo, si fece pallido ma non si mosse d’un millimetro.

«Quale altra vergogna hai portato in questa casa?» chiese il mutilato rivolgendosi al ragazzo, che rispose sotto voce e ad occhi bassi.

«Nessuna, solo due fedeli che volevano contribuire alla causa»

«Quindi ora sei pure tu un mujaheddin?» gli chiese in tono di scherno, mentre la loro guida incurvava le spalle e scuoteva la testa.

«Mi hanno offerto dei soldi per portarli da fedeli come loro. La fame fa quello che non possono i buoni propositi» rispose duro ed evitando il suo sguardo, mentre quello annuiva.

«E se fossero soldati? Se fossero del nemico? Non hai pensato a questo, vero?! Questo non ha nemmeno la barba» disse quello alzando il tono e con l’uomo che lo guardava truce.

«Avevo fame…» sussurrò vergognoso.

«E non hai esitato a vendere la tua famiglia per questo!» proseguì avvicinandosi.

«Mi avete ripudiato, mi avete tolto il vostro nome, cosa dovevo fare, morire?» sussurrò Samir con la voce carica di veleno.

«Sarebbe stato più onorevole che venderci!» disse per poi dargli uno schiaffo che gli fece voltare il capo «Butta fuori questa feccia» disse facendo un cenno all’uomo tarchiato che il
osservava a braccia conserte.

Quello non se lo fece ripetere due volte e afferrato il ragazzo per la casacca lo spinse fuori dal portone, sotto gli sguardi preoccupati di Derek e Stiles.

«Fratello, perché fai questo alla nostra guida?» chiese in arabo il castano, cercando di mantenere il sangue freddo.

«Gli ho fatto un favore, se l’avesse visto mio padre l’avrebbe ucciso» disse cercando di ricomporsi alla meglio, per poi fissare gli occhi scuri su di loro; era l’unica somiglianza che notarono con Samir.

Davanti a loro avevano probabilmente suo fratello Khaled.

«Voi chi siete?» chiese in pasthun e l’uomo tarchiato gli si avvicinò, sussurrandogli all’orecchio la situazione. Subito li squadrò e poi rifece la domanda in arabo, cercando di nascondere un sorriso compiaciuto. Evidentemente credeva che fossero facili prede o di poterli manovrare.

«Siamo David Taylor e Tom Reed»

«Come avete trovato la vera fede?» chiese soppesandoli con gli occhi.

«Io, attraverso il computer» rispose Stiles «Poi andando alla mosche ho conosciuto David. Non se la cava molto con la lingua» aggiunse indicando Derek.

«Dov’è la tua barba?» chiese a tradimento «Conosci i testi e la legge se sei stato alla moschea»
Stiles strinse le labbra, amareggiato. «Non cresce più di così» ammise crollando le spalle.

Khaled li squadrò un’ultima volta poi fece cenno loro di seguirlo e li condusse n una stanza più piccola, dove li fece accomodare su cuscini e tappeti stantii.

«Quindi siete americani…» borbottò tra se l’uomo sedendosi e lasciando quello tarchiato a guardia della porta. «Avete il passaporto?»

La domanda li preoccupò perché poteva voler dire che quello che Samir aveva detto loro aveva un fondamento di verità: la sua famiglia voleva fare un attentato in America.
I due annuirono e gli chiese subito se li avessero con loro. «È irresponsabile averli con sé in queste strade» rispose Derek in un arabo scolastico, ma ottenne l’attenzione e l’approvazione dello zoppo.
Fecero entrambi un respiro profondo: il loro interrogatorio per entrare nelle file dei Jihadisti era appena cominciato
 

Ci volle un’ora per conquistare un briciolo della fiducia dell’uomo e anche allora sapevano che la strada era ancora lunga. Lo zoppo stava per fare l’ennesima domanda quando entrò l’uomo tarchiato che sussurrò qualcosa all’orecchio del fratello di Samir. Nessuno dei due riuscì a cogliere cosa gli diceva.

«Pare che avrete la vostra prima occasione di contribuire alla causa» disse arricciando le labbra in un sorriso compiaciuto e viscido.

«In che modo fratello?» chiese Derek, cercando di usare la sua pronuncia migliore.

«Sarete i miei traduttori nello scambio di oggi» si alzò faticosamente in piedi e proseguì «Seguitemi»

Li condusse con il suo passo barcollante nella stanza in cui erano entrati prima poi in una nuova stanza laterale, che non aveva nulla al suo interno, solo una vecchia stuoia, che fu spostata dall’uomo tarchiato.
Sotto c’era una botola.
 

Derek e Stiles si scambiarono un occhiata preoccupata, poi tornarono ad osservare il pannello, aveva una chiusura esterna, ma sembrava facile da forzare e il legno era spesso, ma vecchio e secco, forse con qualche colpo ben assestato avrebbe ceduto.
Il loro accompagnatore silenzioso la spalancò e lo zoppo li precedette lungo una scala che portava in un corridoio rozzo e male illuminato; le pareti non avevano nemmeno uno strato di cemento, sembrava scavato nella terra. La botola fu chiusa alle loro spalle, ma non sentirono il rumore della chiusura e tirarono un sospiro di sollievo: non erano in trappola. Mentre i loro occhi si abituavano alla penombra del luogo, i loro nasi furono colpiti dall’odore di muffa, gas e metallico. Seguirono il rumore della stampella dell’uomo che li precedeva, fino ad arrivare ad uno spazio più ampio che li lasciò a bocca aperta: si trovavano in un vero e proprio arsenale realizzarono guardandosi intorno.

C’erano parecchie casse, alcune chiuse alcune aperte, lasciando vedere il loro contenuto i armi e bombe. Tutte portavano il simbolo dell’esercito degli Stati Uniti. Si guardavano avidamente intoro, soprattutto il castano che riprendeva ogni cosa con gli occhiali. Non potevano credere ai loro occhi e alla oro fortuna, se stavano venendo dei militari a fare uno scambio avrebbero avuto le prove necessarie per incriminare Deucalion.

«Come le avete avute?» Chiese Derek osservando una cassa piena di granate.

«Pagando» ammise senza giri di parole lo storpio «Gli Americani sono un popolo senza Dio e senza valori, disposti a vendere la propria gente per arricchirsi. Noi li sfruttiamo per portare a compimento il volere di Allah» continuò voltandosi ad osservarli; probabilmente stava cercando dei tentennamenti nelle loro idee, ma loro stettero zitti.

«Oggi acquisteremo del esplosivo, voi mi farete da traduttori, non voglio che tentino di fregarmi» spiegò voltandosi verso una delle altre tre aperture che si aprivano in quello scantinato.

Sentirono il rumore di un chiavistello scattare e poi si presentò una donna completamente velata da un burqa; si avvicinò a Khaled che la osservò serio e con velato diprezzo, non avrebbe dovuto presentarsi con due uomini sconosciuti, nonostante fosse velata. Il volto dell’uomo però si aprì in un ghigno ascoltando le parole che gli venivano sussurrate.

«Sembra che sia arrivato il momento di mettervi alla prova» disse raddrizzandosi; il burqa intanto sparì in un altro arco oscuro.

Dalle scale da cui era arrivata la donna cominciò arrivare il rumore di passi pesanti, tipici di chi calzava anfibi militari. Stiles si voltò verso l’apertura, mentre Derek fece un paio di passi indietro portandosi vicino a dei fucili d’assalto appoggiati ad un tavolo. Erano la sua specialità, se le cose si fossero messe male, e si sarebbero messe male, avrebbe potuto dare filo da torcere ai soldati.

Fece un respiro profondo, pregando che nessuno di loro li riconoscesse ma era quasi impossibile, non con la taglia che pendeva sulle loro teste. Le sue speranze s’infransero quando vide Ennis scendere le scale, mentre altri due soldati sconosciuti potavano una cassa. Stiles guardava tutto con un sorriso che si allargava sul volto, mentre nel cuore di Derek esplodeva la paura.

“Stiles, non servirà a nulla aver trovato queste prove se moriremo in questo seminterrato” pensò per poi cogliere l’espressione del capo della base che passava dalla sorpresa alla rabbia riconoscendo il castano.

Prima ancora che l’uomo desse l’ordine di attaccare, il moro era scattato verso i fucili e, afferratone uno, sparò in direzione dei militari costringendoli a mettersi al riparo. Stiles si abbassò e si riparò dietro un mucchio di casse e Derek fece altrettanto, imprecando tra i denti. Si sentì il rumore di pistole estratte e passi di corsa.
Agitato si rese conto di non riuscire a vedere Stiles dalla posizione in cui si trovava, doveva sporgersi con tutti i rischi che comportava. Fece un respiro profondo e si s porse notando che il castano stava bene e stava facendo lo stesso protetto da un gruppo di casse poco lontano.
I due si scambiarono un ultimo sguardo e un cenno d’assenso poi uscirono dai ripari cercando il nemico, ma di loro non c’era traccia e nemmeno di Khaled. Senza pensarci due volte si allontanarono da quell’antro verso le scale da cui erano scesi, coprendosi le spalle a vicenda.

Percorsero il corridoio col cuore che martellava contro la gabbia toracica e pompava l’adrenalina nei loro corpi. Salirono le scale con le gambe che tremavano e il sudore freddo che scendeva lungo le loro schiene per il terrore di cadere in un agguato. Arrivati alla botola, l’aprirono con estrema cautela, ma la stanzetta era vuota, così uscirono senza abbassare le armi, tesi come corde di violino. Sapevano che i soldati erano sulle loro tracce e non si sarebbero lasciati scappare l’opportunità di arrestarli o ucciderli. Stiles chiuse con un colpo del piede il chiavistello, ma sapevano che non avrebbe retto a dei soldati armati, dovevano andarsene subito.

«Stanno chiamando i rinforzi» sussurrò Stiles ritornando ad alzare la pistola.

«Facciamo il percorso a ritroso» concordò lui fremendo per uscire da quella casa; più tempo passava più gli sembrava che si stesse trasformando in una trappola.

Il castano fece un cenno d’assenso e si preparò a procedere con un sorriso di pura gioia sul volto. L’unica cosa che Derek riuscì a pensare fu: “Qua finirà male”; se aveva imparato qualcosa lavorando nell’esercito era che, come si abbassa la guardia si muore, e Stiles pensava solo a suo padre che l’aspettava a casa in quel momento.

«Dove vai?» chiamò, facendolo fermare. Il castano lo guardò interdetto «Levati il kurta e stai concentrato o finirai per inciampare, o peggio» imbracciò meglio i fucile e tenne sotto tiro l’arco davanti a loro; dalla botola non arrivava nessun rumore.

«Quante volte ti ho detto di non muoverti da solo?!» sbottò mentre il suo partner si sfilava la casacca di dosso quasi strappandola.

«Stavo andando in avanscoperta!» ribattè ora libero e rimettendosi in posizione.

Derek si levò svelto anche lui in kurta, ma questo non fermò il loro battibecco.

«Con questa tenda addosso!? Saresti inciampato come minimo!» sbottò riprendendo il fucile.

«Derek non c’è bisogno che tu mi faccia la ramanzina!» disse facendo un passo avanti subito seguito dal moro oltre la soglia «Sono addestrato come te e sta andando tutt-» ci fu un fruscio e uno sparo prima che se ne potessero accorgere.

I riflessi di Derek scattarono e subito sparò nella direzione da cui era arrivato il rumore, ferendo l’uomo tarchiato che li aveva fatti entrare. Un secondo colpo e l’uomo stramazzò al suolo.

L’uomo stava ancora cadendo quando gli occhi di Derek cercarono Stiles, trovandolo a terra, pallido e coi denti stretti per non gridare. Si teneva un a spalla e il sangue macchiava le sue dita.

«Stiles?» chiamò abbassandosi su di lui, spaventato.

«Sto bene» sputò fuori con gli occhi sgranati per il dolore e la sorpresa.

Derek fece un suono molto simile un ringhio, quello che il suo partner aveva imparato a riconoscere come sinonimo di frustrazione.

«…Per uno con una pallottola nella spalla. Controlla se c’è il foro d’uscita…» gli disse cominciando a sudare freddo per la paura.

Il moro si chinò di più su di lui e lo sposto appena, con tutta la delicatezza concessa loro dalla fretta che avevano. Il castano gemette di dolore, ma non si ribellò aspettando il verdetto.

«Non è uscito» lo informò il suo compagno guardandosi intorno agitato.

«Bene, questo mi dà un po’ di tempo» sospirò, ma aveva la voce affannata dalla paura e dal dolore; aveva l’impressione di avere un ferro rovente piantato nella spalla.

«Dobbiamo andare» gli disse il moro per poi sollevarlo ignorando i suoi mugolii di dolore.

Si fece passare il braccio sano sopra le spalle e lo afferrò saldamente per un fianco, aiutandolo a stare in piedi. Il ragazzo non disse nulla, troppo impegnato a non gridare per il dolore; non sembrava fosse stata colpita un arteria ma molto probabilmente aveva diverse ossa rotte. Il moro diede un veloce sguardo alle porte nella stanza e vedendo la via libera cominciò a muoversi verso la porta da cui erano entrati.

«Derek»

«Taci e cammina»

«Derek» lo chiamò di nuovo il ragazzo stretto al suo fianco; il dolore stillava da ogni lettera pronunciata.

Il giovane non lo ascoltò e sfondò la porta con un calcio. Subito il calore della strada li investì, ma non c’erano fucili ad aspettarli, perciò il moro costrinse entrambi a uscire nella calura del vicolo. Avevano appena messo il naso furi quando sentirono un nuovo sparo e si abbassarono per istino, crollando a terra. Stiles gemette di dolore, mentre Derek guardava con orrore il proiettile nel muro. A giudicare dal buco era un fucile d’assalto dell’esercito. Stavano arrivando.

Ignorando i gemiti di dolore del castano si caricò il suo peso su di lui e abbandonò il fucile; non sarebbero mai riusciti a rispondere al fuoco. La loro unica speranza era riuscire a nascondersi.
Ci furono altri spari, che li costrinsero a procedere chinati; sentirono l’ultimo prima di voltare l’angolo, ma Derek per poco non cadde sentendo un dolore bruciante alla coscia: un proiettile l’aveva colpito di striscio. Minacciò di cadere, ma stavolta fu Stiles a reggerlo.

«Non ci provare. Se cadi tu siamo morti entrambi» ringhiò il castano aiutandolo a stare dritto; il giovane si concesse una rapida occhiata al suo viso: era pallidissimo e coperto di sudore freddo.

Ripreso la loro penosa fuga nel vicolo, con le orecchie che già sentivano i passi pesanti dei militari. Grazie a Dio mancava poco ad una svolta, forse avrebbero potuto salvarsi.
Mancavano solo cinque passi.
Alle loro orecchie però giunse un marcato tonfo legnoso.
Solo quattro pasi dalla svolta.
Il rumore si fece più forte.
Tre passi.
Da un arco spuntò il fratello di Samir con un mitra in mano.
Due passi.
L’uomo armeggiò con la sicura per poi prendere la mira su di loro.
Un passo.
Videro che alla loro destra si apriva un arco.
Derek non si fermò nemmeno a pensare, ci si buttò dentro, cadendo malamente, e trascinandosi dietro Stiles, che gemette per il dolore che gli aveva provocato. Quasi nello stesso istante sentirono la raffica cominciare.

Erano soldati, sapevano come dovevano comportarsi in quei casi, tuttavia erano soli, feriti, spaventati, fu naturale accucciarsi abbracciati, pregando che finisse presto. Erano stretti così vicini che le loro teste erano premute l’una contro l’altra e Derek sentiva chiaramente i mugolii di dolore e paura di Stiles nel suo orecchio, nonostante il frastuono.
Durò quasi un minuto, poi sentirono due spari più forti e capirono che se volevano che il mondo sapesse quello che stava succedendo dovevano agire in fretta.
Svelti nascosero gli occhiali e i microfoni sotto un secchio accanto a loro, pregando che non li trovassero, poi Derek si rialzò e alzò Stiles, sempre più pallido e stanco. Il sangue aveva preso a scorrere lungo il braccio, sgocciolando a terra; stavano lasciando una traccia troppo evidente, lo sapevano entrambi.

“Dobbiamo raggiungere l’arco dalla parte opposta del cortile e saremo salvi” cercò di convincersi il moro, avanzando faticosamente; il castano ormai si trascinava. “Quando saremo salvi andremo all’ospedale” si disse, cercando di dare un ordine alle cose fondamentali.

«Derek…» mormorò il ragazzo al suo fianco, ma lui non gli diede retta.

«Derek, lasciami qui» sussurrò di nuovo lasciando la presa sula sua spalla; la risposta del suo partener fu solo di afferrargli il braccio per non farlo cadere, proseguendo il loro penoso percorso.

I passi dei soldati erano più vicini.

«Non ce la farò Derek, lasciami qui» insistette il ragazzo.

«No.» rispose il moro categorico.

«Derek, non fare il coglione. Ti sto solo rallentando»

«No, non ti lascio»

Il giovane strinse di più il braccio e il fiano del castano, temendo che si sarebbe divincolato per restare a morire.

«Derek-»

«NO! Tu non mi lasceresti indietro!»

«Ma io sono stupido

«E io pure, non ti lascio qui a morire!» sbottò concitato cercando di accelerare il passo, ma Stiles incespicò.

I passi dei soldati rimbombavano sulle pareti del vicolo e l’arco era ancora troppo lontano.

«Derek, vattene e prenditi cura di papà e Scott. Il mondo deve sapere cosa stanno facendo qui, è più importante di me.»

«No» ribattè l’altro ostinato.

Alle loro spalle si sentì il rumore di sicure tolte.

«Fermi o spariamo!»

Entrambi emisero un lungo sospiro, erano stati raggiuti.

«Saresti dovuto scappare» mormorò Stiles con la voce rotta, il moro non disse nulla, troppo spaventato per parlare «Derek ascolta, è la tua ultima possibilità…» mormorò pianissimo il suo partner. «Non mi salverò mai Derek. Usami come scudo e corri via. Sbatti in galere quella feccia anche per me» il giovane scosse la testa, rifiutando quell’idea.

«Stiles, ce lo siamo giurato: saremmo tornati a casa insieme o saremmo morti insieme, io non ti lascio» gli disse guardandolo negli occhi.

«Giratevi!» urlò la voce nota del capo pattugli alle loro spalle.

«Stupido Sourwolf» sussurrò con un sorriso amaro, mentre una singola lacrima scendeva lungo il naso. I suoi occhi si fecero vitrei un istante dopo e il corpo smise di sorreggerlo, aveva perso i sensi; l’unica cosa che impedì al corpo del ragazzo di finire nella polvere furono i riflessi di Derek.

«Cristo, no! Stiles! Non mollare ora!» gemette accompagnandolo verso il terreno.

Cercò di svegliarlo dandogli dei pizzicotti, ma sapeva che era perfettamente inutile, poteva salvarlo solo una cosa.

Si voltò verso i soldati trovandosi le canne dei sei fucili d’assalto puntate contro, ma ingoiò la paura, non aveva tempo per quella. La vita del suo partner era appesa ad un filo.

«Dobbiamo andare in ospedale. Subito» gridò rivolgendosi a loro, che tuttavia non si mossero di una virgola.

«L’unico posto in cui andremo sarà la base militare USA» ribatté astioso il capo pattuglia, che lo osservava con quei suoi occhi troppo piccoli per la sua faccia. «Prendetelo e portatelo al Quartier Generale» ordinò ai soldati e subito quattro di loro abbassarono le armi per prenderlo.

«Dobbiamo andare all’ospedale ora o morirà!» gridò guardando il capo dritto nei suoi occhi slavati e apparentemente senz’anima. «Che diranno i tuoi superiori se non gli porti i disertori vivi con le informazioni sul nemico?» urlò ancora tenendo sott’occhio i quattro che si avvicinavano circospetti.

“Grazie a Dio le voci sulla mia forza sono ancora in giro” pensò a quella vista.

«Ne basta uno» rispose quello freddamente.

«Se lui muore…» sibilò minaccioso «… io non parlerò»

«Tutti parlano, con le buone o con le cattive» fece un cenno e due dei soldati si slanciarono avanti per bloccarlo, ma la sua reazione fu istintiva.

Balzò in piedi e diede un pugno dritto in faccia a quello che per primo si avventò su di lui, mandandolo al tappeto.
L’altro gli bloccò un braccio, mentre già un altro soldato scattava verso di lui. Derek non aveva intenzione di cedere però: combatté ferocemente per non farsi sottomettere, divincolandosi e rispondendo colpo su colpo; riuscì pure a prendere un pugnale in dotazione dal soldato che stava cercando da soffocarlo.
Come si si resero conto che aveva una lama, fecero tutti un salto indietro. Il moro ne approfittò per riprendere fiato e valutare i danni: la ferita sulla coscia bruciava dolorosamente, lo zigomo destro e la fronte pulsavano per la testata che aveva rifilato ad un soldato. Le costole dolevano, così come l’addome dove gli era arrivata una ginocchiata. Era messo male e in minoranza, non sarebbe riuscito a saltarci fuori con la forza; Stiles si stava dissanguando per di più. Doveva costringerli a fare quello che voleva.

“Se a loro basta una sola persona la avranno”

Con sgomento di tutti si portò alla coltello alla gola, sfidandoli con lo sguardo ad avvicinarsi.

«O ci postate all’ospedale o mi taglio la gola» disse gelido guardando il capo pattuglia, che tuttavia non si scompose.

«Sta bluffando, non ne avrà mai il coraggio. Prendetelo» incitò piatto i suoi sottoposti, che tuttavia non si mossero.

«Portateci all’ospedale o ci porterete solo lui» ripeté il moro, premendo di più il pugnale contro la pelle.

«Muovetevi, non si farà del-»

Le parole del capo pattuglia vennero sovrastate dai versi di sorpresa ed orrore quando svelto si piantò la lama nella coscia per poi portarsela alla gola. Li fisò di nuovo uno ad uno, mentre spostava il peso sulla gamba sana.

«All’ospedale, con Stiles. Ora» ripeté inflessibile mentre una goccia di sangue scendeva lungo la sua gola.

L’uomo lo guardò allibito, ma si riprese alla svelta e ordinò ai suoi di assecondarlo. I soldati di caricarono del peso di Stiles e Derek li seguì con uno sguardo che avrebbe spaventato il diavolo.

«Godrò più che a scopare quando cominceranno a torturarti, fottuto figlio di puttana» sibilò il capo pattuglia quando gli passò accanto e il moro dovette trattenersi dal ridergli in faccia, soprattutto quando colse un movimento sui tetti.

---

Quando Stiles aprì gli occhi tutto era avvolto da una luce ambrata, sopra di lui non c’era il cielo, ma un soffitto dal colore indefinibile. Lo pervadeva una sensazione di pace, ma durò poco: appena qualche secondo dopo una fitta di dolore s’irradiò dalla sua spalla, facendolo grugnire di dolore. Si rese tuttavia conto che la sensazione era meno forte di quanto ricordava e capì che qualcuno doveva avergli dato un antidolorifico. Ora era solo uno spiacevole fastidio rispetto al ferro rovente che sentiva prima.

“Prima quando?”

Mentre aspettava che la sensazione scemasse si guardò intorno cercando di capire dove fosse e quanto tempo fosse passato. Era supino in un letto, probabilmente in un ospedale, e sembrava pomeriggio inoltrato a giudicare dalla luce. Mosse il braccio sano, sotto le coperte, fino a toccare il fianco: non aveva più i vestiti da combattimento, qualcun si era preso cura di lui, probabilmente l’aveva anche curato.

Ricordò il rumore dei passi dei militari e realizzò che erano stati presi.  Però dov’era Derek? Era vivo? Lo stavano torturando? Perché li avevano divisi?!
Stile gettò via le coperte intenzionato ad alzarsi per andarlo a cercare: doveva aver fatto qualche cazzata o non si sarebbero dati pena per lui, li volevano morti e bastava solo uno di loro vivo per estorcere informazioni.

Puntò gomiti sul materasso, cercando di ignorare le fitte di dolore alla spalla, ma una mano fu premuta sul suo petto facendolo distendere di nuovo. Era già pronto a combattere per rialzarsi, ma come si girò rinunciò istantaneamente: a tenerlo nel letto era Derek.

«Buon pomeriggio» mormorò con un sorriso «Sei stato sotto i ferri per due ore per curare la spalla. Hai qualche osso rotto, ma vene e arterie sono sane.» continuò a spiegare calmo, mentre spostava la mano dal suo petto per spostargli i capelli dalla fronte sudata.

Stiles ascoltava in silenzio, studiando il volto del giovane che gli aveva salvato la vita: aveva un livido sullo zigomo e un cerotto sulla fronte, già macchiato di rosso brunastro; c’erano residui dello stesso colore anche sulla sua barba.

«Che hai fatto alla faccia?»

«Una piccola divergenza coi soldati alle mie spalle» gli rispose lui e subito Stiles sentì l’stinto di sporgersi a guardare, ma Derek glielo vietò «Tanto sono ridotti peggio di me» aggiunse con un sorriso spavaldo.

«Ti dispiace se mi siedo?» gli chiese poi e subito il castano acconsentì, togliendo il braccio da sotto le coperte per fargli spazio. Il moro si mise comodo e l’altro gli posò una mano sulla coscia, senza pensarci, facendogli fare una smorfia di dolore.

Il ragazzo lo guardò accigliato e Derek cercò di evitare i suoi occhi, ma Stiles non voleva fargliela passare liscia.

«Derek?» chiese in un tono che non ammetteva repliche.

Il moro sospirò e si voltò verso di lui e gli raccontò la verità cercando di minimizzare.

«Potrei aver minacciato di uccidermi ed essermi piantato un coltello nella coscia per dare validità alle mie parole» disse grattandosi il collo, nervoso.

Il gesto del moro spinse il ragazzo ad aguzzare la vista e, proprio dove cominciava la barba, notò un piccolo taglietto, come se il dolore alla coscia non fosse sufficiente a convalidare la
sua versione.
Stiles corrugò la fronte e aprì la bocca con tutta l’intenzione di spiegargli nel modo meno educato che conoscesse quanto fosse stato stupido il suo gesto, ma Derek lo anticipò.

«Non provarci, non dopo esserti preso una pallottola per me.» il castano chiuse la bocca, ma non cambiò espressione «Sono io che dovrei darti del coglione. Credevi davvero che non me ne fossi accorto?!» sibilò arrabbiato.

Stiles sospirò, arrendendosi, e prese ad accarezzargli il ginocchio con la mano. Derek abbandonò il suo cipiglio poco dopo, chinandosi verso di lui.

«Samir c’è riuscito» gli sussurrò all’orecchio. «Ha recuperato occhiali e microfono e credo sia riuscito a darli ai reporter, forse ha anche diffuso le informazioni del pc» Derek si allontanò un poco per godersi la faccia meravigliata del suo partner «Si è già sollevato il polverone» sul volto di Stiles si allargò un sorriso inquietante, mentre nei suoi occhi c’era una luce vagamente maligna, dietro l’esaltazione per la riuscita della loro impresa.

«Tutto questo in sole due ore?» chiese poi stupito mentre cercava di far combaciare i tempi.

«Due ore e un giorno» precisò il moro «Dopo l’operazione ti hanno tenuto sedato»

Stiles spalancò gli occhi e si fece un po’ più pallido: come facevano ad essere vivi entrambi se era rimasto sedato per così tanto tempo? Avrebbero come minimo dovuto dividerli e uccidere uno di loro o entrambi, perché erano lì insieme?
Lo chiese a Derek che gli regalò un sorriso stanco prima di rispondere.

«Ci hanno provato» ammise e il cuore di Stiles perse un battito «Non ero d’accordo e… abbiamo litigato.» dalle loro spalle arrivò qualche movimento nervoso ma nessuno dei due se ne curò «Ho avuto di nuovo ragione io. Non ho mai lasciato il tuo fianco, ho sempre controllato che non ti facessero altro male»

«Derek da quanto non dormi?» chiese allarmato il ragazzo, notando le sue occhiaie.

«Circa quarantott’ore» il ragazzo sgranò gli occhi

«Come fai a stare in sveglio?!»

«Principalmente adrenalina e terrore che ti succedesse qualcosa» gli rispose per poi sbadigliare.

«Perché non dormi un po’? ora sono sveglio possiamo darci il cambio» gli propose il castano e vide subito che Derek voleva solo accettare, ma tentennava. «Non essere stupido e riposati» insistette lui.

«Fatti in là, voglio stare dove posso controllarti» disse categorico e intanto, mentre il ragazzo gli faceva spazio nel letto, il moro si chinò e prese qualcosa dallo stivale, che poi porse al suo partner: era un coltello.

Stiles lo accettò annuendo, sapeva cosa gli stava chiedendo di fare il giovane.
Si sorrisero, cercando di confortarsi a vicenda, poi Derek gli si stese accanto, con una gamba sulle sue e un braccio steso attraverso il petto. Stiles gli stese la coperta addosso meglio che poteva mentre lui aggiustava ancora un po’ la posizione.

«Se proprio devi fidarti di qualcuno, scegli il rosso» mormorò il moro prima di crollare nel sonno.

Il ragazzo sospirò e voltò appena la testa in modo da posare la guancia sulla fronte di Derek; lo aspettavano delle ore lunghe e penose, in cui avrebbe dovuto combattere col sonno e il dolore, prendere dei farmaci era fuori discussione. Però per lui l’avrebbe fatto, l’avrebbe fatto per loro.
Si stava giusto facendo l’appunto mentale per trovare un modo per lavarsi, quando sentì dei passi avvicinarsi. Con una mano strinse il coltello mentre con l’altra, quella ferita, si aggrappò debolmente a Derek, con l’intenzione di dare battaglia se avessero voluto dividerli. Avrebbero dovuto sputare sangue per farlo.

Ad avvicinarsi a loro fu tuttavia il soldato coi capelli rossi e mossi, che si presentò come Sergente Lahey; prese a fargli domande sulle informazioni che avevano dato ai giornalisti, registrando ogni risposta che Stiles dava. Il ragazzo parlava senza remore e senza omettere nulla, perfino con un vago sorriso sulle labbra nonostante il dolore: Il Generale Deucalion e tutta la sua cricca sarebbero finiti in galera.

Fu un interrogatorio lungo, ma al castano non diede particolarmente fastidio, lo aiutò a distrarsi dal dolore crescente alla spalla. Quando finalmente finirono erano passate due ore e stavano entrando i medici con degli anti dolorifici che rifiutò sotto lo sguardo comprensivo del sergente. Lo avvisò che sarebbe andato a parlare coi piani alti per capire cosa li aspettava e aggiunse, chinandosi verso di lui, che credeva alla loro storia. Dette quelle parole incoraggianti li salutò con un cenno del capo per poi sparire dalla sua visuale.
Stiles restò così a vegliare su Derek con solo le sue fitte a tenerlo sveglio. Le fitte e il terrore di scoprire che l’avevano portato via.

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Passarono tre giorni dal primo interrogatorio. Per tutto il tempo Derek e Stiles si diedero il cambio per mangiare e dormire, non smisero di prendersi mai cura l’uno dell’altro. Gli interrogatori proseguivano ma trovavano sempre il modo di isolarsi un po’ e farsi forza a vicenda. Il giorno prima erano perfino riusciti a lavarsi, la notte.

Era stato lungo e penoso per entrambi, ma nessuno dei due poteva resistere oltre: Derek l’aveva aiutato ad alzarsi e si erano infilati nel piccolo bagno nella stanza approfittando del sonno dei soldati e si erano lavati; prima Derek, svelto ma con grande sollievo nonostante la doccia fredda, poi Stiles, dopo che il moro l’aveva aiutato a svestirsi. L’aveva aiutato anche a lavarsi perché i farmaci lo intontivano e la spalla era bloccata. L’aveva lavato con tutta la delicatezza possibile, stando attento a non fargli finire il sapone negli occhi mentre gli lavava i capelli o sui punti mentre risciacquava il suo corpo.
Una volta finito avevano valutato se rimettersi i vestiti sporchi, ma avevano sentito u leggero bussare e quando Derek aveva aperto la porta coltello alla mano avevano solo trovato dei cambi per loro. Li avevano studiati a lungo cercando di capire se potesse esserci qualcosa che potesse nuocere loro, ignorando la pelle d’oca provocata dal freddo. Alla fine li avevano indossati ed erano tornati a letto.

Quella mattina però il Sergente Lahey non era arrivato per farle l’interrogatorio di routine. L’informò sulla situazione del loro paese e di come l’opinione pubblica era insorta in loro favore; in tutto il paese c’erano proteste e marce per richiedere la condanna del generale per cui era stato istituito un processo.
Avevano ricevuto l’ordine di rimandarli in patria come testimoni. Sarebbero partiti nel pomeriggio.
I due si erano scambiati un’occhiata preoccupata, subito notata dal soldato che aveva chiesto spiegazioni. Titubanti, gli avevano raccontato di Samir e che non sarebbero partiti senza di lui, non avevano intenzione di lasciarlo in un posto che l’avrebbe lasciato morire.

Il rosso li osservò pensieroso, dandogli poco dopo una descrizione accurata della loro guida; i loro cuori sprofondarono, aspettandosi di sentirsi dire che era morto e avevano trovato il suo cadavere. Con loro sorpresa il sergente invece gli disse che c’era un ragazzo che girava intorno all’ospedale dalla notte precedente e che chiedeva di loro.
La sorpresa e la gioia sui loro volti fu una conferma sufficiente per il rosso che era il ragazzo che volevano così andò a recuperarlo all’ingresso.
Mezz’ora dopo Samir correva nella loro stanza piangendo per la felicità e parlando in un pashtun stretto a cui Derek non riusciva a stare dietro. Il sergente entrò poco dopo, ma ebbe la delicatezza che tutti e tre si calmassero prima di spronarli a prepararsi per la partenza.
Samir era stato più che efficiente nello sbrigare la lista delle cose da fare in caso di cattura: aveva consegnato le prove ai reporter loro amici, aveva venduto quello che doveva vendere e aveva donato quello che c’era da donare. Le uniche cose che aveva tenuto erano i documenti, le foto e i materiali informatici conservati nella borsa ai suoi piedi, prontamente controllata ma che si era rifiutato di lasciare ai soldati. Con quella borsa e quel ragazzo con loro non avevano più motivi per restare in Afghanistan.

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Quando finalmente toccarono il suolo americano quasi ventiquattr’ore dopo, nessuno riusciva a contenere né la gioia né l’ansia, soprattutto dopo il terrore che il loro aereo fosse abbattuto durante il volo. Avrebbero presto ricominciato a temere per la loro vita, ma in quel momento l’euforia era tale ce non c’era spazio per altre emozioni: stavano per rivedere le loro famiglie.

Si trovavano in aeroporto di piccole dimensioni e ad aspettarli c’era un drappello di militari. Scesero dal velivolo circospetti, temendo che i soldati davanti a loro gli puntassero di colpo le armi addosso, ma non avvenne e loro si concessero di tirare un nuovo sospiro di sollievo.
Entrarono nella stanza per l’attesa degli arrivi coi loro scarni bagagli in mano e Samir al loro seguito che si guardava intorno stupito di ogni cosa. Derek e Stiles si scambiarono uno sguardo trepidante mentre facevano gli ultimi passi che li avrebbero portati nella sala principale; erano felici di essere a casa ma non sapevano cosa aspettarsi ed erano preoccupati per le loro famiglie. Non ci voleva un genio per capire che Deucalion avrebbe usato ogni messo per raggiungere i suoi scopi e se non poteva toccare loro nulla gli impediva di colpirli nei loro affetti. Probabilmente erano già sotto scorta nascosti sotto falsa identità se il sergente Lahey aveva fatto il suo dovere.

Svoltarono l’angolo sfiorandosi le mani, nel disperato tentativo di trovare un conforto almeno tra loro perché il ritorno era molto diverso da come l’avevano immaginato: faceva paura, faceva più paura che rischiare di essere ammazzati ad ogni missione. Eppure erano lì ad andare incontro a quello che li aspettava, soli se non per la persona che avevano accanto, come agnelli mandati al macello.
Si erano preparati a degli scenari orribili sull’aereo cercando di non farsi sentire da nessuno: si aspettavano un plotone d’esecuzione, sicari, una bomba, frotte di giornalisti nel migliore dei casi, ma non si erano preparati a quello che li aspettava.


Gridarono i loro nomi e corsero addosso a loro placcandoli; tolsero loro il fiato con la forza della loro strette e nessuno dei due ebbe il tempo per reagire, in meno di cinque secondi si ritrovarono il loro balia, sotto gli occhi spalancati di Samir.

«Derek!»
«Stiles!!»

Furono letteralmente travolti dall’abbraccio dei loro famigliari: il cantano fu quasi stritolato dall’abbraccio del suo migliore amico, mentre il moro si trovava a dover evitare di cadere a terra a causa di Cora e Malia che gli erano praticamente saltate in braccio incuranti della sua stanchezza e del loro peso. Vennero ricoperti entrambi di baci e lacrime, ma mentre il bruno poté godersi un po’ di più il suo amico, le ragazze dovette fare spazio a Laura che liberò Derek solo per dargli un pugno sulla spalla.

«Fratello scemo! Come ti è venuto in mente di far scoppiare questo casino senza dirmi nulla?!» sbottò per poi soffocarlo in un abbraccio che gli fece scricchiolare le costole.

Lo lasciò andare solo quando il moro implorò pietà.

«E questo chi è?» chiese notando Samir.

Tutti quanti si voltarono verso di lui, che si ritrovò ad essere scrutato da quattro paia di occhi. Il ragazzo arrossì e abbassò lo sguardo, torturandosi il bordo del maglione che gli avevano dato prima di partire. Derek e Stiles si scambiarono un’occhiata capendo istantaneamente cosa avevano in mente e cosa volevano fare.

«Lui è Samir, la sola ragione per cui siamo riusciti a tornare a casa» iniziò ad elogiarlo il moro, seguito a ruota da Stiles.
«Senza di lui non saremmo mai sopravvissuti, ci ha salvato la vita!»
«Chi ha fatto da guida, ha cucinato per noi»
«Ha trovavo i contatti, ci ha passato le informazioni!»
E continuarono. La lista si allungava e il viso del ragazzo si faceva sempre più rosso, mentre Laura lo guardava coprendosi la bocca con una mano.

«Devo ringraziarti per averci riportato questi due scemi, lascia che ti ringrazi e che ti dia il benvenuto!» trillò aprendo le braccia per stringerlo, ma si bloccò a metà ricordandosi che la sua cultura era diversa e che forse non era il modo adatto di esprimere la sua riconoscenza. Interdetta si voltò verso il fratello e gli chiese come avrebbe dovuto comportarsi.

«Siamo in America» intervenne il ragazzo ancora rosso in viso «Fallo alla maniera americana» disse nel suo inglese tentennante.

La ragazza spalancò gli occhi per la sorpresa, ma non se lo fece ripetere due volte: l’abbracciò stretto ricoprendolo di ringraziamenti. Il ragazzo non poteva essere più rosso ma restituì il gesto.

«Bentornati a casa»

La voce setosa della madre di Derek li fece voltare con il sorriso sulle labbra; Talia Hale stava davanti a loro, affiancata da Peter, suo fratello, e dal padre di Stiles, Noah. Stiles non si trattenne oltre e si buttò nelle braccia del padre nascondendo il viso nell’incavo del collo; tutti e due piangevano di gioia. La donna invece avanzò verso suo figlio che l’attendeva con gli occhi lucidi. Lei gli prese il volto tra le mani e sussurrò, egualmente commossa: «Ti aspettavo, Raggio di sole»

Derek chinò il capo verso la madre che gli diede un bacio in fronte, su cui lasciò una traccia di rossetto.

«Mamma!» la voce di Laura interruppe il loro momento, poi la ragazza le trascinò davanti Samir. «Questo ragazzo gli ha salvato la vita! Non possiamo lasciarlo andare via!» esclamò tenendolo per mano.

Il ragazzo era ancora rosso e si vedeva perfettamente nonostante l’abbronzatura. Talia si chinò su di lui e gli posò un bacio sulla fronte.

«Benvenuto in America, Aizizi»

Al sentirsi chiamare con quel vezzeggiativo il ragazzo si sciolse in lacrime per essere prontamente confortato dalla donna che poi lo guidò verso i taxi, con Laura al seguito che gli accarezzava la schiena. Malia e Cora raccolsero le loro borse e corsero a caricarle nel baule mentre Noah, e Peter andavano a stringere la mano al sergente Lahey e ringraziarlo del lavoro svolto.
Restavano solo Derek e Stiles nella hall deserta di quel minuscolo aeroporto.

Le loro mani si cercarono e si trovarono, intrecciandosi strette. Si guardarono negli occhi mentre un dolce sorriso si allargava sui loro volti.

«Quindi… Siamo finalmente tornati a casa» mormorò Stiles con gli occhi che si facevano lucidi di nuovo.

«Siamo a casa» gli rispose Derek chinando il capo e facendo incontrare le loro fronti.

Le labbra di Stiels tremarono, e le lacrime di gioia cominciarono a scendere dai suoi occhi; Derek diminuì ancora la distanza tra i loro volti e prese a sfregargli il naso col suo, con dolcezza. Anche il moro aveva gli occhi lucidi e la vista era offuscata dal velo di lacrime; non ci sarebbe voluto molto prima che anche le sue cominciassero a bagnargli le guance. Le prime caddero nel momento in cui chiudeva gli occhi per assaporare meglio il bacio e le labbra di Stiles.

Erano finalmente a casa.



Angolo Autrice

Gente questa OS è stato un parto e non sono nemmeno riuscita a vincere la scommessa con Alison. Spero vi piaccia, io vado al cinema intanto.
Grazie mille a chi mi segue e ha creduto in questa mia follia, vi adoro. Benedizioni e Biscotti per chi ha recensito lo scorso capitolo <3
A quando resuscito.
Bye!

Aggiornamento: sono tornata dal cinema, il film è stato una figata e per me si potrebbe tranquillamente candidare agli oscar. Stranamente sembra che il capitolo non sia apparso, periò ritento. Pregate per me(ds)
   
 
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