Partecipa al Calendario dell’Avvento sul
gruppo Facebook Voltron LD - IT!
★
Data: 16 Dicembre
★
Rating/Avvertimenti: nessuno
★ Trama: il padre di Keith onora
ogni
anno una tradizione natalizia iniziata con la madre di suo figlio.
★ Dettagli inutili: il 25 giugno
2014 è
stata l’ultima volta che ho pubblicato una fanfiction. Da
allora, pur piena di
plot in testa e canovacci appuntati, è stato come se avessi
perso la capacità
di scrivere. Poi arriva il Calendario dell’Avvento del gruppo
Facebook di Voltron
Legendary Defender (https://www.facebook.com/notes/voltron-legendary-defender-it/calendario-dellavvento-2017linee-guida-per-disegnatori-e-scrittori/741639956009528/
) e cosa faccio, non partecipo? :D
Quindi
occhio, è una fyccina arrugginitissima, poi
sparirò di nuovo.
Buona
lettura, people!
Desideri di
Natale
Non
vi era alcuna ragione logica per cui Kenneth Kogane, chiamato Ken dai
pochi
amici che aveva, se ne stesse seduto accanto alla scrivania a scrivere
un
biglietto per Santa Klaus. Non quando era ormai una persona adulta, per
di più
padre di un bambino, e perfettamente consapevole del fatto che non
esisteva
alcuna entità sovrannaturale che portava doni ai bambini
buoni. Credeva
nell’esistenza degli extraterrestri però. O
meglio, ci aveva creduto ancor prima
di aver avuto la conferma della
loro esistenza, una prova molto concreta,
che rispondeva al nome di Keiràrye, ma era stato
scettico già da bambino
circa l’esistenza del panzone barbuto vestito di rosso. Ad ogni modo, trovatosi
solo nella sua stanza
da letto, a poche settimane dal 25 dicembre, l’adulto Ken
aveva appena scritto
su tale biglietto un desiderio che aveva, per forza di cose, taciuto a
chiunque, un desiderio innocente tutto sommato, ma che non si sentiva
di
condividere nemmeno col piccolo Keith che dormiva ormai da alcune ore
nella sua
cameretta.
“È una cosa che appartiene
solo a noi due”.
Ken
non si era sentito affatto colpevole di non aver coinvolto il
figlioletto in
quella che, ormai, era diventata per lui una tradizione privata, nata
alcuni
anni prima, poco dopo la nascita di Keith.
“Keira, che stai facendo?”
chiese un
giovanissimo Ken alla ragazzina china su un foglio e intenta a
scarabocchiare
ghirigori geometrici su un foglio di carta, a poca distanza dal piccolo
Keith
che dormiva beato nella sua culla.
“Oh, niente” chiosò
la giovane nascondendo
in modo maldestro quanto stava scrivendo. Un gesto inutile comunque,
visto che
Ken non aveva alcuna possibilità di capire il significato di
quella che, con
molta probabilità, era la lingua scritta della giovane. Non
glielo aveva mai
detto, ma aveva sempre trovato adorabile l’espressione
imbarazzata che faceva
quando veniva beccata a fare qualcosa di infantile.
Da quel poco che aveva saputo, Keira aveva
perso da molto tempo la possibilità di fare cose infantili,
pur essendo
apparentemente solo una diciassettenne. Una diciassettenne con grandi
ma
deliziose orecchie vagamente somiglianti a quelle di un felino. Una
diciassettenne appena un po’ più alta di lui, cosa
incredibile visto che Kenneth
era decisamente alto (per non parlare dello shock subìto
alla notizia che Keira
era giudicata una nanerottola dai suoi ex compagni di accademia!). Una
diciassettenne di colore, ma di un colore decisamente insolito per
qualsiasi
straniera di quel pianeta. Violetto, per l’esattezza.
Una diciassettenne che aveva il terrore
(come lui, del resto) di non essere pronta a prendersi cura di un
bambino, data
la giovane età e l’inesperienza, ma che, appena
aveva preso Keith in braccio
per la prima volta, sembrava non avesse fatto altro che la madre in
tutta la
sua vita.
“Kenneth…” aggiunge
la ragazza con fare
fintamente noncurante e senza guardarlo in faccia, mentre le guance si
coloravano lievemente di ciclamino “ma questo Santa Klaus di
cui mi hai parlato
qualche giorno fa come riesce a ricevere le lettere che i bambini gli
mandano?
E davvero è capace di accontentarli tutti? Non ha alcun
problema a comprendere
tutte le lingue del mondo?” .
“Stai scrivendo una lettera a Santa
Klaus”
replicò Ken con un sorriso accondiscendente, contento di
aver ottenuto la
risposta alla sua precedente domanda.
“Non sto scrivendo una lettera a Santa
Klaus! Non sono una bambina, e nemmeno così
buona!” esclamò scandalizzata,
mentre le guance diventavano di un ciclamino ancor più
acceso.
“Oh, lo so che sei una ragazza
cattivella!”
mormorò maliziosamente Ken avvicinandosi a
Keiràrye. Ma la ragazza non
comprese. “Ho cavato un occhio a un soldato che mi aveva
aggredita” aggiunse
asciutta “In… uhm… un’altra
occasione tagliai un braccio al medesimo soggetto e
uccisi il suo compare. Tu la chiameresti legittima difesa, ma
difficilmente
troverai nell’Universo qualcuno disposto a definire un Galra
buono”.
Kenneth, a quelle parole, ammutolì,
sbigottito dalla brusca piega che stava prendendo il discorso. Lui era
soltanto
un ragazzo sognatore e amante delle stelle, le storie di guerra erano
per lui
solo vaghi ricordi descritti dai nonni, ma ancor più erano
rappresentate dalle
eroiche imprese della trilogia di Star Wars. Viveva in un paese
pacifico, con
un po’ di fortuna la guerra non avrebbe mai fatto parte del
suo futuro. Invece,
davanti a lui, c’era una ragazza addestrata per essere un
soldato al servizio
di un Impero che aveva fatto della conquista e della sottomissione le
sue
primarie missioni. Sembrava un remake di Star Wars ma la ragazza non
gli aveva
affatto presentato un simile scenario nei suoi racconti, messi insieme
da una
voce sommessa e un’ombra negli occhi.
Keira si rese conto di aver parlato troppo.
Sospirò. “Sì, è una lettera
per Santa Klaus. La sto scrivendo per Keith. Lui è
troppo piccolo per farlo”.
Ken le accarezzò i capelli color
mirtillo
“Invece c’è qualcuno che
nell’Universo è disposto a chiamare buona almeno
una
Galra di nome Keiràrye” replicò
alludendo chiaramente a se stesso.
“Ma se prima mi hai definito
cattivella”
rispose sorridendo lievemente a suo interlocutore.
“Sì, sei
anche cattivella, ma modo molto eccitante… tanto che mi
piacerebbe avere ancora
a che fare con te,
almeno finchè Keith
dorme tranquillo” e avvicinò pericolosamente le
sue labbra contro quelle della
ragazza.
Ma come quando parli del diavolo e spuntano
le corna, appena nominato, il proprietario del nome decise di
svegliarsi,
reclamando chiassosamente la pappa e interrompendo delle interessanti
premesse.
Keira rispose prontamente alla chiamata del
neonato ma non senza prima rivolgere un sorrisetto carico di scherzosa
minaccia
al suo compagno “Poi continuiamo…”
ammiccò, finalmente, cattivella.
Non
appena ebbe terminato di scrivere, Ken ripose il biglietto nella busta.
Non era
una busta grande, anzi, la dimensione era quella standard di un
bigliettino di
auguri che di solito si attacca ai pacchetti regalo per riconoscerne il
destinatario. Tanto non aveva molto da scrivere. Si alzò
dalla sedia e uscì
dalla stanza, dirigendosi verso l’ingresso. Non aveva avuto
il cuore di dire a
Keiràrye che i bambini, di solito, lasciavano la letterina
sulla finestra e in
seguito i genitori avrebbero intrapreso mosse da ninja per intercettare
la
missiva, comprare i doni richiesti, tenerli nascosti e, infine
presentarli
sotto l’albero di Natale senza che i pargoli se ne
accorgessero fino al giorno
successivo. La ragazza probabilmente non avrebbe gradito la menzogna ma
a Ken
sembrava che avesse un disperato bisogno di fare qualcosa di magico,
folle e
distante anni luce, letteralmente, da quella che era stata la sua
realtà
quotidiana fino all’anno e mezzo precedente, e non le disse
nulla. Pensava
ingenuamente che avrebbe avuto il tempo di sciogliere
l’equivoco più avanti nel
tempo.
Aveva portato Keira in un campo poco
distante dal loro rifugio ma comunque ben isolato e lontano dalle
strade. Vi
era al centro un bell’abete, non maestoso come quelli che di
solito
troneggiavano nelle piazze cittadine ma molto adatto allo scopo che si
era prefissato.
Kenneth si era praticamente ispirato alla tradizione giapponese del
Tanabata,
in cui i biglietti erano attaccati ad una pianta di bambù.
Non era certo una
tradizione coreana ma il ragazzo aveva sempre amato guardare le stelle
e si era
letteralmente innamorato della leggenda sull’amore che legava
le divinità
Orihime e Hikoboshi, rappresentanti le stelle Vega e Altair, la prima
volta che
l’aveva letta su internet. Dopotutto, anche lui aveva trovato
la sua “stella”.
“I biglietti vanno appesi ai rami
dell’albero,
il più in alto possibile. I bambini vengono aiutati dai
genitori” spiegò il
ragazzo mentre si avvicinava con il suo bigliettino.
“Mi sembra un albero con rami poco
pratici
da raggiungere” aveva constatato Keira avvicinandosi con il
proprio.
“Beh, la tradizione natalizia coinvolge
l’abete. Oltre ai biglietti, l’albero
verrà decorato con palle di vetro,
ghirlande, stelle e luci colorate al neon”. Una mezza
verità.
Ken
uscì in giardino: Keith aveva compiuto da poco un anno
quando si era trasferito
con lui nella nuova casa, molto lontana dal rifugio in cui aveva
passato i suoi
primi mesi di vita. La prima cosa che aveva fatto nella sua nuova
esistenza da
padre single (separato? Vedovo? Non aveva modo di saperlo) era stato
far
piantare un giovane abete, già bello alto, con la scusa di
avere dell’ombra
durante l’estate.
Si
avvicinò all’albero e, alzando un po’ le
braccia, appese al ramo più alto che
poteva raggiungere il suo biglietto…
…comunque
molto più in basso rispetto al ramo dove Keira
aveva attaccato il suo,
quando con due balzi felini aveva quasi raggiunto la cima e, vedendo su
di sé
lo sguardo sbigottito di Ken (aveva partorito da appena due mesi,
diamine!)
aveva sentito il bisogno di giustificarsi. “Più
vicino sarà alle stelle, più
facilmente Santa Klaus lo troverà e potrà
realizzare il mio desiderio!”
Già, Ken non aveva specificato che Santa
Klaus esaudiva soltanto richieste materiali, mentre Keira gli aveva
detto che
il suo era un desiderio, pur rifiutandosi di rivelarlo (nel dire
così, le guance
si tinsero nuovamente di ciclamino e Ken, finalmente, aveva realizzato
che il
ciclamino dei Galra era il rossore degli umani). Un dettaglio che
faceva
davvero assomigliare la sua tradizione natalizia al Tanabata. Era un “Tanabata
natalizio”, ma andava bene così:
l’unione di due realtà lontane avevano dato
origine a qualcosa di unico che
apparteneva soltanto a loro due.
Guardava
le stelle,
ora, Ken. Non avrebbe saputo
quali sentimenti riversare sul firmamento che, da quel piccolo angolo
di mondo,
poco coinvolto dall’illuminazione cittadina, brillava
orgogliosa sul manto nero
bluastro della sera. Era la meraviglia per il pensiero che, oltre ad
esse, vi
erano tanti mondi sconosciuti ma vivi e affascinanti, che avevano dato
i natali
alla bellissima aliena con la pelle color mirtillo e con il sole negli
occhi?
Oppure era risentimento, perché verso quelle stelle
l’aveva vista suo malgrado
esser trascinata via contro la sua volontà da altri alieni?
Alieni che lui
aveva compreso essere alleati della ragazza ma che avevano guardato Ken
come un
fastidio facilmente eliminabile, qualora avesse reagito al rapimento (e
l’avrebbe fatto, se Keira non lo avesse fermato).
“Non potrò restare qui per
sempre” aveva
dichiarato con tono grave, mentre cullava Keith, diverso tempo prima
del suo
sequestro. “Sono una ricercata. Sono una criminale. Non sono
neanche
lontanamente importante ma ho suscitato le ire di un soldato molto
vendicativo,
vicino all’Impero… Se dovessero arrivare fin
qui…” Ken non avrebbe dimenticato
tanto facilmente la paura che aveva attraversato per un momento il
volto di
Keira. “Kenneth, questo pianeta pullula di Quintessenza: la
varietà di
biodiversità e il numero incredibile di culture e lingue del
popolo più evoluto
della Terra ne è la prova. Forse è per questo che
il resto del vostro Sistema
Solare, e persino quelli confinanti, non ospitano alcuna forma di vita:
è stata
completamente assorbita dalla Terra, diventando così
un’oasi azzurra in un
deserto nascosto. E già ti ho detto la fine che fanno i
pianeti colmi di
Quintessenza che hanno avuto la disgrazia di attirare
l’attenzione
dell’Impero!”. Ken stava per ribattere che non doveva
per forza accadere, che
solo un puro caso aveva mandato fuori rotta la navicella guasta di una
fuggitiva, che appunto la Terra era ben nascosta, lei lì era
al sicuro!
Ma Keira aveva continuato come un fiume in
piena.
“Ti ho già detto che il
pianeta viene
defraudato di tutta la sua Quintessenza, condannandolo di fatto a
morte, e che
i suoi abitanti vengono fatti schiavi. Ma la sorte peggiore spetterebbe
proprio
a Keith in quanto mezzo Galra! Che sia un figlio dell' amore o della
violenza,
la vita di un bambino di sangue misto non potrà mai essere
felice”.
“Keira, non capisco”.
“Ho una sorella mezza Galra, Ken, sappi
che
noi la situazione la capiamo molto bene. Vedila così: gli
invasori vedono un
bambino mezzo sangue come figlio di un essere inferiore
(perché le popolazioni
invase nella logica del conquistatore devono essere per forza inferiori
– no,
non ribattere Ken, ho visto i documentari storici alla televisione,
assomiglia
a diverse situazioni avvenute pure qui in passato!) e di un Galra che
si è
“divertito”, quindi lo trattano come uno scherzo
della natura. La gente della
“popolazione inferiore” ovviamente vede giusto la
parte mezza Galra, quella
dell’invasore, e farà pentire al bambino di essere
nato fino alla fine dei suoi
ingloriosi giorni. Vuoi questo futuro per Keith? Io no.”
Keira sembrava ancora
nel bel mezzo del fiume di parole ma si arrestò,
apparentemente incapace di proseguire.
“C’è mia sorella
là fuori, Ken. Aveva solo
dodici anni quando l’ho vista l’ultima volta e se
non fossi intervenuta in
tempo lei …!” si interruppe. Kenneth non
osò intervenire. “Ora non so come sta,
non so se è viva o morta, e non sarei mai in pace con me
stessa se rimanessi
qui a nascondermi come il peggiore dei codardi” si
guardò intorno. “Questo
pianeta è prezioso, tu, i tuoi amici e la tua famiglia siete
stati tanto cari
ma… è troppo rischioso vivere in un pianeta che
nutre una tale ambivalenza nei
confronti degli “extraterrestri”. Dovrei vivere
come un topolino, sempre
nascosto per non farmi beccare dai padroni di casa”.
“Quindi lascerai me e Keith?”
chiese quasi
sussurrando Ken.
“Questo sarà inevitabile, non
credi?”
rispose Keira con voce tremola. Poi prese un respiro “Ma non
accadrà certo
domani o dopodomani” ricominciò con fare
pragmatico “Keith deve essere svezzato
prima, e bisognerà assicurarsi che non manifesti
caratteristiche strane agli
occhi degli umani. Almeno per i prossimi due anni, di partire non se ne
parla”.
Ken
non seppe mai che il piccolo Keith, risvegliatosi dal suo sonno e
andato in
soggiorno alla ricerca del padre, lo aveva osservato dalla finestra
mentre
appendeva qualcosa all’albero. Non fece in tempo a chiedergli
cosa ci facesse
fuori quando il padre rientrò in casa dopo qualche minuto:
Ken aveva sviato
subito la sua attenzione prendendo dell’acqua per il figlio e
riaccompagnandolo
in camera sua con la promessa di leggergli un’altra favola
per farlo
riaddormentare. Ma il giorno successivo, fattosi ormai negli ultimi
tempi un
arrampicatore scavezzacollo, Keith era andato ad esaminare da vicino
quel
foglietto. Scoprì con sorpresa che non era presente solo un
biglietto bensì
sette, e soltanto uno non mostrava i segni del tempo e delle
intemperie. Aveva
cominciato la scuola primaria a settembre e, grazie a quei pochi mesi
di
istruzione, era stato in grado di soddisfare la sua
curiosità e scoprire
finalmente cosa fossero quei biglietti.
“Caro
Santa Klaus, voglio che la mia famiglia torni ad essere
completa”
Keith,
a quelle parole, si confuse non poco: in che senso completa? Non
capiva, la sua
famiglia era a posto, cosa mancava? E soprattutto: davvero
papà aveva mandato
una LETTERINA A SANTA KLAUS? Era imbarazzante persino per lui che aveva
sei
anni…
Lo
stupore e la confusione non fecero che crescere appena notò
che anche i
foglietti più vecchi recavano lo stesso, identico,
messaggio. Tutti tranne uno,
il foglio più rovinato e anche lievemente sporco di sangue.
Il sangue di suo
padre, che aveva penato non poco per recuperare quel biglietto
dall’albero su
cui era stato originariamente appeso. Quel foglio riportava simboli
stranissimi, completamente diversi dalle lettere
dell’alfabeto o da qualsiasi
simbolo pregrafico o geometrico imparato a scuola. Ecco, quel foglio
segnò il
punto più elevato di confusione e di dubbio che il suo
papà fosse impazzito, e
Keith stabilì che, forse, era meglio non indagare
ulteriormente.
Essendo
il bambino il tipo che era, assorbito dalle mille attività
tipiche di un
seienne, in realtà smise presto di curarsi di quel bizzarro
ritrovamento e, col
tempo, finì per dimenticarsene.
Non
venne dunque mai a sapere, e del resto nemmeno Ken lo seppe mai, che il
messaggio celato dietro a quei segni particolari era, in tutto e per
tutto,
uguale a quelli di Ken stesso:
“Caro
Santa Klaus, voglio che la mia famiglia torni ad essere
completa”.
FINE