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Autore: Eirynij    21/12/2017    6 recensioni
L'incontro tra due ragazzi può avvenire nei modi più assurdi e svariati, certe volte è il destino ad agire, altre semplicemente il caso, ogni tanto si tratta di magia, in questo caso è solo il cuore che chiama.
Dal testo:
Non percorsi nemmeno un paio di metri prima di voltarmi indietro: con questo tempo non sarebbe passato nessun autobus. Titubante tornai sui miei passi. [...] Fece il segno della camminata con le dita dopo aver ripreso il controllo sul manico del parapioggia e avermi lasciato un po’ di spazio sotto l’ala. Non sapevo dove fosse diretto e non avevo idea del perché fosse in questa landa dimenticata dal mondo e dagli uomini.
*Storia partecipante al contest “About music” indetto da Soul_Shine*
Genere: Fantasy, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Canzone: Listen to your heart
Artista: Roxette
Storia: 2115 parole
Storia partecipante al contest “About music” indetto da Soul_Shine
 
 
Listen to your heart
 
 
I know there's something in the wake of your smile.
I get a notion from the look in your eyes, yea.
You've built a love but that love falls apart.
Your little piece of heaven turns too dark.
 
Il campanello appeso alla porta trillò allegro all’ingresso di due ragazzi. Alzai appena lo sguardo dal libro che stavo leggendo lanciando un laconico saluto a cui rispose solo uno dei due nuovi arrivati. Lo conoscevo bene, era stato un mio compagno di classe alle elementari, alle medie e alle superiori ma questa assidua frequentazione era attribuibile più alle dimensioni microscopiche della cittadina in cui vivevo piuttosto che al destino. Tornai a leggere dalla mia postazione dietro il bancone su cui campeggiava solitario il registratore di cassa della libreria che avevo ereditato dal nonno, mi piacevano i libri perché avevano una magia tutta speciale.
‹‹Librapazza›› il mio coetaneo, Max, appoggiato beffardo sul bancone richiamò la mia attenzione. Mi apostrofava con quell’epiteto da almeno dieci anni, quindi non ci feci caso e mi rivolsi direttamente al suo compagno che mi porgeva un paio di volumi su un cantante country americano che avrà avuto ormai settant’anni e un terzo di letteratura russa.
‹‹Tolstoj, buona scelta›› commentai segnando sull’inventario dei libri venduti il titolo.
Annuì, i ciuffi ribelli di capelli neri ondeggiarono davanti gli occhi chiari.
‹‹È geniale. Comunque se non riuscissi ad arrivare in fondo c’è anche un bel film con Audrey Hepburn›› gli suggerii.
Fece un cenno di ringraziamento col capo senza proferire una sillaba. Pensai che non gradisse parlare con me, chissà cosa gli aveva raccontato il suo amico sul mio conto, mi scappò una smorfia al pensiero ma del resto non me ne importava nemmeno troppo pertanto continuai imperterrita: ‹‹Se sei un appassionato di romanzi classici ti consiglio anche Joseph R…››.
‹‹È inutile che continui a parlare a vanvera aspettando che ti risponda›› mi interruppe bruscamente Max ‹‹lui è muto!››.
Muto? Ci misi qualche secondo per catturare il significato di quella parola ma, appena lo ebbi afferrato avvampai imbarazzata non sapendo come continuare, o meglio finire, il mio monologo. ‹‹Sono ventiquattro euro e trenta centesimi… fai ventiquattro›› mormorai appena smisi di boccheggiare come una triglia.
Annuì porgendomi i soldi con un sorriso.
‹‹Andiamo, ti faccio conoscere gli altri della band›› ordinò il mio ex compagno di classe dandogli una pacca sulla spalla, solo allora mi accorsi che a tracolla portava una custodia in pelle nera che probabilmente proteggeva una chitarra o un basso.
Il vivace tintinnio del campanello appeso alla porta comunicò la loro dipartita con la stessa vitalità con cui aveva annunciato la loro entrata incurante della mia frustrazione per lo spiacevole incontro e la figuraccia fatta.
Fissai la porta chiudersi dietro le loro spalle sollevata di non doverli più vedere, ma il sospiro di sollievo si bloccò vedendo il ragazzo sconosciuto voltarsi. Gli occhi grigi e brillanti contenevano un saluto caloroso che mi arrivò colpendomi come un fulmine nell’intreccio dei nostri sguardi.
‹‹Muoviti›› un grugnito interruppe il nostro contatto.
La libreria rimase deserta per il resto del pomeriggio ma, data la stagione, non mi potevo aspettare nulla di diverso: i migliori affari si facevano in estate coi turisti e a settembre quando le mamme venivano a ordinare i libri di scuola col morboso desiderio di aver partorito dei piccoli geni o cercando un tampone per le loro inettitudini. In ogni caso stavo fallendo, me ne rendevo conto e mi dispiaceva, il mio angolo di paradiso stava precipitando nel buio, l’avevo curato con tutto l’amore possibile ma al massimo un altro anno e la piccola libreria avrebbe chiuso i battenti per sempre.
 
Listen to your heart when he's calling for you.
Listen to your heart there's nothing else you can do.
 
Guardai l’orologio del cellulare, mentre calcolavo il tempo residuo prima della chiusura una scritta arancione sotto i numeri sottili attirò la mia attenzione.
‹‹Allerta neve›› ripetei il messaggio del meteo lanciando uno sguardo all’esterno dalla vetrina del negozio. Le nuvole bianche si addensavano sopra i tetti rossi delle case mentre la sera, silenziosa e inesorabile, avanzava costringendo il risveglio dei lampioni che si accendevano uno dopo l’altro emanando una fioca e assonnata luce giallastra.
Ore dopo chiusi la saracinesca e mi avviai verso casa, come prognosticato aveva cominciato a nevicare e i fiocchi poliedrici si erano depositati su ogni superficie creando un cuscinetto spesso almeno dieci centimetri. Aprii l’ombrello iniziando a canticchiare a voce piuttosto alta una canzoncina natalizia, ormai non mancava molto al venticinque. Forse era la magia del Natale o forse l’ebrezza da neve, ma fui colta da un’improvvisa euforia che mi spinse a volteggiare per la strada deserta a passo di valzer mentre la punta degli anfibi affondava con tenui scricchiolii nel manto bianco. Dopo un paio di giravolte guidata da un cavaliere immaginario mi bloccai mettendo a fuoco la figura che se ne stava ritta sotto la pensilina della fermata dell’autobus. Quello che all’inizio avevo scambiato per un palo, era in realtà il ragazzo del pomeriggio. Merda. Mi sentii una perfetta imbecille per lo spettacolo che avevo appena dato: se fossi stata una persona brillante, avrei eseguito una perfetta riverenza mostrando, se non l’orgoglio, almeno un briciolo di spavalderia, ma quello smalto non faceva parte del mio carattere quindi mi voltai di scatto facendomi piccola sotto l’ombrello e ripresi a marciare verso la mia abitazione.
Non percorsi nemmeno un paio di metri prima di voltarmi indietro: con questo tempo non sarebbe passato nessun autobus. Titubante tornai sui miei passi. Provavo pena per lui, pena perché era solo al freddo, pena perché Max non gli aveva detto del blocco dei servizi pubblici e pena perché era muto: era un sentimento ingiusto e lo sapevo ma non riuscivo a frenarlo, era del tutto involontario.
‹‹Senti›› cominciai quando gli fui abbastanza vicina perché potesse sentirmi ‹‹non passerà nessuno››.
Mi mostrò quattro dita tese, era il numero della linea urbana.
‹‹No, nemmeno quella è in funzione, è tutto fermo ormai, c’è troppa neve per terra›› spiegai.
Annuì.
Mi morsi l’interno della guancia in cerca delle parole giuste, conversare era più difficile di quanto avessi immaginato e la certezza che non avrebbe potuto rispondermi male non mi procurava alcun sollievo. ‹‹Prendi›› gli porsi l’ombrello ‹‹io abito qui vicino, mi sa che per stasera ne hai più bisogno tu››.
Lessi lo stupore nei suoi occhi leggermente sbarrati, le braccia gli pendevano inerti lungo i fianchi quindi piantai il parapioggia nella soffice coperta invernale e mi avviai verso casa.
 
I don't know where you're going and I don't know why,
But listen to your heart before you tell him goodbye.
Sometimes you wonder if this fight is worthwhile.
The precious moments are all lost in the tide, yea.
They're swept away and nothing is what is seems,
The feeling of belonging to your dreams.
 
Mi si parò davanti bloccandomi la strada tenendo teso davanti a sé il cellulare con lo schermo luminoso vergato da piccoli caratteri affollati.
Grazie.
‹‹Il mio nome è Nina›› mi presentai.
Lo vidi armeggiare col telefono digitando velocemente con le dita affusolate mentre l’ombrello traballava, incastrato nell’incavo del collo e bloccato dalla testa tutta ritorta.
Eric.
‹‹Ciao Eric›› sorrisi.
Fece il segno della camminata con le dita dopo aver ripreso il controllo sul manico del parapioggia e avermi lasciato un po’ di spazio sotto l’ala. Non sapevo dove fosse diretto e non avevo idea del perché fosse in questa landa dimenticata dal mondo e dagli uomini. Max e la sua band riscuotevano un discreto successo a livello locale ma nessuno sarebbe venuto appositamente qui per suonare con loro.
‹‹Come mai sei qui?›› mi decisi infine a chiedere.
Si segnò gli occhi con le dita e poi mosse la mano libera come a voler abbracciare tutto ciò che lo circondava. Tornò a posare gli occhi su di me e comprese immediatamente che brancolavo nel buio facendomi sentire a disagio. Estrasse nuovamente il dispositivo portatile dalla tasca del giubbotto pigiando con decisione sui tasti.
Sto girando il mondo.
‹‹Sei un musicista? Cerchi te stesso?›› era la prima volta che mi trovato a contatto con quello che mia nonna avrebbe definito uno squinternato con poca voglia di lavorare.
Scosse la testa. Suono solo a tempo perso.
Mi domandai dove trovasse i soldi per il suo viaggio ma mi sembrò poco igienico chiederlo. Forse aveva poteri sovrannaturali perché mi mise ancora lo schermo sotto il naso rispondendo alla mia domanda inespressa. Mio padre mi sta finanziando, dice che devo vedere cosa c’è oltre il mio naso prima di prendere il mio posto nel creato. Un giorno dovrò sostituirlo e per allora dovrò conoscere esattamente ogni angolo della Terra.
Conoscere centimetro per centimetro tutto il globo? Chissà che lavoro faceva. ‹‹Io non sono mai stata oltre… diciamo sessanta chilometri da qui›› commentai. Avevo sempre vissuto col nonno che era troppo anziano per portarmi in giro e non abbastanza ricco per mandarmici da sola.
Prima stavi ballando. I nuovi caratteri fecero riaffiorare l’imbarazzo.
Avvampai.
‹‹Non credevo ci fosse qualcuno in giro a parte me›› era una giustificazione patetica.
Mi concedi l’onore? Mi stava prendendo in giro, quindi attesi paziente che sullo schermo comparisse una battuta al vetriolo o un’altra frase di scherno. Appoggiò a terra l’ombrello e la custodia da chitarra, poi mi tese la mano.
Il silenzio della notte invernale era spezzato solo dal fruscio dei fiocchi di neve che cadevano lievi e dai nostri respiri affannati per il freddo e l’aria rarefatta. Sentivo ogni arto pesante, sarei potuta rimanere lì per il prossimo secolo e diventare un pupazzo di neve senza nemmeno accorgermene.
Si sporse afferrandomi il polso e trascinandomi vicino al suo petto. Mosse appena le labbra sillabando chiaramente senza emettere alcun suono la parola coraggio.
Intrecciai le dita con le sue e posai l’altra mano sulla sua spalla, lui mi strinse a sé sorridendo rassicurante.
Iniziò a muoversi lentamente guidandomi in movimenti nuovi che non associai né al valzer né a nessun altro ballo che avessi mai visto. Dopo il primo turbamento, una volta sciolta l’ansia, cominciai a canticchiare sottovoce una melodia, la mia traccia preferita del cd di musica celtica che ascoltavo tutti i giorni mentre facevo la doccia. Eric adeguò i passi al nuovo ritmo. Quando finii quella canzone e tutte le altre presenti sul medesimo disco, avendo voglia di chiacchierare, gli raccontai della mia vita, della libreria, della cittadina, dei turisti e di tutto ciò con cui avevo regolarmente a che fare. Ballammo a lungo finché non ci gelarono i piedi e continuammo a muoverci sotto la neve gentile che ci proteggeva anche dopo quel momento.
Gli lessai i timpani a furia di parlare ma sul suo viso rimase un sorriso perseverante e gentile che si allargava silenzioso o talvolta mutava in graziose smorfie. Era muto ma nel suo volto vedevo tutto ciò che voleva dirmi.
Anche le luci dei lampioni si spensero lasciando posto al chiarore dell’alba dietro le nubi che ancora sversavano grossi cristalli ghiacciati. Arrivammo davanti al portone di casa mia gelati e tremanti. Era giunto il momento di salutarsi eppure non volevo lasciarlo andare, desiderai con tutte le mie forze che la notte non finisse, che non ne rimasse solo un ricordo o un amaro rimpianto. Ma era già terminata.
‹‹Eric io…›› speravo che rimanessimo in contatto, che non svanisse tutto nell’alba.
Mi posò un dito sulle labbra interrompendo il mio balbettio sconnesso. Si portò l’indice e il medio all’altezza degli occhi per indicarli e poi segnò me.
Io ti vedo.
Appoggiò la mano aperta sulla mia spalla poi portò le braccia al petto incrociandole.
Io ti sento.
‹‹Non andare›› lo supplicai aggrappandomi alla sua felpa e nascondendo il volto tra le pieghe della sua giacca, sentivo le lacrime premere e pizzicare mentre cercavano di uscire. Mi strinse in un abbraccio interminabile poi mi lasciò andare ed estrasse il cellulare un ancora una volta. Me lo porse appena finì di digitare: Il tuo ombrello mi serve ancora per un po’. Te lo riporterò appena possibile.
Attesi il mio ombrello per giorni, settimane e mesi.
Perso, per sempre.
 
 
Listen to your heart when he's calling for you.
Listen to your heart there's nothing else you can do
 
 
Eccola lì chiudere la saracinesca un’ultima volta. Era passato un anno da quando avevamo danzato e la libreria aveva dichiarato il fallimento. Anche oggi, come allora, nevicava ma a differenza di quel giorno io avevo un ombrello che mi faceva da scudo, il suo ombrello. Mi avvicinai furtivo alle sue spalle per ripararla. Mi avrebbe riconosciuto?
Se non l’avesse fatto sarei scomparso tornado nel nulla dal quale ero venuto, mio padre mi rivoleva a casa: erano sette anni che mancavo e ormai avevo memorizzato tutto dalla pampa alle montagne rocciose, dalle isole oceaniche ai paesi nascosti del Tibet.
Se invece mi avesse riconosciuto, e il mio cuore lo sperava ardentemente, le avrei raccontato la verità.
Sobbalzò voltandosi di scatto. Ancora una volta allacciai i miei occhi ai suoi.
‹‹Eric›› sussurrò incredula.
Annuii.
Estrassi il cellulare ancora una volta, l’ultima volta, e digitai. Io sono Eric Santa, figlio di Claus Santa, nato al Polo Nord venticinque anni fa, sono il prossimo Babbo Natale. Suonava ridicolo anche alle mie orecchie ma era così quindi, fissandola intensamente, muovendo le labbra senza emettere alcun suono, le rivolsi una preghiera.
Credimi, io dico il vero, lo sai. Ascolta il tuo cuore non puoi fare altro.
Non avevo mai odiato essere muto come in quel momento, avevo le parole ma non avevo la voce per dirle. Fu quindi l’intera mia anima a supplicarla.
Credimi e vieni via con me.
Ascolta il tuo cuore prima di dirmi addio.
 
Listen to your heart when he's calling for you.
Listen to your heart there's nothing else you can do.
I don't know where you're going and I don't know why.
But listen to your heart before you tell him goodbye.
 
 
 
 
Angolo dell’autrice: Inizio chiedendo clemenza! È la mia prima storia originale e forse fa un po’ pena ma.. ehi! Chi non risica non rosica! Ahahah
Passando alle cose serie: volevo ringraziare Soul_Shine che mi ha permesso di partecipare e Kim WinterNight che mi ha segnalato l’evento! Inoltre ringrazio tutti coloro che sono riusciti a leggere quella stramberia che ho scritto e chi lascia un commento! Positivo o negativo, è tutto ben accetto!
Un bacio,
Eirynij
   
 
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