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Autore: KatherineFreebatch    26/12/2017    5 recensioni
Non potei far a meno di catalogare le reazioni al nostro abbraccio delle persone che ci aggirarono sul marciapiede: disgusto, invidia, indifferenza, compassione, tenerezza, odio.
Eppure, cos’è che credevano d’aver capito?

Vi giuro che nonostante tutto, questa storia ha un lieto fine.
Genere: Angst, Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dedicata alle mie bimbe E, C, P, D ed M. Perché vi lovvo e basta. 
 
Broken / Corrageous

“ Glioblastoma. “

Il suo viso restò impassibile, la sua maschera di indifferenza perfettamente calata sui lineamenti segnati dal tempo, dal deserto e dalle emozioni della vita. Brevemente i suoi occhi volarono su di me, quel poco che bastò per rivelargli quel che gli interessava sapere.

La sua mano all’improvviso sul mio braccio. Le sue dita si insinuarono nell’incavo del mio gomito. Leggere percorsero la lunghezza del mio avambraccio. Per un istante strette attorno al mio polso. Ed infine terminarono la loro corsa intrecciandosi alle mie più lunghe ed affusolate. Fece un cenno col capo al medico, al suo oncologo ed egli riprese a parlare. 

Non riuscii a capirlo.
Era come se stesse parlando una lingua aliena.

La sua mano si strinse con ancor più vigore alla mia e ciò mi consentì di ritrovare quel poco di lucidità necessaria per afferrare alcune parole sparse nel discorso roco e crudele dell’uomo in camice bianco davanti a noi.

“ … maligno… inaccessibile... inoperabile... mi dispiace... “

Avrei preferito che quell’episodio temporaneo di afasia fosse durato in eterno.

Solo le sottili linee attorno ai suoi occhi fecero trasparire per istante appena la sua preoccupazione, ma, quando chiese al dr. Bell quanto tempo gli restasse, il suo sguardo tornò su di me, attento ad ogni mia smorfia, ad ogni mia singola reazione.

“Qualche mese. Forse un anno, due se vogliamo essere ottimisti. “

Presi un respiro profondo per ribattere, per esigere una data precisa, dei dati scientifici e certi, ma bastò un’occhiata veloce al suo viso per farmi esitare un istante solo e farmi scappare, forse per sempre, l’occasione di sfogare tutto il mio vetriolo su quella patetica imitazione di un oncologo.
Lasciò andare la presa sulle mie dita per stringere la mano dal dr. Joseph Bell e, con un sorriso un pò tirato e una manciata di parole sussurrate, ci accomiatò. Non chiese quale sarebbe stata la naturale progressione della malattia o cosa avremmo dovuto aspettarci, ma, in fondo, a che sarebbe servito?

In silenzio uscimmo fianco a fianco dallo studio medico e l’aria fredda invernale mi ridestò dal torpore in cui mi aveva fatto cadere l’atomosfera di quelle stanzetta che in fondo per noi non era altro che l’anticamera dell’inferno. 

A facoltà intellettive ripristinate, formulare un piano d’azione semplice ed efficace mi sembrò un gioco da ragazzi e, senza che il mio cervello registrasse gli step intermedi, mi ritrovai con il cellulare in mano e tre quarti di un messaggio già composto.
Strano come, quando si trattava di lui, chiedere un favore a Mycroft non mi abbia mai provocato la minima esitazione.

“Abbiamo bisogno di una seconda opinione, di un medico più competente. Voglio il migliore. “

Mi guardò con gli occhi un po’ sgranati e mi rivolse un sorriso a metà tra l’impietosito e l’intenerito. Ancora una volta le sue dita sul mio gomito. E poi più giù. Impalpabili sul mio avambraccio. Forti e tangibili attorno al mio polso. Il suo viso estremamente espressivo si trasformò una, due, tre volte nell’arco di un istante appena. Affetto. Pietà. Risolutezza. 
Un altro sorriso (non seppe mai con quanta gelosia abbia detestato la sua abilità di sorridere sinceramente), forse una semplice smorfia, spezzò la linea perfetta e dritta in cui le sue labbra si erano assottigliate.

“No, Sherlock. “

Sostenne il mio sguardo indagatore. Iridi blu e marroni cercarono di spiegare ad iridi del colore del vergigris la loro decisione. Mi implorò di veder ragione. 
E poi l’ulteriore cambiamento: le sue spalle si raddrizzarono, spinse in fuori il petto, alzò di poco il mento.

“No, Sherlock. No.“

Un comando. La voce autorevole del Capitan John Hamish Watson. Il basso tenore che mai aveva ammesso alcuna disobbedienza. 

Cercò di togliermi di mano il telefono, ma la presa delle mie dita era ferrea. E le sue mani tremavano. L’apparecchio cadde a terra in un patetico brontolio plastico eppure, nessuno dei due vi prestò attenzione, troppo presi nel nostro silenzioso duello.

“Adesso dobbiamo occuparci di te. Dobbiamo sistemarti.“

Mi indignai per le sue parole. Uno sbuffo lasciò ribelle e repentino le mie labbra e con forza mi liberai dalla sua presa. Gli voltai le spalle.
Quale diritto aveva di parlarmi in quel modo? Quale diritto aveva di vedere l’ira manipolare  così i miei lineamenti?

“Non sono tuo figlio. Che te ne importa di me? Medico, cura te stesso!“

Le sue mani sulle mie spalle. Le sue dita cercarono di insinuarsi sotto le mie clavicole. I suoi pollici spinsero con forza attorno ad entrambi i lati delle mie vertebre cervicali. Era come se, in vano, stesse cercando di dirmi qualcosa, di trasmettermi qualcosa. Coraggio? No. Quello lo strapparono a me i suoi pollici affondati in una delle mie parti più vitali e vulnerabili; come radici fastidiose e velenifere sembrarono penetrare la mia pelle, affondare nei mie muscoli e stringersi impietose attorno alla mia gola, impedendomi di respirare. 

“Lo sto facendo. Assicurarmi che starai bene quando non ci sarò più è l’unica cura che posso prestare a me stesso.“

Le sue mani scivolarono dalle mie spalle al mio petto. Le sue braccia si serrarono attorno alla mia vita. Le mie mani coprirono le sue strette attorno alla seta fredda della mia camicia. Esalò un respiro tremulo affondando il naso nei riccioli ribelli alla sommità del mio collo.

Ed in quel preciso istante mi resi conto che i suoi respiri erano ormai contati.
Erano diventati come granelli di sabbia dentro ad una clessidra: troppo numerosi per poter essere effettivamente quantificati eppure inesorabilmente, crudelmente limitati.

“Ti prego, Sherlock. Sto per andarmene in un posto in cui non mi potrai seguire, dove non mi dovrai seguire, dove non voglio che tu mi segua. Ti prego...“

Avvertii il movimento delle sue labbra contro la mia pelle ancor prima di udire le parole. Le lacrime non incrinarono la sua voce e la disperazione non bagnò i suoi occhi, eppure la stretta delle sue braccia attorno a me mi rivelò chiaramente il suo stato d’animo.

Non potei far a meno di catalogare le reazioni al nostro abbraccio delle persone che ci aggirarono sul marciapiede: disgusto, invidia, indifferenza, compassione, tenerezza, odio.

Eppure, cos’è che credevano d’aver capito? Avevano forse capito che il suo corpo stava riuscendo là dove la guerra e Jim Moriarty avevano fallito? Avevano capito che la natura mi stava per separare dal mio coinquilino, dal mio collega, dal mio assistente, dal mio medico, dal mio unico e migliore amico? Avevano realmente compreso che stavo per essere separato da tutto ciò che di umano c’era in me? Dall’unica cosa in grado di distinguermi da una macchina senza cuore e sentimenti?

No.

Loro pensavano di aver avuto successo, di esser riusciti ad etichettarci, di averci compreso. La realtà era che neppure io ci ero riuscito.

“Cosa siamo noi, John?“

Una coppia? No. Io, per quanto ne sapeva John, non avevo mai provato interesse carnale per nessuno e lui era sempre stato pronto a correre dietro alla prima gonnella svolazzante. Rosie ne è la dimostrazione più lampante.
Un duo di amici? Forse. Eppure neanche due migliori amici riuscirebbero mai ad acquistare la complicità che noi abbiamo avuto sin dall’inizio.
Due fratelli? No. E forse solo perché non abbiamo gli stessi genitori, pur condividendo tutto ciò che due parenti così stretti dovrebbero avere in comune: l’ardente ricerca dell’esilarante euforia di un caso interessante e complicato, la profonda soddisfazione insita nella ricerca e conseguente cattura di un criminale.

Sciolse l’abbraccio e mi fronteggiò. Sfuggii il suo sguardo, chissà che avrebbe potuto leggere nei miei occhi.
 
“Perché? Che te ne importa? Noi siamo noi. Noi siamo John e Sherlock. Semplicemente John e Sherlock.“

Un sorriso, piccolo e quasi timido, incurvò la mia bocca nonostante le circostanze e, anche senza la prova visiva, seppi che sulle sue labbra era nato lo stesso miracolo.

Un’auto scura ombreggiò l’asfalto alle tue spalle, la portiera si aprì ed un clacson stridè per richiamare la nostra attenzione. Ma i nostri occhi si cercarono, si trovarono e condivisero la stessa nozione.

“Andiamocene a casa.“

***
Mi risvegliai da quell’incubo con il cuore in gola e il corpo scosso dai brividi. Mi alzai di scatto dal letto, terrorizzato, solo per riprendere a respirare nell’istante in cui sentii i consueti rumori di John che preparava la colazione in cucina e mi lasciai cadere sul materasso a peso morto, con un sospiro sollevato. Era stato solo un incubo, John era ancora vivo, stava bene e sarebbe restato con me per lunghi decenni ancora. Andava tutto bene. 
Mi sentivo, però, scombussolato e paranoico, con un estremo bisogno di vedere e toccare e annusare la presenza di John, accertarmi che fosse realmente vivo e sano, così scansai le coperte con un gesto secco, mi infilai la vestaglia alla bell’e meglio e feci il mio ingresso trionfale in cucina, salutandolo con un mezzo grugnito. 
John si voltò verso di me, smettendo di fischiettare, posò la spatola sul bancone e mi venne incontro con un sorriso abbagliante al quale non riuscii proprio a non rispondere con lo stesso gesto. L’espressione di John, a quel punto, si ammorbidì e, prima che me ne accorgessi, mi trovai stretto, quasi aggrappato, a lui, una sua mano tra i miei capelli e le sue labbra contro la mia tempia. 
“ Ehi. “ non disse altro per qualche secondo, si limitò ad accarezzarmi i capelli e a stringermi a se con il braccio libero. Mi cullò un istante e mi baciò l’altra tempia mentre aspettava che il mio respiro si facesse meno affannoso e la mia presa attorno alla sua schiena meno stritolante, poi si staccò un poco e prese respiro per dire qualcosa. 
Non seppi mai cosa volesse dirmi perché proprio in quel momento presi il coraggio a due mani e gli sussurrai un “Ehi…” tremolante proprio contro le sue labbra. 
   
 
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