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Autore: Ayer    29/12/2017    3 recensioni
" Kurata aveva l’estrema capacità di essere indiscreta come un elefante in un negozio di cristalli, lo era stata anche con il mio sentimento e ora toccava a me raccoglierne tutti i cocci."
Un compleanno diverso per Akito, il primo senza Sana.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Sana Kurata/Rossana Smith | Coppie: Sana/Akito
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cocci e Lattine
 



Il silenzio regnava nella stanza ormai da qualche ora.
L’aria umida e fredda mi coccolava l’animo mentre mi stringevo sempre più tra le spalle addossandomi al bordo del letto. Sotto i piedi e i glutei sentivo il gelido del pavimento attraversarmi i vestiti. Anche le pareti sembravano nude.
Quelle quattro mura che spesso erano diventate la mia tana, il mio rifugio, ora sembravano starmi strette, come quella polo che ti ostini a infilare per la testa senza slacciare il bottone del colletto.
Eppure trovavo piacere nel logorarmi l’animo fino a toccare il vertice della mia pazienza e percepire l’odio crescente invadermi il petto. A pensarci bene, faceva un male cane – il cuore -.
Ma ci stavo facendo il callo. Da quanto se ne era andata, la monotonia, quella grigia e devastante, sembrava fosse diventata la mia filosofia di vita ormai.
La costante era vivere ogni giorno con la volontà di essere “estraneo” al resto, con la sensazione di essere in qualche modo sempre fuori posto, sempre scomodo.
Diciamocela tutta: del resto non me ne fregava proprio niente.
Sviavo gli amici, saltavo le lezioni, anche gli allenamenti di karate sembravano soffocanti. Ogni mattina mi svegliavo contando le ore, i minuti, che mi separavano dal mio rientro a casa.
Agognavo la tranquillità della mia camera dove potevo finalmente respirare di “me”, di quel che ne era - inevitabilmente - rimasto.
Accasciato malamente a terra con la schiena appoggiata al bordo del letto, il capo chino, lo sguardo perso, avevo smesso di ragionare da un po’.
Respiravo – sospiravo - e basta.
Conoscevo molto bene la causa di tutto questo.
Più volte avevo provato a scacciare il pensiero, ed insieme ad esso il ricordo e il malumore. Erano i suoi occhi, forse, indimenticabili o la sua goffaggine che mi strappava sempre un sorriso e una battutaccia.
Era passato qualche mese ormai da quei momenti assieme. Cercavo ancora di convincermi, di credere che stessi andando troppo oltre, che quella ragazza - che puntualmente era un pugno in pieno petto ogni qual volta la vedevo immortalata su una rivista o in tv - non fosse il fulcro del mio pensare.
Ma mi smentivo quasi subito. Bastava poco: una foto, un’uscita con i vecchi compagni di classe, il suo elastico dei capelli abbandonato sul mio comodino – che non ho mai avuto il coraggio di buttare nel cestino sotto la scrivania-. 
La sua immagine riaffiorava nella mia mente e il suo sorriso rompeva le barriere che avevo faticosamente innalzato.
Stringevo tra le mani il dinosauro che mi aveva regalato durante la festa del nostro metà-compleanno.
Lo accarezzavo con la punta delle dita, assaporando la ruvidità delle squame che solleticavano gentili i polpastrelli. Era una sensazione strana, una via di mezzo tra piacere e fastidio. Era un solletico che prendeva anche la gola. Ricordi, sogni, illusioni… quel pupazzo ne era pieno zeppo!
E dire che avevo sempre dato atto alla sua sincerità, nonostante la sua carriera di attrice, sapevo che non c’era nulla di artefatto nei suoi sorrisi e nei sussurri.
Era semplice Sana, non servivano troppo parole; uno sguardo, un solo sguardo e ci eravamo detti tutto.
Poi appena soli la guardavo sorridermi, piegava la testa un po’ di lato e sul suo volto leggevo che forse il messaggio non era stato troppo chiaro. Con un dito sul mento, gli occhi verso l’alto e l’aria accigliata, mi chiedeva che cosa intendessi con quella smorfia. Quel momento dettava la quiete prima della tempesta.
« Kurata, sempre nel tuo mondo? » sogghignavo.
Dilatava quindi appena gli occhi, gonfiando il petto e alzando le spalle. Si affrettava ad assestarmi una gomitata nel fianco.
Divertito scorgevo tracce di un cipiglio che da lì a poco avrebbe di nuovo lasciato posto ad un sorriso sincero.
Cane e gatto. Ecco, cane e gatto eravamo, la coppia del secolo, diceva.
Alla fine era davvero andata via.


 
Una sera come un’altra, piombò a casa mia. Fuori dal mio portone. Un timido ma imperativo sms: “Scendi” non mi aveva lasciato troppe alternative. La trovai poi qualche metro più in là dal cancello, come volesse nascondersi dallo sguardo indiscreto della mia casa.
La luce tremula di un lampione si rifletteva nella punta delle scarpe laccate.
Chissà quale idiozia questa volta l’angosciava.

« Kurata, lo sai che esiste il telefono? » avevo incalzato divertito.
Di tutta risposta aveva riempito quel metro che ci divideva, gettandosi tra le mie braccia, stringendo i pugni attorno alla stoffa della felpa, strattonandola verso sé.
Mi confessò che l’indomani sarebbe partita per Los Angeles,
per girare uno dei suoi stupidi film.
Lì per lì non risposi, la strinsi solo di più a me gettando il volto nell’incavo del suo collo a respirare il suo profumo così a fondo da riempirmi i polmoni.
Aveva preferito tenermi tutto nascosto fino all’ultimo,
 come poteva pensare che l’avrei presa bene?
Mi disse addio quella sera. I suoi occhi luccicavano, mentre piccole gocce argentate le solcavano le gote arrossate. Si strinse di più nel cappotto, la guardai preda di qualche brivido. Si affrettò a sviare il mio sguardo probabilmente troppo pesante da sostenere.
Si voltò e si lasciò sfuggire quelle poche parole che in quel momento, lenito dal caos che regnava nella mia mente, dalla moltitudine di pensieri che mi attanagliavano, non compresi subito.
La sua voce rimase sospesa nell’aria, mentre mi giungeva all’orecchio un lieve “Ti ho amato davvero Akito…”. Seguii la sua figura farsi sempre più piccola all’orizzonte del viale, prima che i miei occhi decidessero di appannare la visuale.
 


Quanti giorni erano passati ormai? Troppi, e soprattutto tutti uguali. Anche oggi, sarebbe stato verosimilmente un giorno come tanti, se non fosse stato per quei due messaggi di auguri ricevuti rispettivamente da Tsuyoshi e Fuka.
Lanciai uno sguardo attorno, osservando come il buio di un tramonto ormai al termine stava inghiottendo avidamente i dettagli.
La stanza puzzava di alcool, di solitudine, di schifo
I rumori della strada dinanzi sembravano rimbombare come i ricordi nella mia testa, eppure faticavano a coprirli.
In quel momento c’ero solo io, il mio rancore e quella ragazza.
Gli occhi mi bruciavano, le labbra erano secche e sospese, i capelli coprivano il mio sguardo spento.
Starmene qui seduto non era certo un mio capriccio.
Anzi -ad esser precisi- era stato il suo capriccio per la carriera a porre fine al nostro rapporto.
L’oscurità sembrava volesse celare quei pochi oggetti che mi legavano ancora a lei che ormai non mi sforzavo più di cercare, e il cuore ormai sembrava battesse solo per scandire il tempo.
 

Il tempo trasforma il cuore umano,
placa i ricordi amari concede l’oblio,
Il calore si sente solo accanto alle persone
Alla fine ciascuno nel proprio mondo (*)
 

Sorseggiai nuovamente la lattina di birra, gustandomi quel gusto amaro e dolciastro assieme. Deglutivo e mandavo giù a colmare il vuoto che portavo dentro da troppo tempo. Quasi con insistenza, di certo con molta strafottenza.
Abbassai il capo. Le parole morivano strozzate in gola dall’ironia del contesto. Non c’erano specchi nella mia stanza, ma ero certo di non essere nel mio stato migliore: a terra, trasandato, scosso, incavolato.
Non c’era granché da dire.
Buon compleanno, Akito…
Era un gioco con l’ironia quello che stavo portando avanti dal mattino, una partita che in un barlume di lucidità avevo pensato di vincere, prima di bere ancora, diverse lattine.
 

 
La sera avevo un mal di testa atroce.
Avevo bisogno di una qualunque dannata pastiglia che potesse domare per qualche istante quel dolore.
Il capo mi pesava sul collo, facevo fatica a tenermi fermo sulle gambe e un senso di rigetto mi saliva in gola ad ogni passo incerto che muovevo.
Scesi le scale tenendomi stretto al corrimano, cercando un filo di lucidità per far in modo di giungere al pian terreno senza qualche osso rotto.
Il vociare ininterrotto della tv mi martellava il cervello. Mandai mentalmente al diavolo mia sorella che distesa sul divano aveva accesso quell’odiato arnese.
Cercai poi di ignorare quel ciarlare continuo e di concentrarmi a scendere gli ultimi gradini.
Le ginocchia si posavano malferme.
Un altro conato in risalita, deglutii forzatamente.
Quello sciame di voci mi ronzava nella testa, lo sentivo pulsare nelle tempie. Le risate poi, le risate finte degli sketch proprio mi davano i nervi.
In quel momento Natsumi attirò la mia attenzione « Akito svelto, vieni a vedere, Sana ti ha fatto una sorpresa! ».
Non riusciva a trattare l’entusiasmo. Si era alzata in piedi, abbandonando la comoda posizione sul divano e aveva preso a saltellare dinanzi allo schermo. Le dita erano piegate sul telecomando, lo teneva in alto quasi fosse un trofeo. Un largo sorriso stampato in volto.
Voltai il capo verso la tv, giusto per capire quale programma demenziale stesse guardando.
Ed eccola, Sana.
Sorridente, aveva preparato alle spalle un coretto di bambini e insieme intonavano una canzone d’auguri per me.
La sua voce cristallina e gioiosa accresceva quella dannata impressione che in cuor suo ciò che era stato in effetti non era stato così importante.
La osservavo. Era bella come sempre, con quell’elegante vestitino che fasciava il suo corpo mettendo in risalto le sue forme, i capelli le cadevano ordinatamente sulle spalle e quel filo di trucco la faceva sembrare più matura.
Eppure le sue movenze, le sue smorfie, mi lasciavano intendere che stesse solo banalizzando il tutto, che il nostro rapporto “semplice” in verità fosse solo “amichevole”.
Dannata Kurata…
Lo spot pubblicitario interruppe la finestra di dialogo che si era aperta virtualmente tra noi.
Sentii gli occhi di Nat puntati addosso, ma li ignorai accuratamente.
Non volevo potesse leggermi dentro, in quel momento ero un libro aperto. Kurata aveva l’estrema capacità di essere indiscreta come un elefante in un negozio di cristalli, lo era stata anche con il mio sentimento e ora toccava a me raccoglierne tutti i cocci.
Mi diressi in cucina, puntando i piedi verso il frigorifero. Speravo di trovarci l’ennesima lattina.

 
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(*) Miho Obana, Il giocattolo dei bambini, vol. 10


N/A: Sono tornata, ebbene sì, dopo anni di assenza è bello tornare qui, soprattutto perché è un luogo pieno di bei ricordi.
Ho voluto riprendere una vecchia storia e revisionarla, ma alla fine l'ho completamente stravolta.
La storia, come avrete notato, si distingue dalla trama effettiva del manga. Ho supposto che i protagonisti fossero più "adulti" rispetto all'età originale, li ho immaginati adolescenti (a voi l'ubicazione temporale più definita).
S.
  
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