Videogiochi > Danganronpa
Segui la storia  |       
Autore: Chainblack    02/01/2018    0 recensioni
In fuga dalla disperazione dilagante della Hope's Peak Academy, sedici talentuosi studenti vengono rapiti e rinchiusi in una località sconosciuta, costretti a partecipare ad un nuova edizione del Gioco al Massacro senza conoscerne il motivo.
Ciò che sanno è che, per scappare da lì, dovranno uccidere un compagno senza farsi scoprire.
Guardandosi le spalle e facendo di tutto per sopravvivere, i sedici ragazzi tenteranno di scoprire la verità sul loro imprigionamento sapendo che non tutti potrebbero giungere illesi fino alla fine.
Ambientata nell'universo narrativo di Danganronpa, questa storia si svolge tra i primi due capitoli della saga.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Anno XXXX, Marzo, Giorno X



Nessun rumore, nessun impedimento, nessuna distrazione.
Le condizioni erano ideali, perfette: niente avrebbe potuto rovinare quel momento.
Il bersaglio era lì davanti, immobile, con le sue striature rosse e bianche che non aspettavano altro di essere perforate da una punta acuminata.
June Harrier tese il braccio, avvertendo ogni fibra dei suoi muscoli sforzarsi nel compiere il tiro.
"Vento assente, nessun ostacolo" pensò lei, calcolando ogni possibile imprevisto in una frazione di secondo.
Uno dei tanti vantaggi di avere un campo di esercitazione al chiuso era che i capricci del meteo non costituivano più un problema.
La corda dell'arco emanò un suono cigolante, dando il segnale alla padrona che i flettenti erano tesi al punto giusto.
Una goccia di sudore le cadde sulla manica della felpa sportiva; seppure piccola e rapida, i sensi di June ne avvertirono la caduta e persino il tenue suono dell'impatto sul tessuto.
Ogni atomo del suo corpo era concentrato in quello che sarebbe stato l'ultimo tiro della serata.
Non poteva sbagliare. Non poteva e non voleva.
Lasciò andare le dita solo nell'istante esatto in cui fu sicura; solo quando vide nella sua mente l'immagine del bersaglio colpito in pieno, col suo organismo che sforzava al massimo la memoria muscolare, si decise a scoccare.
Poi, si udì un colpo secco. Non passò che appena un secondo.
Si alzò un nugolo di polvere dall'ammasso di paglia usato come pedina sacrificale in favore degli allenamenti dell'arciera.
"Centro"
June Harrier osservò la scena con una certa soddisfazione, ma non sorrise.
Notò quel dettaglio di se stessa: la freccia era andata dritta nel punto centrale del bersaglio, ma la sensazione era diversa rispetto alle altre volte.
Tutta l'eccitazione era scomparsa, lasciando spazio ad un sentimento che la ragazza non riusciva ad identificare.
Appoggiò l'arco al muro, recuperando fiato. Si osservò i palmi delle mani come per cercare una risposta lì dove non poteva trovarla.
Eppure, i calli e i tagli che si erano venuti a formare sulla sua pelle le raccontavano una storia differente: una storia di impegno ed emozione.
Una storia che, però, June non riusciva più a ricordare.
Ponendosi ancora numerose domande, si lasciò cadere sulla sedia più vicina e iniziò a scolarsi un'intera borraccia d'acqua.
Il fresco liquido le scese fin nella gola, come non accadeva da diverse ore.
Altro sudore si riversò sulla tuta che, oramai, andava solo deposta in lavatrice.
Sapeva di dover recuperare il gran numero di frecce che aveva scoccato, ma il solo pensiero di andare a raccogliere le decine di dardi sparsi per i numerosi bersagli  dell'area di addestramento le fece decidere di prendersi ancora qualche minuto di riposo.
Era stato l'allenamento più lungo ed estenuante degli ultimi mesi, nonostante nessun evento importante o competizione degna di nota fosse in vista.
Eppure, June sentì di doverlo fare; un qualcosa che andava portato a termine prima che fosse troppo tardi per rimpiangerlo.
- Mi chiedevo appunto chi avesse prenotato il campo a quest'ora della sera per tre ore di fila -
Una voce dal nulla comparve da sopra di lei, proveniente dalle tribune della palestra.
June non si sorprese più di tanto nel vederle apparire l'ometto palestrato che con i suoi baffetti biondicci le aveva provocato non poche risate.
- Coach... - lo salutò lei - Ancora a lavorare? -
L'allenatore le si piazzò davanti con un tronfio sorriso confidenziale. June gli squadrò la faccia: i suoi baffi erano ancora lì, perfettamente tenuti in ordine.
Si chiese, sospirando, se si sarebbe mai deciso a toglierli di mezzo.
Ma l'orgoglio di Coach Roamb nei confronti della propria peluria facciale era secondo solo a quello che provava per i suoi allievi.
- Ah, no. In teoria adesso mi dovrei già trovare davanti alla porta di casa - ridacchiò lui - Ma come facevo a perdermi questo spettacolo? -
Lei gli rivolse una smorfia quasi divertita.
- Ho soltanto fatto un po' di pratica di tiro - rispose, come se la cosa non avesse importanza.
- Beh, fosse solo quello di certo non avrei perso tutto questo tempo - replicò lui - Ma qui si parla di te! Era da un po' che non venivi ad allenarti -
Lei assunse un'aria colpevole.
Si girò dandogli le spalle con la scusa di dover rimettere a posto l'arco. Non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi.
- E' stato un periodo... impegnato -
- Ah, lo capisco bene. Ognuno ha la sua vita e i propri doveri, ma l'intero circolo sente la mancanza della nostra promettente stella! - esclamò lui - Da quando hai vinto quel torneo, qualche mese fa, un sacco di manager hanno perso la testa per te, capisci!? Qui si parla del tuo futuro, ragazza mia! -
- Il mio futuro è piuttosto precario, al momento... - sospirò lei - Coach, capisco di aver creato delle aspettative, ma ho delle responsabilità e molti doveri. Ho una famiglia da sostenere e... -
Abbassò lo sguardo, tentando di esprimere un concetto complicato e doloroso.
- ...e il tiro con l'arco è molto importante, per me. Ma... non può avere la priorità sui miei fratelli -
L'uomo muscoloso mostrò un volto apprensivo e colmo di dispiacere. Fece di tutto per non mostrare la propria delusione, e decise di rispondere a June con l'ennesimo sorriso.
- Beh, sei una ragazza forte e responsabile! Sono fiero di essere il tuo allenatore - le disse - Ma è anche vero che stai anteponendo il benessere della tua famiglia ad una grande possibilità per il tuo futuro. Sarò franco, June: di ragazzi talentuosi come te ce ne sono pochissimi. Sono sicuro al cento per cento che saresti una stella olimpica, se ti ci mettessi con tutta te stessa. Sei assolutamente certa di non poter far conciliare i tuoi doveri con lo sport? -
Lei si morse il labbro.
- Temo... temo sia impossibile... - gli disse, col cuore in gola - Anzi... sono costretta a restituirle questo... -
A quelle parole, infilò la mano in una delle tasche della borsa sportiva e ne tirò fuori un opuscolo cartaceo mezzo spiegazzato.
Camminò fino al punto in cui Roamb la stava aspettando, poggiandolo tra le sue mani grosse e scure.
Alzò lo sguardo appena in tempo per vedere il suo cuore di sportivo infrangersi.
- June... non dirai sul serio...? - le chiese con un filo di voce.
Il depliant della Hope's Peak recitava a caratteri cubitali l'accettazione di June Harrier tra i propri banchi col titolo di "Ultimate Archer", sogno proibito di centinaia di sportivi e desiderio irrealizzabile di altrettanti sognatori.
June lo aveva appena cestinato, per quanto la sua mano aveva tentato di opporsi al gesto con tutte le proprie forze.
- In questo momento... la mia famiglia ha bisogno di me... - disse - Non posso andarmene a studiare in Giappone e poi a vivere in chissà quale altro paese per interi anni... -
- D-devo chiederti di pensarci ancora un po'...! - la pregò lui - E' un'opportunità assolutamente unica...! Irripetibile! Una come te merita di avere un futuro brillante, e...! -
Lei lo zittì con un gesto affettuoso.
- La ringrazio, Coach Roamb, ma ho preso la mia decisione - sorrise in maniera forzata - Oggi mi sono allenata per così tanto tempo perché... è probabile che non prenderò mai più un arco tra le mani. Con oggi... chiudo -
Passarono alcuni pesanti secondi.
La giovane riuscì ad avvertire la profonda tristezza emanata dagli occhi dell'allenatore, che stava tentando con tutte le forze di reprimere il desiderio di insistere e continuare a pregarla di rimanere.
Ci volle un grande sforzo prima che Coach Roamb si decidesse ad accettarlo.
- Aah... cielo, è davvero un peccato - sospirò lui - Ma sei una ragazza intelligente. Se questa è la risposta a cui sei arrivata da sola, io non mi intrometterò. Ma... -
Si asciugò i baffetti inumiditi.
- Coach... -
- Sappi che mi mancherai - le disse, infine - Sei stata l'allieva migliore che io abbia mai avuto. Le porte del circolo saranno sempre aperte per te, qualora cambiassi idea. Capito? -
A quel punto, June decise di ignorare lo stato pietoso in cui si trovavano i propri indumenti sudaticci e si lasciò andare ad un abbraccio affettuoso.
Coach Roamb ricambiò, scombinandole i capelli argentei come era solito fare oramai da anni.
- Grazie di tutto, Coach... - disse, prendendo la borsa e avviandosi verso l'uscita.
Fu nel momento in cui si voltò un'ultima volta, osservando la mano di Coach Roamb che la salutava da lontano, che June comprese quello strano e doloroso sentimento che aveva avvertito appena scoccata quell'ultima, fatidica freccia.
Rammarico. Rimpianto. Nostalgia.
Stava abbandonando il campo da tiro. Per sempre.
Una parte di sé lasciata indietro, che un giorno sarebbe divenuta un ricordo lontano da contemplare con mestizia.
June si tirò il cappuccio della felpa sulla fronte e, a testa bassa, si avviò verso casa.



Nel buio e freddo stanzone illuminato unicamente dalla soffusa luce dell'unica lampada da scrivania ancora accesa si potevano udire alcuni rumori distinti.
Passi, il tratto continuo di una penna e vari liquidi in ebollizione.
Impilati sul lungo tavolo di marmo vi era una gran quantità di fogli componenti un plico piuttosto spesso; al loro fianco, un elevato numero di ampolle ed alambicchi erano stati disposti in maniera ordinata e precisa, ognuno contenente un liquido di aspetto, colore e consistenza diversi.
Era quell'ora della sera in cui a nessuno sarebbe mai venuto in mente di disturbare coloro che operavano nel laboratorio, temendo un'incombente punizione.
Alla porta della stanza era stato affisso un cartello bene in vista che vietava a chiunque l'ingresso, senza eccezioni.
Un inserviente dell'accademia passò casualmente di lì durante la ronda notturna: non ebbe bisogno di chiedersi cosa stesse accadendo all'interno, e cambiò subito strada.
Michael Schwarz aguzzò l'udito, intuendo che qualcuno era appena passato di lì e che si fosse guardato bene dall'arrecare disturbo.
Sapeva, però, che la sua concentrazione non aveva tempo da dedicare ad un'informazione talmente triviale.
Attraverso le lenti dei suoi occhiali, tornò ad osservare il liquido verdastro che bolliva nella fiala.
La fiamma bluastra strepitò lievemente, ed una bolla più grossa delle altre esplose all'interno del contenitore: abbassò la potenza del fornello e tornò ad annotare informazioni sul proprio quaderno. Aveva già riempito oltre una ventina di pagine in appena poche ore.
Avvertì il polso dolergli, ma non poggiò la penna sul tavolo nemmeno per un istante. Ignorando le suppliche di pietà delle proprie articolazioni, tornò a prendere appunti.
Avvertì un rumore nuovo; stavolta lo colse sgradevolmente di sorpresa.
Altri passi, stavolta quelli del padre.
Paul Schwarz era rimasto seduto su una poltroncina, immobile, per almeno un'ora e mezza; silenzioso, contemplativo, il suo sguardo non si era spostato di un millimetro.
Michael fece di tutto per non dare a vedere di aver tentennato al solo udirne il movimento dei piedi, ma compì un errore madornale: alzò lo sguardo per un secondo.
I suoi occhi incrociarono quelli del genitore in un attimo fatale: la glacialità del suo sguardo imperscrutabile penetrò nel suo animo, scrutandone ogni impedimento.
Michael abbassò subito il volto e tornò a concentrarsi sulla ricerca, asciugandosi una goccia di sudore che gli colava dalla tempia.
- Basta così - la voce di Paul emise l'ordine, e Michael si bloccò sul posto.
La sua mano tremolante spense la fiamma, e con l'altra afferrò un paio di guanti in lattice.
Sollevò l'ampolla e ne versò il contenuto in un misurino, sciogliendo una polvere al suo interno.
Mescolò frettolosamente la miscela e diede il risultato definitivo a colui che stava aspettando, alle sue spalle, a braccia conserte.
Per un istante, sperò che chiunque fosse momentaneamente passato davanti al laboratorio tornasse indietro al solo scopo di commettere l'imprudenza di disturbare l'esperimento.
Un desiderio infattibile al solo scopo di poter avere più tempo a disposizione. Michael sapeva bene che ciò non sarebbe mai accaduto.
L'ultima volta che qualcuno aveva osato mettere piede in quel luogo durante l'orario in cui il famigerato Professor Schwarz aveva preso possesso della struttura, l'esito era stato poco piacevole ed altrettanto indimenticabile. 
Paul non perse tempo, non degnandolo nemmeno di uno sguardo: si limitò ad osservare un campione del liquido attraverso il microscopio.
Il naso aquilino scomparve oltre la sagoma dello strumento non appena si chinò per analizzare il risultato.
Michael avvertì un tremolio alle gambe che peggiorò ulteriormente quando lo vide alzarsi con un'espressione vagamente irritata.
Nulla di positivo era in procinto di accadere.
- Dimmi, Michael. Ricordi quando abbiamo letto e studiato rigorosamente la procedura? - chiese con voce impassibile.
Il ragazzo deglutì. Le domande retoriche erano le peggiori in assoluto, a suo parere.
- Sì... -
- Bene - annuì il padre - Mi enunceresti, per favore, le ultime righe? Intendo riguardo le caratteristiche fisiche immediate di ciò che stavamo cercando di sintetizzare -
Bastarono pochi istanti per capire dove volesse arrivare; Michael notò che il colore del liquido non era esattamente quello prefissato.
Il nervosismo crebbe esponenzialmente.
- Dovrebbe essere color verde... - disse, con un filo di voce - Tendente allo smeraldo... -
- Corretto. Ora, dimmi: di che colore è questo liquido? -
- Ecco... credo che... -
- Verde bottiglia, al massimo - lo interruppe lui, stanco di attendere un responso - La consistenza è simile, ma hai usato alcuni millilitri di acqua in eccesso. Cosa ne pensi? E' accettabile? -
Un'altra domanda retorica. La serata andava degenerando sempre più.
- No, suppongo di no... -
- Corretto - a quelle parole, versò l'intero contenuto nel recipiente degli scarti.
Ogni singola goccia del prodotto andò gettata sotto lo sguardo stanco e frustrato di Michael Schwarz: era la quarta volta, quella sera.
- Rifallo - fu tutto ciò che disse prima di tornare a posto.
- Non ho abbastanza ingredienti... - fu la flebile risposta - Abbiamo finito il solfato di... -
Il suo dito andò ad indicare il procedimento scritto sul manuale lì di fianco, dove era sottolineato il metodo di produzione del particolare solvente che stava cercando di riprodurre.
La sua debole obiezione provocò la comparsa dell'ennesima occhiata colma di delusione e fastidio da parte di Paul.
- E allora producine dell'altro, che aspetti!? La composizione del solfato è elementare, hai tutti gli ingredienti necessari -
- Ma per farlo ci vorranno almeno tre quarti d'ora, e il laboratorio... -
Una mano sbatté violentemente sul tavolo, facendolo sobbalzare. Il plico di fogli faticosamente impilati venne giù di colpo.
Un frusciare di carta e il tintinnio del vetro riempirono la stanza di rumori fastidiosi e frastornanti.
Michael quasi non udì nulla di tutto ciò: i suoi sensi erano concentrati sulle venature paonazze comparse sul collo del genitore.
- Il laboratorio chiude quando lo decido IO! Se credi che ci sia anche una sola persona in questo rifiuto di accademia con un'autorità tale da costringere ME ad eseguire un ordine, vorrei davvero conoscerla! - sbraitò lui - E adesso mettiti al lavoro: completerai questo maledetto esperimento elementare, dovessimo metterci tutta la notte per farlo! -
Il ragazzo abbassò lo sguardo e si chinò a raccogliere i documenti sparsi per il pavimento: sapeva per esperienza che quella minaccia era ben lungi dall'essere vuota, e che la prospettiva di passare la nottata in bianco era più che plausibile.
La stanchezza e il sonno cominciavano a farsi sentire. Michael si chiese a sua volta come mai non riuscisse a trovare la concentrazione adeguata per svolgere una mansione
di quel calibro, decisamente alla sua portata.
Il solvente in questione era un'invenzione dello stesso Paul, il quale aveva cominciato un duro e lungo lavoro per tramandare al figlio le proprie conoscenze e i trucchi del mestiere.
Qualcosa, al di là dell'essere esausto e provato da una giornata di studi, gli stava impedendo di realizzare il prodotto finale.
Sospirando, si rimise al lavoro nel tentativo di concludere una volta per tutte quella tremenda giornata. 
Cercò in tutti i modi di tenere la mente fissa sulla scrivania, ma per l'ennesima volta non ci riuscì.
Stavolta, oltre all'affaticamento, i suoi occhi catturarono una tenue scintilla di speranza ed interesse.
Paul aveva tirato fuori dalla tasca un foglio mezzo spiegazzato, fissandolo con aria ostile e disgustata.
Dall'altro lato della scrivania, Michael stava lanciando occhiate languide e sognatrici a quello stesso pezzo di carta.
Il chimico notò come il figlio stesse mostrando interesse e supplica nei confronti di quella missiva, e ne fu subito irritato.
Si alzò in piedi di scatto e gli spiattellò il foglio davanti al viso.
- Stai ancora fissando quest'immondizia, Michael!? - lo rimproverò.
Il ragazzo si strinse immediatamente nelle proprie spalle.
- Eh...!? N-no...! Il punto è che... -
- Risparmiami le scuse, so perfettamente a cosa stai pensando - sbottò il padre - Tutta questa messinscena ti ha fatto montare la testa, razza di sciocco... -
Sulla carta era ancora ben visibile il sigillo ufficiale della Hope's Peak Academy, affiancato dal nome "Michael Schwarz" a caratteri grossi e cubitali.
Il depliant mostrava numerose informazioni, di cui una in particolare aveva catturato l'attenzione del giovane fin dal primo istante.
L'invito era stato intestato a ciò che la scuola aveva dichiarato essere "L'Ultimate Chemist".
Una sensazione di meraviglia e profondo orgoglio aveva avvolto Michael nel momento in cui, per la prima volta, aveva avuto occasione di tenere tra le dita tremanti d'eccitazione quella missiva. Un'emozione indimenticabile, ma prontamente smontata da un genitore decisamente contrario all'idea.
Paul Schwarz non aveva assolutamente mancato di esprimere il proprio veemente dissenso sulla questione, senza sentire ragione alcuna.
- E'... un'ottima occasione, non credi...? - si espresse Michael.
- Ecco, è proprio ciò che temevo - sospirò l'altro - Dei sedicenti professori con la puzza sotto il naso ti fanno un paio di complimenti e tu ti sciogli , crogiolandoti nel tuo successo. Ti chiamano "Ultimate Chemist" e immediatamente ti convinci di essere chissà quale eletto -
- Ma papà...! La Hope's Peak è riconosciuta a livello mondiale come il miglior istituto formativo in qualunque ambito...! - protestò lui - E' risaputo che tutti i loro studenti abbiano successo assicurato ed una carriera brillante! Solo il... solo il meglio del meglio è ammesso in quella... -
- In quella TRUFFA, Michael! Perché non è nient'altro che una truffa! - inveì Paul - Non vi è NESSUNO, a questo mondo, che possa insegnarti questo mestiere meglio del sottoscritto. Hai passato interi anni a studiare, e le conoscenze che possiedi le invidierebbero i più insigni luminari del mondo! Tutto ciò di cui hai bisogno è di fare pratica, di imparare a fare questo lavoro direttamente in laboratorio! Non permetterò che il tuo tempo venga sprecato in un'insulsa scuola che osa asserire di poterti insegnare qualcosa! Si permettono di mettersi al tuo livello, quando sei TU ad essere migliore di loro! Non lasciarti ingannare da questi specchietti per le allodole, Michael! -
A quelle parole, Michael si sentì ufficialmente sconfitto. Incapace di replicare, si limitò ad abbassare lo sguardo e tornare al lavoro.
La mano del padre lo bloccò, facendogli capire che vi era dell'altro.
- Michael. Ascoltami bene - gli disse, con voce più calma - Al mondo esistono milioni di persone che non esiterebbero un istante a sfruttarti per il loro tornaconto. Tu sei un genio, figlio mio: il migliore. E' proprio per questo motivo che non puoi fidarti di nessuno. Loro hanno bisogno di te, ma tu non hai bisogno di loro -
- "Bisogno" di me...? - 
- Sì, Michael. Tu sei una delle persone che plasmeranno il futuro, capisci? Una mente come la tua è capace di grandi cose, e il mondo intero sarà sul palmo della tua  mano se solo lo vorrai - continuò lui - Non hai niente da ottenere da quei buffoni della Hope's Peak. Non è altro che gente che vuole averti tra i loro ranghi per fare bella figura, una mera questione di prestigio. Tu non sei un trofeo, Michael. Lo capisci? -
Vagamente convinto, ma a malincuore, Michael Schwarz fece cenno di sì.
- Lo capisco... - sussurrò flebilmente.
- Ottimo... credimi, te lo dico per il tuo bene - gli disse, alzando la lettera - Non oseranno più darti fastidio -
A quelle parole, Paul accartocciò la busta tra le mani e con un tiro preciso la indirizzò nel cestino a fianco della scrivania, aggiungendo un'altra cartaccia al mucchio.
Michael udì il suono della carta appallottolata cadere in mezzo al resto dei rifiuti; il cuore ebbe uno strano sussulto.
Passarono alcuni lunghi istanti di pesante silenzio.
- Vado a prenderti un caffè... - disse, avviandosi verso la porta - Continua ad esercitarti mentre sono assente. Stasera sei semplicemente un po' distratto, ma ti  riprenderai. Finirai l'esperimento e andremo a casa, chiaro? -
- Chiaro - disse, tentando di mostrarsi convinto.
Il padre annuì, notando un cenno consensuale, ed uscì dalla porta. 
Michael attese alcuni istanti: udì il rumore dei passi allontanarsi sempre più, fino a scomparire lungo i corridoi.
Per la prima volta, in quella lunga sera, vi era un silenzio placido e naturale.
Inspirò ed espirò, beandosi di quella pace temporanea.
Un pensiero che, però, lo tormentava da tempo, lo assalì all'improvviso.
Si gettò sul cestino dei rifiuti, rovistando intensamente tra i cumuli di carta.
Afferrò con la mano la pallina cartacea, raggiustandone la forma originale come poteva.
Il nome della scuola, con annesso il proprio titolo, era ancora perfettamente leggibile.
Una miriade di sentimenti contrapposti lo attorniarono, dando inizio ad una lunga e difficile guerra interna.
Un conflitto di interessi e raziocinio che non sembrava voler avere un vincitore.
Le parole del padre erano penetrate nelle profondità del suo animo permeabile, insinuando il seme del dubbio in quella sua unica, dolce sicurezza.
Michael Schwarz si trovò in quello che pensava fosse un bivio, ma era in realtà un vicolo cieco.
Non vi era nessuna risposta, nessuna convinzione.
Solo di una cosa era certo: desiderava conservare quel foglio ancora un po'. Conservarlo, e pensare. Ragionare, forse, ed analizzare la situazione più a fondo.
E, soprattutto, sperare.
Michael nascose l'invito della Hope's Peak Academy tra i propri vestiti e tornò a lavoro.
La notte era ancora lunga, ed era appena cominciata.




La busta della spesa stava iniziando lentamente a fare pressione sul polso di June, che si ritrovò costretta a cambiare mano più volte per trasportarla.
Nonostante l'essersi sobbarcata quel peso aggiuntivo a quello dello zaino da palestra, June riuscì in qualche modo a godersi la passeggiata serale verso casa illuminata dalla luna piena.
Il commiato dal campo di tiro e l'ultimo saluto al Coach avevano avuto un impatto più che doloroso, ma l'ennesimo che la giovane avrebbe dovuto superare a testa alta.
La vita era stata una maestra severa, crudele e spesso ingiusta, ma le aveva consentito di farsi le ossa e di divenire resiliente.
Eppure, pur contando le numerose volte in cui si era ripetuta che era l'unica cosa da fare, il senso di vuotezza nel rimettere definitivamente l'arco nella borsa sportiva e appenderlo al chiodo rimaneva costante e sempre presente.
June Harrier si fece forza e distolse la mente da quel pensiero ancora una volta: avrebbe dovuto farci l'abitudine, e considerò opportuno cominciare da subito.
Osservò il bustone in plastica che si piegava sotto il peso degli alimenti comprati: nonostante l'ora tarda era riuscita a raggiungere un supermercato aperto ventiquattr'ore al giorno in cui fare rifornimento di ogni necessità.
Col tempo, June aveva iniziato ad apprezzare la presenza di quel gigantesco e ben fornito punto di vendita, soprattutto per il fatto che era l'unico in zona in grado di venderle ciò che bramavano i difficili gusti dei fratelli.
La parte superiore della busta, infatti, consisteva principalmente in una discreta quantità di snack dai gusti assortiti e stravaganti.
Controllò scrupolosamente che tutto fosse al suo posto e di non aver tralasciato nessun acquisto.
"I biscotti con cioccolato ed arancia per Jackie..." constatò "Orsetti gommosi per Nate... e le praline per Sean. C'è tutto"
Dimenticarsi un condimento o un contorno era quasi la norma quando si trattava di fare compere per la famiglia, ma una improrogabile legge non scritta le imponeva di non tornare mai dal supermercato senza aver preso le leccornie preferite dei fratellini, la cui golosità era ben nota.
June sospirò; si riteneva una sorella maggiore severa e ligia al dovere, ma a volte aveva l'impressione di viziarli.
Tutto sommato non la trovava una cosa brutta né sgradevole: gli spuntini a base di dolciumi erano il suo modo principale di dare loro il suo amore.
Pensando a che faccia avrebbero fatto l'indomani nel trovarsi gli snack nelle buste del pranzo, riuscì per alcuni istanti a dimenticare il dolore della recente perdita.
Il tiro con l'arco non era di certo un familiare, ma lo aveva sentito vicino come se fosse una parte di lei.
Si chiese se il prezzo da pagare non fosse stato più alto delle sue aspettative, pur considerando il lungo e stressante periodo in cui aveva ponderato la sua risposta.
Vi era qualcosa che andava ben oltre i semplici impegni di una liceale indaffarata a tenerla lontana dalla pratica sportiva: qualcosa che June riteneva fosse un ostacolo ben oltre la propria portata, insormontabile ed inamovibile.
Qualcosa che non si poteva nemmeno combattere.
Pentendosi di non averne parlato a Coach Roamb prima di lasciarlo, intuì che il rimorso la avrebbe seguita per sempre.
Con quel pensiero in testa, si apprestò a svoltare verso il vialetto alberato che conduceva alla residenza della famiglia Harrier.
La stradina era silenziosa come ogni volta che la attraversava a quell'ora della sera.
Si aspettò di trovare la strada libera e sgombra, di attraversare rapidamente il marciapiede e di fiondarsi in casa, possibilmente sperando di trovare la doccia libera e la cena nel forno.
Ma, con sua enorme sorpresa, l'asfalto proprio davanti alla propria magione risultò occupato.
In prima istanza non realizzò cosa stava accadendo: un grosso veicolo di colore scuro era parcheggiato davanti al cancello della sua casa, ma a causa del buio e della scarsa illuminazione del rione le fu difficile capire di cosa si trattasse.
Le bastò avvicinarsi appena un attimo per definire chiaramente cosa fosse quel mezzo di trasporto: era l'auto che la famiglia Harrier utilizzava ogni anno per i lunghi spostamenti di gruppo, come le classiche gite al mare o in montagna o alcune visite ad amici e parenti in occasioni speciali come festività o matrimoni.
Ma non vi erano ricorrenze simili, in quel periodo, e di certo non era né il momento né la stagione adatta ad una gita.
Eppure, constatò June, quel mezzo non veniva mai tirato fuori dal garage per puro caso; sapeva che suo padre era fin troppo affezionato a quella automobile per sfoggiarla
in maniera talmente sfacciata senza motivo.
Ponendosi numerosi altri quesiti, il suo sguardo andò poi verso l'unica persona che avrebbe potuto dare loro risposta: il diretto interessato.
Daniel Harrier era fermo, appoggiato al finestrino dell'auto, con il volto fisso verso la porta d'ingresso della casa.
Era vestito con la giacca ed il completo che portava sempre a lavoro, ma non sembrava essere appena tornato dall'ufficio.
Aveva un'espressione strana che tradiva una certa ansia ed apprensione; la mano sinistra picchiettava nervosamente sulla propria spalla, contraendosi in maniera sospetta.
June si paralizzò: vi era decisamente qualcosa che non andava.
Un atroce sospetto si materializzò nella sua mente, ed ebbe paura di confermare quella sua teoria.
Purtroppo, però, non vi era altro da fare.
- Papà...? - lo richiamò lei.
Lui si voltò di scatto, come ad aver udito una minaccia.
- June... - sospirò - Sei tornata -
- Che sta succedendo...? -
L'uomo si passò una mano tra i capelli; era certo che la figlia non ci avrebbe messo molto a comprendere che la situazione era anomala.
- June, devo parlarti -
- Prima dimmi che cosa sta succedendo...! - continuò lei, imperterrita - Che ci fai qui fuori a quest'ora? E la macchina? -
- E' accaduto esattamente ciò a cui stai pensando. Abbiamo avuto un altro... "incidente" -
L'enfasi posta sulle ultime sillabe confermò le paure dell'arciera; rabbrividì.
Daniel le indicò il cestino di rifiuti poco distante, appena fuori dall'ingresso: vi era poggiata di fianco una busta di plastica emanante un odore nauseabondo.
Avvicinandosi, notò che era colma di bottiglie di vetro ancora grondanti di liquido; June storse il naso.
Le bastò appena una rapida annusata per comprendere di cosa si trattasse: avanzi di vino vecchi di almeno qualche sera.
Sentì il rapido bisogno di scostarsene, mordendosi furiosamente il labbro inferiore.
Poi, superato il primo momento di isteria, la sua mente realizzò un dettaglio cruciale.
Si voltò verso il padre con volto terreo.
- Dove... dove sono i bambini!? -
Lui si limitò ad indicare i finestrini di vetro scuro dell'auto con un gesto stanco.
June Harrier si lanciò a vedere cosa ci fosse oltre, quasi sbattendo contro la portiera a causa dell'impeto.
Fu lì che li vide, tutti e tre: i suoi fratelli stavano placidamente dormendo sul sedile posteriore, come non avessero una preoccupazione al mondo.
Il più grande dei tre, Sean, dormiva con la testa appoggiata al cuscino in pelle sul poggiatesta: aveva un chiaro ed evidente livido violaceo sulla tempia.
Jackie, la terzogenita, stava riposando sulla spalla del fratello: un paio di cerotti erano stati piazzati sotto l'occhio sinistro.
Infine, il piccolo Nate era steso sulle gambe di entrambi, fortunatamente senza mostrare l'ombra di un graffio.
- Stanno bene... li ho messi al sicuro - la rassicurò il padre, vedendola palesemente sconvolta.
- Cosa... cosa è accaduto? Sono feriti... - balbettò lei.
- Temo tu sappia bene cosa è successo, June. Un inci-... -
- Sì, lo so che è stato un cavolo di "incidente", per la miseria! - sbottò lei - Voglio sapere perché i miei fratelli hanno dei lividi, OK!? -
- Adesso datti una calmata - fece lui, con tono di rimprovero - E' successo tutto all'improvviso, è stato... -
Lei lo zittì con un gesto.
- Dov'è la mamma...? -
Era giunta la domanda fatidica.
Daniel socchiuse gli occhi, sospirando. Sperava di poter semplicemente andare al sodo, ma conosceva la figlia fin troppo bene per sapere che non glielo avrebbe permesso.
- E' all'interno, probabilmente svenuta nel suo stesso vomito - disse, senza riserve - Ha avuto una ricaduta ed ha perso il controllo. Non sono riuscito a contenerla -
- E quelle bottiglie...? Dove le teneva nascoste...? -
- Ah, lo sa solo Dio dove sia riuscita a piazzarle senza che me ne accorgessi... - sbuffò lui.
Il quadro della situazione era divenuto più chiaro, ma vi era ancora il dettaglio più importante.
L'automobile non era stata lasciata lì per una pura coincidenza.
June sentì il bisogno di chiederlo anche se sapeva già perfettamente cosa voleva significare.
- E l'auto...? - domandò - Stiamo... andando via? -
Daniel Harrier si voltò altrove, il corpo paralizzato dallo sconforto e dalla mortificazione.
Inizialmente, June pensò fosse il suo solito modo di evitare la domanda, ma le cose erano differenti. Capì che il padre non stava evitando di affrontare il discorso, ma stava cercando il modo migliore di porlo verbalmente.
I pensieri della ragazza viaggiarono rapidamente da una parte all'altra delle circostanze.
Le tornarono in mente i volti vagamente sfregiati dei fratelli: la sola idea di saperli in quello stato la fece quasi impazzire.
Quel livido sul volto di Sean, suo principale confidente familiare e il più responsabile dopo di lei, le provocò un inquietante senso di impotenza.
Jackie, sua gioia ed orgoglio, aveva ricevuto ben due sfregi tangibili: il pensiero bastò a terrorizzarla a morte. Che la piccola fosse stata coinvolta in qualcosa del genere da parte della madre era semplicemente intollerabile; e che Nate, seppure illeso, fosse stato costretto ad assistere ad un tale scempio lo era ancora di più.
Placò l'urgenza di fiondarsi al loro fianco e raffreddò i bollenti spiriti. Vi era un'importante questione da affrontare.
Daniel non aveva ancora risposto.
- Papà, che succede? - chiese ancora - Ce ne stiamo andando...? E' per questo che li hai messi in auto, no? Li tenevi al sicuro per... -
- June, adesso ascoltami bene - 
Il tono improvvisamente perentorio la fece trasalire.
- S-sì...? -
- La mia famiglia è tutto per me, siete la cosa più importante che ho - cominciò lui - E immagino capirai che è mio dovere proteggere i miei figli -
Lei fece rapidamente cenno di sì.
- I tuoi fratelli... sono ancora molto giovani. Nemmeno Sean si rende ancora perfettamente conto di ciò che sta succedendo: ha solo undici anni. June, dobbiamo proteggerli. Io e te, capisci? Dobbiamo fare entrambi la nostra parte per tenere al sicuro la nostra famiglia. Ma... non mi riferisco solo a loro -
La ragazza continuò ad annuire fino a che non udì quell'ultimo punto.
Non fu sicura di comprendere cosa significasse.
- Non solo loro...? Cosa intendi? -
- June... tua madre è molto malata - disse - Ha fatto del male a tutti noi, ma... non è un mostro. In qualche modo dobbiamo aiutare anche lei; salvaguardarla, capisci? -
Ancora una volta, June annuì. Ma fu un gesto privo di convinzione, estremamente spontaneo.
Vi era qualcosa, nelle parole del padre, che le impedì di carpirne pienamente il significato.
- S-sì... dobbiamo... fare qualcosa... -
- Esatto. Ma i ragazzi hanno la priorità - Daniel inspirò profondamente - E' per questo che stasera li porto via. Staranno qualche tempo dai nostri parenti in Svizzera, forse anche qualche mese. Devo assicurarmi che possano vivere un'infanzia tranquilla e priva di pericoli. E' una decisione su cui ho meditato per molto tempo. Mi segui fino a qui? -
June Harrier, pur nuovamente dando un segno di assenso, aveva però smesso di ascoltare.
Quell'ultima frase, pronunciata con quelle esatte parole, avevano dato un nuovo senso al contesto generale.
Aveva finalmente capito dove il padre volesse andare a parare con quella peculiare scelta di vocaboli.
"Li porto via..." pensò "Staranno qualche tempo lontani... in modo che possano... vivere..."
Deglutì.
- E... ed io...? -
Calò il silenzio. Si udì solo il frusciare impetuoso di una raffica di vento che smosse le bottiglie di vetro fino a farle oscillare pericolosamente.
I loro occhi si incrociarono: la risposta era stata formulata ben prima di quel momento, dietro numerosi giri di parole.
- Ho bisogno che tu resti con tua madre, June... - disse, infine - E' una decisione difficile, ma non possiamo fare altrimenti -
- Cos... cosa? Aspetta... - balbettò lei - Io... resto qui? Mi lasci qui? -
- Non ti sto "lasciando", June. Ti scongiuro, tenta di comprendere la mia posizione - fece lui - Hai idea di che cosa voglia dire vedersi portare via la propria prole? Che cosa accadrebbe se, domani mattina, tua madre si ritrovasse completamente da sola con la convinzione che i suoi figli la hanno abbandonata? -
Sudando copiosamente, June tentò di imporre una debole protesta.
- U-un m-momento... non puoi... n-non puoi lasciarmi qui... - gemette - Io non so come... non so cosa... -
- Sei molto più forte di quanto sembri, June, e oramai sei abbastanza grande . Vedrai che andrà tutto bene... - le disse, incrociando le braccia - Ora come ora la nostra principale preoccupazione è mettere al sicuro i tuoi fratelli, capisci? Devo proteggerli, June. Ma al contempo non posso permettere che... che tua madre si autodistrugga dal dolore. Non posso toglierle tutta la sua famiglia, ma devo garantire la salvaguardia dei bambini. Comprendi? -
A metà tra il terrore e l'ansia, tutto ciò che riuscì a rispondere fu un concetto confuso.
Le pupille le si inumidirono, le mani iniziarono a tremarle.
Senza nemmeno rendersene conto aveva lasciato cadere sia la spesa che la borsa sportiva, gettandosi tra le braccia del padre.
- N-no...! NO! Che significa che mi lasci qui con lei...!? Non PUOI lasciarmi qui! - strepitò - Non posso gestirla d-da sola...! Non posso farcela...! -
- Non è una questione di potere o non potere, June! - ribatté lui - DEVI farlo! Io devo sobbarcarmi da solo il compito di dare ai tuoi fratelli un letto, dei pasti, un'istruzione e sicurezza! Ho bisogno del TUO AIUTO per fare in modo che questa famiglia non crolli, hai capito!? Il minimo che tu possa fare è dare il tuo contributo per non far ritrovare tua madre internata in manicomio o appesa per il collo ad un cappio, MI SONO SPIEGATO!? -
La ragazza avvertì le forze venirle meno sempre più, ad ogni momento che passava.
Ben presto si ritrovò in ginocchio a gemere suppliche inconsulte in preda alle lacrime più strazianti che avesse mai versato.
- Ti prego... ti scongiuro... ho rinunciato a tutto per darvi una mano... non farmi questo...- disse, aggrappata con le unghie alla giacca del padre - Non lasciarmi... non lasciarmi da sola... ho paura... -
Lui si limitò a passarle una mano tra i capelli argentei, tentando di rassicurarla come poteva. Intuì che le parole non potessero bastare in una situazione simile, ma era tutto ciò che aveva a disposizione.
- Sarà solo per un breve periodo... - la consolò - Andrà tutto bene. E' una nostra responsabilità assicurarci che la famiglia sopravviva, June. Io e te, capisci? Non possiamo fare affidamento su nessun altro. E tu sei forte, te la caverai come hai sempre fatto -
Le schioccò un bacio affettuoso sulla testa per poi divincolarsi dalla debole presa di June, ancora a terra.
La ragazza tentò invano di riprendersi dallo shock, ma si rimise immediatamente in piedi quando udì il rumore della portiera della macchina.
Daniel si era appena seduto sul sedile davanti al volante.
Le pupille dell'arciera si dilatarono. 
"Lo sta... lo sta facendo sul serio...? Mi sta tenendo qui, da sola con...? Ho rinunciato al tiro con l'arco per... ho sacrificato tutto, OGNI COSA PER...! No...
non sta accadendo sul serio, vero? Non sta accadendo, non sta accadendo... non sta accadendo, non sta accadendo, non sta accadendo, no, no... no... NO...NO...! NO!!
"
Si lanciò d'impulso contro la portiera posteriore, premendo sulla maniglia con tutte le forze.
La mano incontrò una strenua resistenza: lo sportello era stato bloccato. Uno scatto secco ne annunciò la chiusura.
Strinse i denti, battendo con forza sul finestrino.
- SEAN, JACKIE, NATE! - urlò a squarciagola - APRITE LA PORTA! -
Riuscì a malapena ad intravedere le sagome ancora dormienti dei bambini aprire lentamente gli occhi, frastornati dalla stanchezza e dal brusco risveglio.
Ebbe giusto il tempo di incrociare i loro sguardi assopiti un'ultima volta: poi, l'auto si mise in moto.
Un rombo del motore ne segnalò l'accensione, e gli pneumatici strisciarono sull'asfalto.
Ancora attaccata con la mano alla portiera, June si ritrovò trascinata per almeno tre metri prima che perdesse inevitabilmente la presa.
Strusciò il ginocchio a terra, sbucciandoselo, mentre la mano ancora stringeva saldamente il punto in cui fino a poco prima c'era la portiera.
Urlò ancora più forte, ma ignorò il dolore: si rialzò in piedi e cominciò a correre con quel poco di forze rimaste.
Il veicolo si stava allontanando sempre di più, svanendo lentamente nel buio orizzonte notturno.
- ASPETTA! ASPETTAAA! NON... NON AND...! NON ANDARE! NON LASCIARMI QUI, PAPA'! PAPAAAA'! -
Nessuno la udì, nessuno passò per quella via.
Il vento le mosse i capelli nel momento esatto in cui cessò di correre, vinta dalla fatica e dall'insostenibile sconfitta.
Le era quasi parso di vedere fugacemente il volto contrito del padre, voltatosi un'ultima volta verso di lei come a chiederle perdono per una dura scelta.
Tre paia di occhi si affacciarono dal vetro posteriore, squadrandola da lontano con sguardi persi e spaesati.
Poi, il largo veicolo nero sparì definitivamente dalla sua vista.
- Non... NON... - sibilò, piangendo - NON ABBANDONATEMI QUI...! Vi.. prego... -



Il giorno successivo



Per Michael Schwarz, la nottata si era prolungata ben oltre le aspettative.
Si erano fatte le cinque del mattino prima che Paul decretasse che il composto chimico preparato fosse di qualità eccellente, talmente alta da permettersi di concludere l'esperimento.
Anche solo il trascinarsi fino a casa e mettersi in vestiti più comodi si rivelò un'ardua impresa, viste le circostanze.
Capitolato sul letto, drenato di ogni energia e senza nemmeno la forza di ragionare, Michael si era concesso qualche ora di sonno aggiuntiva.
La mattina seguente non era cominciata nel migliore dei modi, però.
Si alzò con almeno una ventina di minuti di ritardo sulla tabella di marcia a causa dell'eccessiva stanchezza.
Ebbe appena il tempo di lavarsi e di consumare una rapida colazione prima di correre fuori di casa portandosi dietro il proprio borsone con gli strumenti da lavoro.
L'accademia distava poco da casa sua, ma sapeva di non potersela prendere comoda in alcun modo.
Vi erano un gran numero di cose che il padre non tollerava, e tra queste vi erano i ritardi non giustificati. Purtroppo, l'essersi svegliato in ritardo a causa dell'intenso lavoro del giorno prima non rientrava nelle categorie di scusanti accettabili.
Una nuova giornata di lavoro e sperimentazioni stava per cominciare, e partire col piede storto non sarebbe stata una mossa saggia.
Diede fondo a tutta la forza nelle proprie gambe per tentare di recuperare terreno, e si accorse solo dopo una copiosa sudata di aver quasi raggiunto l'ingresso dell'istituto.
Diede una rapida occhiata all'orologio da polso: era riuscito a rimanere puntuale nonostante lo svantaggio.
Sospirò, gustandosi la piccola e meritata vittoria.
Considerò la possibilità di rendere quello sforzo un incentivo per ottenere un trattamento più clemente; ogni piccolo vantaggio era d'aiuto.
Non appena varcò la porta d'ingresso a scorrimento automatico, si fiondò verso il corridoio principale per raggiungere l'ascensore; il laboratorio era all'ultimo piano.
Era convintissimo che non avrebbe trovato alcun ostacolo tra sé e la propria meta, ma in quel preciso istante una sensazione nuova lo colpì.
Un invitante aroma stuzzicò il suo olfatto, e Michael si ritrovò costretto a fermarsi brevemente per capire di cosa si trattasse.
Era un odore forte e deciso, qualcosa che di rado si era ritrovato ad annusare.
Si chiese da cosa potesse scaturire fino a quando non volse lo sguardo verso i tavolini della caffetteria situata al piano terra dell'edificio.
Lì, in mezzo ad un discreto numero di docenti intenti a fare colazione, vi era un unico individuo decisamente fuori posto.
Fu impossibile per il giovane chimico non notare la sua presenza: indossava vestiti apparentemente normali, ma ad un'occhiata più attenta era possibile intravedere una camicia bianca estremamente elegante ed un paio di scarpe nere lucide che sembravano costose.
Teneva un cappello bianco schiacciato sulla capigliatura biondiccia, e teneva tra le mani una tazza di caffè fumante, ovvio responsabile del profumo che aleggiava nell'atrio.
L'uomo aveva catturato l'attenzione di quasi tutti i presenti, ma nessuno aveva osato disturbarlo.
Michael notò una sorta di strana aura attorno a quella misteriosa persona.
Ancor più grande fu la sua sorpresa nel notare che l'uomo in questione, notata la sua presenza, aveva alzato un braccio in segno di saluto, incitandolo ad avvicinarsi.
- Oh, buongiorno! - fece - Tu devi essere Michael Schwarz, giusto? -
Il ragazzo si irrigidì; non era certo se la sorpresa maggiore fosse dovuta al fatto che quell'individuo conoscesse il suo nome o alla chiara ambiguità delle sue origini.
Nonostante i capelli biondo cenere, l'uomo presentava un distinto tratto facciale orientale ed un accento decisamente inusuale. Intuì che veniva da lontano, da oriente.
- Con chi ho il... piacere? - borbottò Michael, poco convinto della situazione.
- Permettimi di presentarmi - fece l'altro, e sollevando la giacca mostrò un distintivo brillante attaccato al taschino della camicia.
Fu impossibile non notarne la forma ben delineata e i colori; quell'emblema non lasciava spazio a dubbi.
Michael spalancò la bocca, riconoscendo il marchio della Hope's Peak Academy.
- Lei... è della Hope's Peak!? -
- Esattamente. Sono Kizakura, uno scout del nostro reparto principale - disse, sistemandosi il cappello con la mano destra - Ma tu puoi chiamarmi Koichi -
"Un Giapponese, chiaro..." pensò Michael, trovando conferma nelle proprie supposizioni "E nientepopodimeno che un esaminatore della Hope's Peak...!?"
Deglutì, esibendosi in un breve inchino.
- A che cosa devo la visita...? -
- Oh, credevo avessi già intuito tutto - commentò l'uomo - Ti è arrivato l'opuscolo con l'invito, giusto? -
Ricordandone il destino poco piacevole, Michael strinse una mano nella propria tasca, dove ancora conservava il depliant.
- Sì, lo ho ricevuto... -
- Ottimo. Ammetto che mi era sorta una certa preoccupazione! Sarebbe stato grave se si fosse perso - ridacchiò Koichi.
Il ragazzo notò come l'uomo magrolino stesse portando il tono della conversazione su un livello colloquiale e diretto, senza troppi giri di parole burocratici.
- E mi dica, cosa ci fa qui? -
- Non abbiamo ancora avuto la tua risposta, così ho pensato bene di passare a controllare - affermò Koichi - Normalmente lavoro unicamente in Giappone, per la nostra  sede primaria, ma per caso mi sono trovato a passare di qui e ho considerato l'idea di controllare di persona -
"...straordinariamente fortuita e conveniente, per essere una coincidenza" lo sguardo di Michael si fece diffidente.
- Voi... perché avete scelto me? - chiese ad un tratto.
Lo sguardo di Kizakura divenne spaesato.
- Mi chiedi un motivo? Beh, è perché hai talento - disse, sorridendo - E noi della Hope's Peak siamo alla continua ricerca di studenti talentuosi per poterne coltivare le capacità. Apriamo la strada per un futuro radioso... beh, o almeno così recita il nostro strambo motto -
- Sì, ho avuto modo di ascoltare la vostra propaganda... - Michael sentì il bisogno di tagliare corto - Guardi, sono spiacente, ma mi vedo costretto a declinare l'offerta -
Gli occhi chiari di Kizakura si spalancarono dalla sorpresa. Tra tutte le risposte che si aspettava, quella era ben lungi dall'essere contemplata.
- "Declinare"...? Rifiuti la tua ammissione alla scuola? - il suo tono tradì il suo sbigottimento.
- E' così -
Il biondo si grattò la nuca, storcendo il naso.
- Wow, è un evento inaspettato... - ammise - Credo che sia la primissima volta che ci becchiamo un rifiuto! E' un caso unico -
- Lo sarà pure, ma non ha importanza - scosse la testa - Non intendo iscrivermi, ma la ringrazio comunque per l'offerta -
Koichi tossicchiò, sentendosi in difficoltà.
- Beh, accidenti, non so cosa dire... ma mi sorge spontaneo chiederti come mai - gli disse - Non è da tutti decidere deliberatamente di rinunciare ad una possibilità simile -
Michael si sistemò gli occhiali e socchiuse gli occhi.
- Ho troppo lavoro da fare qui, nel mio laboratorio - disse - Il mio lavoro lo si impara con pratica continua, e le mie responsabilità sono innumerevoli. Non ho tempo per partecipare alle vostre lezioni, il mio dovere mi impone di restare qui -
- Comprendo ciò che dici, ma sono certo che il tuo lavoro e il nostro programma siano perfettamente conciliabili - sorrise Koichi - Avrai la possibilità di lavorare in un laboratorio grande almeno il triplo di quello che hai adesso, e nulla ti vieta di portarti dietro i tuoi attuali progetti. Che ne pensi? -
Il ragazzo si allargò il colletto della maglia, vagamente a disagio.
- L-le ripeto che non posso! Non tenti di convincermi con questa ridicola sceneggiata! -
- Come, prego? Faccio fatica a seguirti - rispose l'altro, calmissimo.
- La vostra scuola raduna i migliori del mondo, no!? Come faccio a sapere che non lo fate per puro desiderio di prestigio e che la vostra qualità vale davvero tutte le vostre parole che la elogiano!? Con la mole di lavoro che ho non posso certo correre il rischio di farmi fregare! -
Chiaramente colpito da quelle parole, Koichi mostrò semplicemente un sorrisetto beffardo.
- Cielo, hai davvero una scarsa opinione di noi... me ne rattristo! - disse - Ma ora, dimmi: questo è ciò che pensi davvero o sono solo parole prese in prestito? -
Schwarz si ritrovò spiazzato; l'acume dell'uomo sembrò averlo messo alle strette senza mezzi termini.
Il solo fatto di aver esitato fu abbastanza, per Koichi, da comprendere come stessero realmente le cose.
- M-mi ascolti... io non mi fido di voi... non mi fido di nessuno - gli disse - Tutto ciò che ho è la chimica, la mia scienza. La logica e il raziocinio sono tutto ciò su cui posso contare. Non ho intenzione di fare affidamento su degli sconosciuti che potrebbero stare approfittandosi di me...! -
- Parole sagge, ma alquanto aspre! - commentò lui - Mi rincresce, ma non voglio insistere oltre. La decisione spetta solo e unicamente a te, Michael. Il tuo destino, le tue ambizioni, il tuo futuro... ricade unicamente sulle tue spalle. Non ti costringerò a venire con noi, ma posso almeno provare a chiederti di ripensarci -
- Ripensarci...? -
- Esatto - disse, velando il proprio volto dietro il cappello - Domani pomeriggio ripartirò per il Giappone, con o senza di te. Ma, lo ammetto, sarei davvero lieto di poter portare con me l'Ultimate Chemist. Hai ancora del tempo; tempo per decidere se questo è davvero quello che desideri -
- Credo di averlo già espresso pienamente... - ribatté debolmente Michael.
- Oh, certo, lo so. Ma tenta di capire se è davvero un tuo pensiero o è frutto di qualcos'altro -
La conversazione giunse al termine. Koichi poggiò la tazza di caffé aromatizzato, ormai vuota, sul tavolo.
Passandogli di fianco, avviandosi verso l'uscita, gli piazzò una pacca amichevole sulla spalla.
- Ciò che conta davvero è ciò che NOI proviamo dentro, Michael. I nostri desideri e i nostri sogni fanno parte di noi - gli sussurrò - Non permettere che altri inquinino il tuo giudizio con le loro opinioni. Il tuo mondo sei tu, Michael. Sta a te decidere -
Koichi Kizakura uscì dall'edificio, lasciandosi alle spalle un Michael Schwarz interdetto e spaesato.
Guardò di nuovo l'orologio: era in ritardo.
Nonostante ciò, non gliene importava. Idee e pensieri ben più consistenti erano in ballo, e il ragazzo si ritrovò costretto a pensare attentamente.
Senza neanche alzare lo sguardo, proseguì verso l'ascensore che lo avrebbe condotto al laboratorio.
Un'altra giornata stava cominciando con dei pessimi presupposti, ma Michael si chiese se non si fosse messo in moto un meccanismo più complesso.
Si domandò se non fosse giunto il momento di una svolta decisiva.




June Harrier si lasciò cadere sul pavimento della propria stanza, cingendo le ginocchia con le braccia e affondando la testa tra gli strati della felpa.
Dopo un'intera serata trascorsa tra pianti ed afflizione aveva esaurito ogni briciolo di forza, incapace persino di mettersi ad urlare.
La schiena era ben piantata sull'armadio, la cui grossa stazza aveva fornito un ottimo riparo di fortuna da intrusioni indesiderate.
I solchi sul pavimento erano ancora visibili: June aveva posto il grosso mobile ligneo davanti alla porta, impedendo a chiunque di entrare.
Essendo la casa trasformatasi in un campo di battaglia, la ragazza aveva usato ogni mezzo per creare un rifugio alla buona.
Era passato diverso tempo da quando la persona fuori la stanza, che June oramai a stento riconosceva, aveva cessato ogni tentativo di sfondare la porta e concludere l'opera.
L'arciera si massaggiò il braccio; vi era un brutto taglio che le aveva lacerato la pelle sopra il gomito, e rimasugli di vetro piccoli e sottili erano disseminati ovunque.
Fortunatamente, l'armadio non aveva ceduto alle spallate dell'aguzzina, che si ritrovò costretta a ritirarsi nei propri folli deliri altrove.
Chiusa nel suo minuscolo universo di falsa sicurezza, June Harrier cominciò a pensare, l'unica attività che riusciva a coordinare in quella situazione.
Pensò intensamente alla propria situazione, a ciò che era successo e ciò che le sarebbe accaduto.
Ogni aspettativa veniva istantaneamente vaporizzata; non vi era realmente scampo da quella situazione.
Ripensò alla tremenda bestia che si aggirava per casa, feroce ed aggressiva. A come sarebbe stata la fine se mai la avesse incrociata nel momento sbagliato.
Il solo pensiero di uscire da lì la terrorizzò; quelle ferite che le aveva procurato erano una prova tangibile.
Né fame, né sete, né qualsiasi altro bisogno si presentò: tutto era attenuato dalla paura.
Ad un certo punto provò addirittura a piantarsi nelle orecchie gli auricolari nel tentativo di distrarsi con un po' di musica, ma non andò a buon fine.
Nella sua mente confusa e spaesata, né le note né le parole riuscivano a trovare un senso.
Fu quando persino la musica ebbe fallito che June Harrier realizzò la più spaventosa realtà della propria vita.
"Sono sola..."
Allungò debolmente la mano verso il bordo del letto e afferrò il cuscino, stringendolo a sé. Finì per inzuppare di lacrime anche questo, ma continuò lo sfogo senza remore.
Sentiva il bisogno di qualcosa che assorbisse il suo dolore senza reagire o proferire parola: il morbido guanciale era il vettore perfetto.
Fu lì che, probabilmente, June riuscì ad addormentarsi vinta dal sonno e dalla stanchezza.
Non seppe nemmeno quanto tempo passò, e più che riposare si trattava di una dormiveglia sofferta.
Quando riaprì gli occhi si ritrovò nella stessa e identica posizione che ricordava di aver tenuto per ore intere.
Alzò leggermente lo sguardo per riprendere cognizione con la realtà, più dormiente che sveglia.
In quel momento, vide ciò che maggiormente rappresentava l'oggetto dei suoi desideri.
I suoi occhi guizzarono nel momento in cui vide la borsa da palestra, ancora intatta dal giorno prima, accasciata ai margini della scrivania.
Staccò la schiena dal fido armadio, strisciando verso la meta.
Afferrò la borsa dal manico e ne aprì la cerniera lampo con un lento movimento cadenzato.
I suoi occhi spenti e lugubri fissarono l'arco da allenamento che aveva riposto all'interno: un piccolo capolavoro d'artigianato, flessibile ma robusto.
Ricordò la sensazione di quando lo tenette tra le mani la prima volta, durante un giorno di pratica che poteva sembrare una delle tante, monotone giornate mondane.
Ricordò il volto beffardo di Coach Roamb quando le propose di provare un nuovo strumento di allenamento, senza ovviamente riferirle che si trattava di un arco nuovo preparato su misura.
Ricordò la sorpresa di vederselo arrivare portato direttamente dal padre come regalo di compleanno in ritardo.
La sua mente scostò il pensiero di quell'uomo; ogni ricordo positivo era stato automaticamente sovrascritto dal suo inconscio, troppo ferito per ignorare l'accaduto ma abbastanza in forze da serbare rancore.
Infine, ricordò la prima freccia scoccata con esso: un centro clamoroso.
Persino i fratellini erano venuti ad assistere e a fare il tifo. June Harrier era rimasta convinta del fatto che avrebbe ricordato quel giorno per tutta la vita.
Osservando quella constatazione dalla sua situazione miserevole, non riuscì a non provare una sensazione di triste nostalgia.
"Tutto era cominciato con il tiro con l'arco..." rimuginò "...e tutto è finito con esso"
Già una volta aveva rotto la promessa di non riprendere mai più in mano quello strumento pregno di memorie, e si decise a richiudere la borsa e riporla per sempre in un angolo della stanza dove non lo avrebbe mai più ripescato nemmeno per errore.
Fu quando fece per richiudere la cerniera che un elemento sospetto cadde dalla borsa, staccandosi da alcune pieghe nel tessuto.
June si accorse dell'accaduto e ne osservò la lenta discesa verso il pavimento: si trattava di un foglio di carta mezzo rovinato, probabilmente dovuto allo stare accartocciato in un luogo angusto.
Lo prese tra le dita, chiedendosi che cosa fosse e come fosse arrivato nella sua borsa.
Non ci mise che un attimo a comprendere l'intera dinamica.
Il foglio altro non era che la stessa lettera di invito declinata appena il giorno prima: il marchio della Hope's Peak splendeva ancora, nonostante le pessime condizioni della missiva.
La scritta "Ultimate Archer" ancora persisteva, occupando gran parte dello spazio disponibile. La scuola sembrava fare molta leva sull'orgoglio dei propri studenti.
June realizzò improvvisamente: riuscì a figurarsi il sorriso gioviale di Coach Roamb mentre infilava di nascosto la lettera nel borsone, i baffetti biondi tremolanti e vispi.
Seppur mosso da buone intenzioni, intuì che non doveva essere stata una scelta fatta a cuor leggero.
Ma June sapeva che la cosa non si fermava lì: quel gesto era un messaggio. Un messaggio che la pregava di non arrendersi.
Un messaggio che le urlava disperatamente che non era ancora finita.
June Harrier abbozzò un sorriso quasi forzato: sapeva di non poter cambiare la sua famiglia, né il destino che era stato tracciato per essa.
Sapeva soltanto di dover fare qualcosa per se stessa, a prescindere da chiunque altro potesse avere rilevanza.
Tentò di intravedere un futuro diverso: non ci riuscì.
"Se non lo vedo, non mi resta che cercarlo..."
Si alzò in piedi; notò come stranamente avesse ritrovato energia alle gambe.
Corse al comodino appena sotto la scrivania e ne aprì forsennatamente tutti i cassetti. Infilò il braccio sanguinante fino in fondo e ne estrasse un grosso borsello di tessuto, capiente e morbido. Lo aprì e ne ammirò il contenuto: i risparmi di una vita intera erano al suo interno.
Si ritrovò a pensare a tutti i modi in cui aveva ponderato di spenderli, ma niente risultò avere più importanza.
Prese fino all'ultimo centesimo e versò tutto in un recipiente più adatto.
Prese ogni oggetto che avrebbe potuto esserle utile: dal cellulare, ad un orologio da polso, a fazzoletti ed altri ausiliari igienici.
Riempì la borsa con alcuni ricambi di vestiti e un ombrello da viaggio. Mise infine i documenti ed un libro ad occupare l'ultimo anfratto rimasto.
Come ultima cosa, prese la borsa sportiva con dentro l'arco.
Caricò tutto in spalla e passò ad infilarsi il paio di scarpe meno consumato che aveva.
Sentì le mani tremarle, così come le gambe: un gelo innaturale dovuta al totale ignoto che si stava preparando ad affrontare.
Vi era un'unica, tenue speranza che la aspettava. Una speranza che prendeva il nome di un prestigioso istituto.
Mise la lettera nella tasca della felpa ed aprì la finestra.
L'aria gelida della notte penetrò nella stanza, ma non fu nemmeno in grado di avvicinarsi al freddo emotivo che la tormentava.
Guardò verso il basso, deglutendo: vi erano circa tre metri di altezza che la separavano dal terreno del giardino.
Lo considerò il primo balzo verso una piccola, grande follia.
Una scommessa impensabile, un azzardo senza mezzi termini in cui si giocava il tutto per tutto.
Sapeva solo una cosa: voleva vivere.
Fu nel momento in cui saltò, prendendo un ultimo slancio di coraggio, che June Harrier sentì per la prima volta nella sua vita il sapore dolceamaro dell'indipendenza.



- ...che cosa significa? -
Michael deglutì una copiosa quantità di saliva.
Si era preparato mentalmente per quel momento, impiegando un'intera notte insonne per preparare al meglio ogni parola da pronunciare.
Nonostante ciò, nell'attimo fatidico, si ritrovò nuovamente in difficoltà.
Sapeva che non sarebbe stato facile, lo aveva sempre saputo.
Qualcosa, però, era cambiato; Michael Schwarz aveva smesso di guardare il pavimento cercando di sfuggire agli sguardi feroci di Paul, e fece di tutto per confrontarlo a quattrocchi, senza che vi fossero ostacoli alla comunicazione visiva.
Il padre non fece mancare di notare la profonda asprezza delle proprie parole nell'udire ciò che Michael aveva da dire.
Persino lui fu in grado di notare che il tono e la convinzione del giovane chimico erano nettamente differenti dagli altri giorni.
Le sue spalle erano dritte e ferme, le gambe non gli stavano tremando, e attraverso i vetri degli occhiali riusciva ad osservare uno sguardo carico di determinazione.
- Esattamente ciò che ho detto... - fece il ragazzo - Ho intenzione di andare alla Hope's Peak. Ho compilato il modulo di iscrizione -
- E' uno scherzo di cattivo gusto, Michael? - sbottò lui, irritato - Credevo di essere stato estremamente chiaro sulla faccenda: tu non andrai da quei buffoni -
- Ho raggiunto la maggiore età, papà. Ho il diritto di compiere questa scelta -
Paul graffiò nervosamente il legno intarsiato del tavolino posto sulla parete del laboratorio. Non si aspettava di vedersi giocare quella carta così all'improvviso.
La sua mano si contrasse in un movimento sospetto; Michael velò accuratamente la propria paura, ma sapeva che il padre si stava contenendo con tutte le proprie forze.
- Spiegami, dunque - continuò - Dammi una buona ragione per cui dovresti voler andare in quel covo di imbecilli -
- Se imbastissimo un ragionamento basato sul raziocinio la avresti vinta tu, senz'altro... - ammise Michael - Ho deciso di andarci semplicemente perché voglio, tutto qui -
A quelle parole, Paul si alzò in piedi di scatto, dando un calcio poderoso alla sedia.
Questa rotolò lontano provocando un gran fracasso; i sensi di Michael erano ancora concentrati sul padre e sul suo volto paonazzo.
- Mi prendi in giro!? Da quando hai deciso di unirti all'ideologia di quegli idioti!? - gridò, adirato - Non hai nulla da guadagnare andando...! -
- Andando lì avrò la possibilità di aprirmi altre strade... - rispose lui - Non pretenderai mica che io resti a farti da lacchè per il resto della mia vita, spero... -
Paul si immobilizzò per un istante.
- "L-lacchè"!? E' questo che credi di essere...!? Tu sei l'erede di questo laboratorio...! -
- Ma non lo capisci!? Io non vedevo l'ora di avere una scappatoia che mi portasse a seguire la mia strada personale! - fece Michael, trascinato dall'impeto emotivo - Ne ho abbastanza di seguire delle regole che non condivido! Le TUE regole! Per te non sono altro che un qualcuno a cui tramandare i TUOI successi, eh!? Pretendi che io diventi un chimico come lo sei tu, facendomi andare incontro allo stesso inferno che hai vissuto a tua volta! Ma io ho intenzione di fare di testa mia, d'ora in avanti! Ho le conoscenze necessarie, e un'istituzione che mi appoggerà! Non ho più bisogno di... di TE! -
- Osi dirmi queste parole... - si espresse l'altro, costernato - ...dopo tutto quello che ti ho insegnato!? Dopo tutto quello che ho fatto per te!? -
- Bah! Ti sono grato per ciò che hai fatto per me, ma non permetterò a quei meriti di vincolarmi a te fino alla morte! - disse - Inoltre, tra le tante cose che mi hai insegnato, ce n'è una che mi è particolarmente cara e che si applica perfettamente a questa situazione... -
Ancora profondamente colpito dal discorso del figlio, Paul tentennò.
- Q-quale...? Che intendi...? -
- Non è forse il tuo motto? "Non fidarti di nessuno. Al mondo c'è un'infinità di gente che non aspetta altro che sfruttarti e rovinarti per avere successo". Mi crea una strana sensazione il dover condividere un pensiero con te, ma hai ragione. Hai ragione, papà, non posso fidarmi di nessuno. Niente e nessuno. Nemmeno di te -
- Non ti fidi... di me? -
- A questo mondo esiste una sola persona che non tradirà mai le mie aspettative o la mia fiducia: me stesso! - concluse Michael, serrando le braccia - E d'ora in avanti seguirò il mio istinto e le mie idee. Ripartirò da zero, e il mio punto di partenza sarà la Hope's Peak. Fine della discussione! -
Rimasero in silenzio a fissarsi in cagnesco per una ventina di secondi, senza proferire altro.
Michael riuscì a vedere negli occhi del padre un variegato misto di emozioni fuori controllo.
Ne avvertì tutto il disappunto, il dolore, il rammarico. Vide un sogno infrangersi a causa di una presa di coscienza, ma sapeva anche che era un male necessario.
Paul aveva momentaneamente perso colorito, ma il suo sguardo non cessava di emanare odio.
Ad un certo punto, il padre tirò un sospiro, voltandosi di spalle.
Pescò dalla tasca del camice quello che a Michael parve essere un pacchetto di sigarette ancora chiuso, coperto dal rivestimento in plastica.
Lo osservò rimuoverlo e aprirne il coperchio, afferrandone una.
Michael era certo che il padre avesse smesso, ma ebbe come la sensazione che vi erano in moto molte più cose di quante non potesse vederne.
I due si scambiarono un'ultima occhiata di sfida.
- Esco a fumare una sigaretta... - disse Paul - Tornerò esattamente tra un quarto d'ora -
Mosse passi lenti e cadenzati verso l'uscita del laboratorio. Tra le dita della mano destra stringeva un accendino grigiastro.
Girò la maniglia e si fermò non appena ebbe messo un piede fuori.
- Se al mio ritorno non sarai ancora qui, in laboratorio... - disse, senza nemmeno voltarsi - ...per me sarai morto -
Non appena svoltò l'angolo del corridoio, Michael avvertì una strana sensazione al petto.
Era al contempo gradevole e spiacevole.
Sentì di stare per fare un passò nel vuoto, in un futuro incerto, spietato e senza garanzie.
Sentì che non poteva più tornare indietro, e che oltre quella porta vi sarebbe stato un cammino dove nessuno gli avrebbe più coperto le spalle.
Al contempo, però, provò sulla propria pelle ciò che voleva dire recidere un vincolo nocivo.
Si sentì leggero, potente, quasi sovrumano. Davanti a lui si erano aperte numerose strade.
Strade buie, solitarie e pericolose, ma c'erano: erano lì, davanti a lui, in attesa di essere percorse, sostituendo una situazione in cui vi era un unico sentiero dritto senza diramazioni né possibilità.
"Questa è paura...? O libertà?" si chiese tra sé.
La mano destra afferrò il manico della valigia che aveva sapientemente nascosto in un vano della scrivania.
Controllò rapidamente che fosse tutto al suo posto, e si apprestò ad uscire dalla stanza.
Sentì il bisogno di voltarsi indietro un'ultima volta, ripercorrendo tutti gli anni trascorsi in quel posto che, per quanto largo, gli sembrava sempre più angusto ed oppressivo ad ogni giorno che passava.
Il primo passo che mosse oltre la soglia della porta gli procurò un gusto nuovo, un sentore diverso e misterioso.
"Non mi resta che scoprirlo da me"
Michael Schwarz sistemò il proprio zaino da viaggio sulle spalle, alzò la valigia, e lasciò il laboratorio del padre senza mai più fare ritorno.



Il giorno successivo



Koichi Kizakura si stiracchiò e sbadigliò rumorosamente. Erano trascorsi diversi giorni in cui si era potuto concedere il lusso di riposare per qualche ora in più, svegliandosi piacevolmente di buon mattino. Il dover partire all'alba lo riportò bruscamente alla sua realtà lavorativa.
Fortunatamente, il viaggio si preannunciava confortevole e abbastanza lungo da permettergli di dormire un po' più a lungo.
Si tolse il cappello per ripulirlo e se lo risistemò in testa, piazzandoselo sulla fronte come se fungesse da paraocchi. 
Lanciò uno sguardo fugace fuori dal finestrino: gli addetti dell'aeroporto stavano sgomberando l'area. L'aereo sarebbe partito a breve.
- Dunque! E' la prima volta che viaggi su un velivolo? - chiese al suo compagno di volo.
Michael Schwarz aveva appena posato la valigia nel vano portabagagli e si era accomodato al suo posto sperando di poter trascorrere alcune ore in perfetto silenzio e tranquillità, ma intuì che Kizakura non gli avrebbe concesso un tragitto senza porgli almeno qualche domanda di circostanza.
- No, sono già stato su un aereo un paio di volte... -
- Ma scommetto mai così a lungo, eh? - ridacchiò il biondo, massaggiandosi la barbetta rada - Da qui fino in Giappone ci vorrà un bel po', ti consiglio di recuperare sonno -
- Lo farei volentieri, con un po' di tranquillità... -
Koichi capì l'antifona e decise di lasciarlo in pace; sapeva che l'orario non era facile da gestire nemmeno per Michael.
Era a conoscenza, inoltre, dei dissapori venuti a galla col padre la sera precedente.
Koichi rimase sorpreso dal notare come Michael non fosse intenzionato a far trapelare nemmeno un briciolo del proprio malessere, e che la maschera emotiva che aveva indossato era solida ed imperscrutabile. Si chiese se non fosse un simbolo di forza e semplicemente di testardaggine, ma ammise a se stesso di esserne rimasto impressionato.
"Tutto ciò mi riporta alla mente un caro, vecchio amico..." sogghignò Koichi, immergendosi nel passato.
Nel bel mezzo del suo contemplare antichi ricordi, fu sorpreso dal vibrare del proprio cellulare.
Si grattò la nuca, realizzando di averlo dimenticato accesso prima del volo e sperando che ciò non provocasse problemi.
Ancora mezzo addormentato, avvicinò gli occhi allo schermo per vedere chi lo stava contattando a quell'ora del mattino, dove persino il sole faticava a mostrarsi.
Il numero, però, era sconosciuto. 
Kizakura sforzò la memoria, ma non riusciva a ricordare a chi potesse appartenere quel recapito.
Chiedendosi chi fosse e come avesse ottenuto quel numero, premette il pulsante del ricevitore.
- Qui Kizakura. Chi parla? - 
Attraverso il rumore proveniente dal cellulare, Koichi riuscì ad ascoltare solo alcuni rumori soffusi e disturbati. Era chiaro che non vi fosse molto campo.
Fu però certissimo di aver udito un suono ben distinto, in mezzo alla confusione: un singhiozzo rotto.
Il suo volto si fece più serio e scuro; la persona dall'altro lato della cornetta stava piangendo.
- Pronto? Chi è? - chiese di nuovo.
- P-pronto...? - stavolta la voce era più distinta, quella di una ragazza - Parlo c-con... la Hope's Peak...? -
Koichi deglutì e tentò di assumere il tono più calmo e rassicurante che poteva.
- Sì, sono Koichi Kizakura, rappresentante della Hope's Peak - disse - Con chi parlo? -
- Ah...! S-sono... Harrier. June Harrier... - fece la flebile voce - Ho c-chiamato questo numero... perché era sul depliant... -
Nel momento in cui aveva udito il nome, la mano di Koichi scattò verso la tasca della propria giacca, estraendone alla svelta un taccuino.
Scorse in fretta le pagine, fino a raggiungere quella designata.
"Falls... Grace... Heartland... No, prima, eccolo: Harrier. June Harrier, l'arciera
- Certo, sei l'Ultimate Archer! - esclamò Koichi - Sono contento di sentirti. Posso aiutarti in qualche modo? -
- Io... io volevo confermare... la mia iscrizione... - disse debolmente - Però... però io... -
- June, adesso tira un bel respiro e ascoltami: sono qui con te, ok? - la rassicurò lui - Cerca di calmarti e dimmi che succede -
- S-sono... sono scappata di casa... - mormorò lei, riprendendo il pianto - Ho raggiunto l'aeroporto, m-ma... non so cosa fare...! Sono sola, ho paura...! -
- Va benissimo, June. Andrà tutto bene - fece la voce melliflua di Kizakura - Dimmi dove sei -
Nel frattempo, Michael Schwarz aveva notato il notevole cambio di espressione di Koichi, che non rispecchiava affatto il tono delle sue parole.
L'uomo parlava in maniera misurata e confortevole, ma i suoi occhi trasmettevano ansia e apprensione.
Lo vide estrarre una penna della tasca per poi segnare alcuni appunti rapidamente sul taccuino: sembrava l'iscrizione del nome di una città con un relativo indirizzo.
A cosa servisse quell'ubicazione rimaneva un mistero.
- Che cosa succede? - chiese Michael.
- Una ragazza è in difficoltà... - gli confidò sottovoce, tornando al cellulare - Pronto, June? Mi senti? -
Dal dispositivo spuntarono alcuni rumori di disturbo.
- Ti sento... -
- Benissimo. Adesso invierò immediatamente un messaggio a un mio collega, ok? Verrà a prenderti quanto prima - le disse - E' grande e grosso, ma ha un cuore d'oro. Lo riconoscerai subito, quindi non avere paura. Va bene? -
- V-va bene... - fece, ancora tremolante - M-ma cosa faccio... adesso? -
- Tranquilla, appena avrò finito di contattare chi di dovere ti richiamerò immediatamente. Parleremo fino a che non verranno a recuperarti, se ti va. D'accordo? -
- Ne... ne è sicuro...? -
- Non sei sola, June. La Hope's Peak ti proteggerà, stanne certa - disse - Ora riattacco momentaneamente. Ci sentiamo tra pochissimo -
A quelle parole, Michael lo vide comporre frettolosamente un numero telefonico gettando contemporaneamente uno sguardo all'orario. Il volo era previsto a breve, non c'era molto tempo. 
Una domanda spontanea sorse nella mente dell'Ultimate Chemist davanti a tutta quella dedizione.
- Fai tutto questo per una persona che nemmeno conosci... - commentò - Perché? -
Momentaneamente spiazzato da quella domanda, Koichi esitò a comporre il numero.
- Perché, eh? - sospirò - Voi ragazzi siete il nostro futuro, Michael. E' una nostra responsabilità proteggervi, non importa se non siete persone a noi strette o familiari. Siete i nostri studenti, chiaro? Il talentuoso seme che darà vita ad un magnifico fiore. E credimi, farei di tutto per preservare la vostra incolumità -
- "Di tutto"...? Un po' estremo... -
- Forse hai ragione, ma chissà? Forse un giorno comprenderai cosa dico, quando troverai qualcuno da proteggere. Magari... qualcuno a cui vorrai bene più di quanto ne voglia a te stesso -
Koichi si immerse nuovamente nelle telefonate, lasciando Michael da solo coi propri pensieri.
Si preannunciava un viaggio lungo e sofferto: troppe cose a cui pensare, troppe risposte da trovare.
Michael Schwarz avvertì una vaga sonnolenza e si lasciò andare sullo schienale del proprio posto.
"Qualcuno a cui voglio bene..." pensò.
Un concetto ancora estraneo, sconosciuto.
Un'altra delle tante cose che Michael Schwarz sperava, in qualche modo, di trovare in quella nuova parte della propria vita.
Pochi minuti dopo era a centinaia di metri da terra, in volo per il Giappone.


   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Danganronpa / Vai alla pagina dell'autore: Chainblack