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Autore: Black_Eyeliner    27/06/2009    7 recensioni
Prima Classificata al "The Colours' Contest" indetto da Only Me
-Toccami, nii-san…Toccami.
-Cosa vuoi Sasuke?
Gli domandò con un sorriso malizioso a piegargli gli angoli della bocca, prima di scendere a baciargli e mordicchiargli il collo latteo.
-Voglio…
Esitò per un fugace istante, mentre il piacere lo invadeva a ondate per il tocco di quelle dita che, continuando a vezzeggiarlo, gli sfilarono via lungo le gambe l’unica cosa che indossava.
-Voglio che rimani qui. Con me.
[Voglio che…]
[…Mi scivoli dentro]
Semplicemente Uchihacest...
Genere: Romantico, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Itachi, Sasuke Uchiha
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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***Questa fiction ha partecipato al The Colours’ Contest indetto da Only Me, classificandosi prima***

Vincitrice inoltre del premio Giuria^^

Qui il giudizio

 

 

http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8543668&p=5&#idm95097225

 

Grazie mille e complimenti alle altre partecipanti^^

 

 

 

 

 

Black

[Scivolami dentro]

 

 

“Maybe then I’ll fade away

and not have to face the facts
It’s not easy facin up

when your whole world is black”

 

Rolling Stones

 

 

 

 

 

 

 

Mancavano pochi giorni al suo tredicesimo compleanno.

Luglio fulgido dalle sue labbra dorate aveva soffiato per tutto il giorno un alito rovente, smuovendo i teneri petali dei ciliegi in fiore: danzavano languidi, prima di staccarsi dai sottili e nodosi ramoscelli, per diventare pioggia rosea, brillante sotto il sole infuocato; quelle stravaganti, insolite stille di colore rosa si erano poi adagiate al suolo quando le violente raffiche di vento caldo avevano smesso di soffiare, creando un morbido, soffice tappeto dispiegato sull’asfalto nero.

Poi finalmente il sole era calato, lasciando che le tenui, delicate sfumature d’ametista e d’arancio del crepuscolo si impastassero tra loro come in un caldo acquerello a sporcare l’ordito azzurro e terso del cielo, prima di essere ingoiate dal nero della notte.

Quella sera d’estate Andromeda risplendeva come se ogni sua stella fosse stata pregiata madreperla cucita su un drappo di velluto nero, e la luna piena e cerulea, rassomigliava ad una medusa di gelatina, silenziosa e galleggiante nelle oscure profondità dell’oceano.

 

Nella sua camera Sasuke disegnava.

Cautamente si era richiuso l’uscio alle spalle, girando la chiave nella serratura d’ottone a doppia mandata, per evitare di essere disturbato: non che i suoi venerabili genitori lo andassero a cercare spesso, ma preferiva rintanarsi in quel piccolo nascondiglio fuori dal mondo che era la sua camera da letto, l’unico luogo dove poteva godere di un silenzio quasi sacro, nel quale almeno poteva risparmiarsi i soliti e continui elogi rivolti a Itachi, dei quali sua madre e suo padre erano tutt’altro che parsimoniosi, riservando invece a lui solo sguardi biechi, colmi di un’aspettativa barcollante, sempre sull’orlo di poter essere delusa.

Itachi.

Suo fratello maggiore.

Quando quel volto pallido, perfetto e spigoloso, fece capolino dal mare in piena dei suoi pensieri, subito cercò di scacciarlo, riversando tutte le sue emozioni contraddittorie nei movimenti tremuli del suo polso: la mano, via via, acquistava quel tipico tratto deciso, continuando a scorrere sapientemente sul foglio ruvido dell’album da disegno.

Non gli piaceva usare i colori: c’era qualcosa di profondamente piatto nel modo in cui il giallo e il rosso, mescolandosi, creavano un caldo arancione, così come il giallo e il blu generavano dalla loro unione un verde insipido, da sembrare addirittura artificioso se paragonato a quello delle foglie venate del platano che, di tanto in tanto strusciavano contro i vetri della finestra della sua camera.

Sasuke, fin da quando era bambino, era sempre stato affascinato dal modo in cui ogni colore, ogni tenue sfumatura pastello, ogni tinta brillante, se sovrapposti, convergevano unicamente nel nero; quando, all’asilo, gli veniva chiesto di “fare un disegno a tema libero”, rimaneva per un tempo indefinito a fissare il foglio immacolato sul banco, per poi guardarsi intorno e vedere gli altri bambini che scarabocchiavano sui loro quadernetti, tentando di dare a quelle chiazze di colore le forme di fantomatici e improbabili paesaggi: casette graziose, prati in fiore, farfalle svolazzanti e alberi di un verde tanto brillante che aveva a che fare poco o nulla con lo smorto verde degli alberi rinsecchiti ai margini delle strade periferiche di Tokyo.

 

-Se vuoi, ti presto i miei pastelli, Sasuke-kun.

 

Una bambina dal viso grazioso lo guardava di sottecchi con fare adorante, con un tocco di rosso a imporporarle i tratti delicati, il dorso del nasino all’insù e la fronte un po’ troppo spaziosa ma che, nel complesso, non stonava nell’ovale armonico del suo viso, esaltato da ciocche lisce color ciliegio. Sasuke si era sempre domandato perché mai quella ragazzina dovesse essere capitata proprio nella sua classe: oltre a trovarla noiosa ed oltremodo petulante, quel colore rosa acceso dei suoi capelli riusciva soltanto ad irritarlo e quasi lo inquietava la vicinanza di quella tinta così forte, così nitida, così reale a rammendargli che non tutto era nero, come lui invece immaginava.

 

-No, grazie.

Replicò laconico, concentrandosi sul basso banchetto dove il foglio mesto quasi lo implorava di sporcarlo, di colorarlo, per farlo sembrare meno triste.

 

-Pensavo che potevamo fare un disegno insieme…

-No, ti ho detto che non mi va.

Rispose ruvido, quasi il tremolio nella voce di lei lo spronasse a dare il peggio di sé, ad essere addirittura spietato, a godere della sua incertezza.

 

-Ma io…

-Ora basta. Sei noiosa.

 

Quando rispondeva a quel modo ai tentativi di Sakura di trascinarlo fuori dal suo mondo immaginario dalle nere tinte, sempre la vedeva arretrare con un’espressione di incommensurabile malinconia dipinta sul suo viso infantile e la coda tra le gambe, incapace anche solo di alzare ancora lo sguardo su di lui.

A Sasuke tuttavia non interessava, un po’ per la sua indole non proprio socievole, un po’ perché c’erano altre cose, altre persone, che catturavano la sua attenzione, gli impregnavano il cuore e l’anima di un sentimento morboso, facendolo sentire pesante, come fosse schiacciato da un macigno che non riusciva in nessun modo a far rotolare via da sé, per potersi rialzare e spiccare il volo, libero, affrancato dalla sua miserevole condizione di essere “la seconda ruota del carro”: quel macigno era Itachi.

Suo fratello maggiore.

La sua ossessione.

E così accadeva che mentre gli altri bambini, sorridenti, consegnavano i loro lavori alla maestra Kurenai, Sasuke si decideva a tirar fuori dallo zainetto l’astuccio con i pastelli: li temperava uno ad uno, con precisione quasi maniacale, rendendone sottili ed affilate le punte colorate, disponendoli poi sul banco in ordine decrescente di lunghezza; il primo, il più lungo, era sempre il nero.

Non lo usava quasi mai poiché, difatti, aveva scoperto altri modi per ottenerlo: prendeva a passare freneticamente la punta di ciascun pastello sul foglio bianco, fino a smussarla o finchè si spezzava sotto l’impeto dei movimenti nervosi della sua mano: allora Sasuke, quando il pastello non era più utilizzabile, passava a quello successivo, aspettando di nuovo che la punta si consumasse o si spezzasse, e così via; quando finalmente aveva passato in rassegna tutti i colori, sollevava il capo per ammirare, con una punta di malcelata velleità, il suo capolavoro.

 

-Ho finito, Kurenai sensei.

 

Quanto fosse ironica la parola sensei pronunciata dalle sue labbra con voce greve e infantile era talmente palese da non dover essere neanche rafforzata dall’aria di sfida che Sasuke, malgrado allora fosse solamente un bambino, assumeva con tale maestria da farlo sembrare quasi un adulto.

Gli occhi di Kurenai si spalancarono, passando velocemente dal foglio al suo volto, prima di ridurli a due feritoie puntate di sghembo su di lui.

-Si può sapere cos’è questo, Uchiha?

Formulò quella domanda, tentando di nascondere dietro un alone di contegno fasullo, tutta l’irrequietezza che quel saccente ragazzino le provocava.

-Non le piace?

Era solo un bambino, ma il suo modo di parlare già rasentava quello di un adolescente disilluso e in conflitto con il mondo intero, di un bambino appunto, ma di un bambino cresciuto troppo in fretta.

-Difficile dire se mi piace, dato che non vedo nulla. Sasuke, si può sapere che cos’è?

-E’…

Prese fiato, trattenendolo in fondo al diaframma, prima di sputarlo fuori, acido.

 -E’ mio fratello.

Rispose con una punta di sottile cinismo, che non a tutti i bambini è dato provare, prima di raccattare le sue poche cose e di uscire dall’aula con la cartella in spalla, lasciando la maestra Kurenai attonita, con un foglio tra le mani  sul quale c’era solo una macchia nera dai contorni frastagliati in lingue di colore, che confluivano tutte in quella scura pozza di ventidue colori sovrapposti.

Nell’angolo del foglio, in basso a destra, c’era solo una S, l’unica lettera che Sasuke allora conoscesse, l’iniziale del suo nome.

 

Suo fratello.

Tutto. [Tutti i colori].

E niente. [Il nero].

 

Ripensare a quell’episodio, se da un lato gli fece piegare gli angoli della bocca in un mezzo sorriso sardonico, dall’altro lato gli provocò una fitta al petto, che lo fece annaspare sul suo ultimo respiro.

Adesso Sasuke non era più quel bambino asociale e introverso cresciuto all’ombra di suo fratello maggiore: adesso era un ragazzino, alle porte dei suoi tredici anni.

Oltre ad entrare in possesso di una bellezza più unica che rara, che fino ad allora gli era valsa soltanto uno stuolo di ragazzine urlanti al seguito di cui volentieri avrebbe fatto a meno, Sasuke aveva anche affinato, potenziandole, le sue innate doti da disegnatore.

Era cresciuto ed aveva imparato tante cose, alcune utili, altre un po’ meno: aveva imparato, dal giorno dell’inconveniente con la maestra a scuola, dapprima a leggere e a scrivere; aveva imparato ad allacciarsi da solo gli scarponcini che indossava quando fuori pioveva a dirotto; aveva imparato che suo padre non aveva molto tempo per stargli dietro e che a sua madre, se anche lo volesse bene, brillavano gli occhi quando pronunciava il nome di Itachi; aveva imparato che suo fratello maggiore, malgrado i suoi innumerevoli sforzi di somigliargli, rimaneva sempre un gradino al di sopra di lui; aveva poi imparato che i bambini non vengono portati da un fantomatico uccello, tale cicogna, che mai aveva avuto né il piacere, né l’occasione di vedere dal vivo; e disteso sul suo letto, durante i pomeriggi solitari e le notti insonni nella sua camera, aveva imparato che toccarsi gli dava un senso di piacere che non aveva mai provato prima, neppure quando mangiava i pomodori o si rintanava nel suo cantuccio a disegnare. Era un piacere diverso, che lo faceva gemere e scuotere tutto, che lo faceva sentire caldo, fino a quando le sue dita si bagnavano di un liquido denso e vischioso, bianco e tiepido che aveva imparato, a suo discapito, non venisse via facilmente dalle magliette scure.

Aveva imparato che la vicinanza di Itachi, il tocco lieve anche solo di un suo polpastrello, provocava in lui quella stessa sensazione di calore a serpeggiargli sotto la pelle; e infine aveva imparato che sovrapporre i vari colori era troppo faticoso, rispetto al semplice uso del carboncino o della matita nera.

La sua stanza era il suo nascondiglio, il luogo in cui tutto il suo estro fluido colava in fiotti di improvvisa ispirazione, pazzoide, eppure ben dosata in ogni tratto della matita nera che scorreva sul foglio; Sasuke non aveva bisogno di studiare paesaggi o di osservare figure umane per poterli ritrarre: il suo modello era vivido nella sua mente, dove poteva fargli assumere qualsiasi espressione, qualsiasi atteggiamento, qualsiasi posizione egli desiderasse, plasmando tra le dita affusolate della propria fantasia quel corpo meraviglioso, quelle membra scolpite, quel viso impenetrabile e fiero, così familiari eppure così distanti, irraggiungibili, inafferrabili.

Sul foglio candido ciò che la sua mente riproduceva in scorrimento lento, come una pellicola impressionata, veniva proiettato nei movimenti prima leggeri e poi repentini della sua mano esperta: linee aperte, spezzate, tratteggiate, chiuse, ricalcate prendevano sempre, inesorabilmente, man mano, le sembianze di lui.

Di suo fratello.

Di Itachi.

Il suo modello, ritratto in nero.

 

Linee nere si intrecciavano per dare alla fine il medesimo risultato, come tutte le volte precedenti in cui si era cimentato in quell’arte di fogli bianchi e colore nero.

Quando anche stavolta ebbe finito, indugiò a lungo con lo sguardo sulla sua opera completa, prima che la stessa, sordida parola sfuggisse in un sibilo appena percettibile alle sue labbra.

-Perché?

Un semplice e straziante interrogativo, che mormorò tra sé e sé, desiderando ardentemente di poter divenire d’un tratto anch’egli evanescente linea nera su un foglio immacolato: se fosse stato anche lui carboncino impresso sulla carta, liberandosi della propria scomoda pelle e della propria anima, allora era certo che non avrebbe mai provato tanta pena come in quel momento, quando le sue dita frenetiche si fecero strada in basso a slacciare la cintola dei jeans sdruciti che indossava.

Quando la mano fredda venne a contatto con la sua carne bollente, con l’altra mano premette contro le labbra, per impedire a quelle due parole di essere sprecate all’aria, contro un piatto disegno su un foglio.

Due parole.

Ti amo.

 

Sasuke era cresciuto, ormai non era più un bambino.

E tra tutte le cose che aveva imparato, alcune utili, altre meno, aveva anche imparato che quel calore che percepiva nel basso ventre quando Itachi gli dava con l’indice e il medio un colpetto sulla fronte, il battito veloce del suo cuore, che pareva in procinto di esplodere nel suo petto quando Itachi lo chiamava per nome, i sussulti che lo scuotevano ogni volta che Itachi lo guardava dal suo posto a tavola di fronte a lui, lo sperma che gocciolava lungo le sue gambe ogni volta al pensiero di come si sarebbe potuto sentire con il corpo nudo di Itachi che si muoveva sopra di lui, che tutto ciò non era altro che passione, desiderio, voglia incontenibile e sfrenata di darsi a lui, affinchè suo fratello potesse a sua volta trarre piacere dal suo corpo.

Aveva imparato che tutto ciò si chiamava amore.

Innamorato.

Ecco cos’era.

Mentre la sua mano continuava velocemente a muoversi su e giù e il piacere gocciolava in voluttuose stille in ogni meandro del suo corpo accaldato, per riversarsi all’esterno e macchiare il foglio sulla scrivania e la maglietta, Sasuke immaginò la sua anima come un pezzo di carta bianca, vergine, sul quale una dopo l’altra le tinte vivaci, e proibite, che il suo amore stava assumendo, si sovrapponevano in un rapido susseguirsi di colori brillanti, stratificandosi in una spessa patina, convergendo in quel tipico insieme di tutti i colori: nero.

 

Nero come l’amore peccaminoso, sporco, malato che, varcando la soglia dell’adolescenza, si era accorto di provare.

 

-Ti amo, Itachi.

 

Mormorò tra sé e sé fissando il calendario che, appeso al muro, penzolava laconico.

Mancavano pochi giorni al suo tredicesimo compleanno.

E avrebbe voluto trascorrerlo con lui, con Itachi.

Ma sapeva che non era possibile.

Itachi se ne era andato, di nuovo, lasciandolo solo a scivolare nelle nere lingue di fuoco del suo desiderio incestuoso.

 

 

 

 

 

 

[Com’era stato…]

 

 

 

 

 

Quel pomeriggio i sandali di gomma nera scricchiolavano quasi impercettibilmente, calpestando le foglie e i petali di ciliegio: sembrava che un soffice tappeto fosse stato disposto apposta per lui, indicandogli la strada verso casa, che quel giorno anziché sembrare accorciarsi, passo dopo passo, sembrava allungarsi sempre di più, inesorabilmente.

A scuola era stata una giornata pesante, malgrado anche stavolta Kakashi sensei non si fosse risparmiato i continui complimenti per il suo studente migliore, tra l’invidia e gli sguardi torvi dei suoi compagni di classe.

Sasuke tuttavia era diventato avvezzo a quel genere di elogi.

Tutto ciò che adesso gli premeva era di poter tornare a casa.

Da lui.

Dal suo tutto.

Dal suo niente.

Dal suo niisan.

Da Itachi.

La borsa di cuoio marrone, quel giorno, pareva pesare più del solito: la tracolla ruvida e grezzamente rifinita, attraverso la sottile stoffa scura della sua maglia, graffiava la pelle sudata della sua spalla, bruciando, ma non un’ombra di dolore si era dipinta sul volto fiero di Sasuke.

Si risistemò quello spietato fardello nel modo meno doloroso possibile, passandosi stancamente il dorso della mano sulla fronte accaldata, scostando dalla pelle umida i serici fili neri che vi erano rimasti incollati.

Affrettò il passo.

Tutto ciò che voleva era di poter varcare la porta di casa e trovare lì suo fratello, gettandogli le braccia al collo, ansioso di trascorrere un po’ di tempo con lui, desideroso che lo aiutasse coi compiti, o semplicemente che lo invitasse fuori, per godere del mielato sole pomeridiano; si sarebbe accontentato anche solo di un suo sorriso più unico che raro che Itachi riservava unicamente a lui, o che quelle due micce pallide e affusolate gli colpissero la fronte.

Il pensiero di stare con Itachi lo fece arrossire, e servì solo a farlo correre più veloce, malgrado l’afa, malgrado la spalla doloronte e il sudore che cominciava a colargli negli occhi.

Quando imboccò il viale residenziale di villette a schiera e intravide casa sua, quasi gli mancò il respiro: finalmente era arrivato ed ora aveva quasi paura di continuare a camminare.

Avanzò lentamente, come se quel tappeto rosato da un momento all’altro potesse cedere sotto il suo passo troppo pesante, facendolo scivolare nel mare di pece nera che ribolliva sotto quello strato ingannevole di foglie e fiori.

Si fermò davanti all’imponente cancello in ferro battuto davanti casa sua: deglutì nervosamente, prima di dischiuderlo adagio, malgrado il sordo stridìo metallico tagliò la silente quietudine di quel quartiere dalla troppa, ostentata opulenza.

Salì i pochi gradini che conducevano all’entrata, aprendo il pesante battente di legno scuro.

 

-Sono a casa!

 

Nessuna risposta.

Si guardò intorno, sebbene la penombra nell’ingresso gli impedisse di scorgere null’altro che il grande orologio a pendolo sulla parete di fronte a lui e il lungo specchio, nel quale intravide solo la propria immagine riflessa.

 

-C’è nessuno? Mamma…Papà?

 

Ancora una volta ottenne come risposta soltanto il silenzio.

Piegò il busto in avanti, per togliersi le scarpe, lasciando poi ricadere malamente la borsa sul pavimento, esausto.

Salì le scale e, dopo ogni gradino, quel fruscìo che gli era parso di sentire diventò sempre più vicino, sempre più nitido, sempre più reale.

Un barlume di speranza si riaccese quando, giunto sul pianerottolo, vide la porta della stanza di Itachi socchiusa e un’ombra che si mosse.

Lui era lì. Avrebbe voluto chiamarlo, ma la voce gli morì in gola.

Si fermò sulla soglia, senza emettere il minimo suono, e osservò.

Itachi era di spalle, solo un asciugamano di ciniglia bianca gli cingeva i fianchi stretti e i capelli, più neri dell’ossidiana brillante sotto il sole d’estate, erano sciolti e gocciolanti d’acqua: pareva molto indaffarato, ma attraverso quel sottile spiraglio, Sasuke non riusciva a vedere cosa stesse facendo.

Poi Itachi si voltò e prima che aprisse di nuovo l’armadio e frugasse tra i vestiti appesi lì tra lo sferragliare delle stampelle, Sasuke la vide.

Triste, spietata, nera.

Adagiata sul letto.

Una valigia.

Riuscì a stento a reprimere un lamento, e strizzando forte gli occhi corse via, senza neanche vedere dove stesse andando.

E così Itachi lo avrebbe abbandonato, di nuovo.

Se ne sarebbe andato, lasciandolo lì, da solo, in quella grande e vuota casa.

Chissà questa volta per quanto tempo: forse poche settimane, o forse due mesi, come l’ultima volta che era dovuto partire per affari da sbrigare per conto dell’azienda di suo padre.

Quando entrò nella sua stanza l’unica cosa che voleva era dormire.

E non svegliarsi più sino al suo ritorno.

Scivolando nel nero abisso della solitudine.

Al pensiero di lui.

Di Itachi.

 

Sasuke si era disteso sul letto, sfilandosi di dosso l’uniforme scolastica e tirando su il lenzuolo bianco, malgrado il caldo.

Ormai aveva deciso.

Non lo avrebbe salutato.

Non ce l’avrebbe fatta anche stavolta, almeno si sarebbe risparmiato le solite, blande raccomandazioni per i suoi studi e quell’insopportabile:

“Ora devo andare, sarà per la prossima volta, Sasuke”.

Testardo finse di dormire, quando ad un certo punto, sentì un rumore di passi e lo scatto della serratura; il rumore si fece sempre più vicino, finchè quell’evanescente presenza si fermò in punta di piedi proprio accanto al suo letto.

Sasuke potette inalare quel profumo, caldo e avvolgente: il suo profumo.

Nonostante stesse facendo uno sforzo immane per rimanere immobile e tenere le palpebre chiuse, senza tradire il suo stato di sonno apparente, respingendo l’impulso di abbracciarlo e dargli un bacio dell’arrivederci, Sasuke riuscì a sentire il battito frenetico del suo cuore galoppargli in gola, quando percepì che suo fratello non accennava a muoversi, rimanendo in piedi accanto alla sponda del letto.

Probabilmente lo stava osservando: chissà cosa pensava di lui…

Lo trovava carino?

Lo trovava… attraente?

Scacciò subito via quel pensiero.

Forse Itachi stava semplicemente meditando se svegliarlo o lasciarlo riposare.

Sasuke sentì il proprio cuore smettere di pompare il sangue nelle vene, facendolo gelare nel momento in cui avvertì le labbra morbide di Itachi toccargli, lambendola delicatamente, la guancia nivea, baciandola, continuando a sfiorararla con la bocca, mentre con le dita gli accarezzava l’altra; il suo respiro tiepido e umido gli aveva poi solleticato le ciglia, prima che lui sussurrasse contro le sue palpebre:

 

-Mi dispiace che tu adesso stia dormendo, ma sarà per la prossima volta, Sasuke. Ti prometto che tornerò presto, otouto. Arrivederci.

 

Lo baciò.

Lievemente, sulle labbra.

E in quell’istante a Sasuke sembrò di morire, anche se il suo orgoglio gli impedì di muoversi, come pietrificato da tutta quella dolcezza, una dolcezza traboccante d’amore, una dolcezza disperata.

 

Lo sentì allontanarsi da sé, fino a che la porta non si richiuse, lasciandolo solo. Solo.

 

Sasuke dovette combattere per non annegare la propria coscienza in quel fiume di passione dalle acque scure, dovette lottare ferocemente per tenere alto il capo e non lasciarsi trasportare dalla corrente selvaggia delle proprie emozioni, verso il nero oblio, che minacciava costantemente di sopraffarlo, di soffocarlo. Tenne a freno l’impulso di scrollarsi quell’inutile lenzuolo di dosso e corrergli dietro, anche solo per dirgli che era un idiota, che non sapeva niente di lui, che era solo un menefreghista, maledetto, bugiardo e che non credeva minimamente né alle sue scialbe, insipide promesse né al fatto che gli importasse davvero qualcosa di lui.

Quando si alzò, portandosi con passi lenti e calibrati, accanto alla finestra, scostò con le dita che ancora gli tremavano per ciò che dentro lo stava facendo morire, i pesanti drappi delle tende di velluto nero, solo per scorgere giù in strada un taxi giallo e Itachi che sistemava quella valigia poco ingombrante nel cofano, per poi richiuderlo e accomodarsi sui sedili posteriori, facendo cenno con la mano all’autista di andare e lasciando solo le foglie e i petali di ciliegio a svolazzare nell’aria viscosa, in un vortice desolato, dal sapore annacquato di solitudine.

Sasuke rimase a guardare l’auto che si allontanava lungo il largo viale di case basse e squadrate in fila regolare, fino a dileguarsi verso l’orizzonte sfumato, con un nodo in gola che faticava a sciogliersi.

Cercò di ingoiare quel fastidioso groppo che gli rendeva difficile il respiro, prima di colpire con un pugno lo stipite della finestra, facendo tremare il vetro incrostato di pioggia caduta troppo tempo prima per potersene ricordare.

Idiota.

Menefreghista.

E in quel momento Sasuke seppe che, in realtà, il bugiardo era lui, non Itachi.

Bugiardo e ipocrita, per non essere stato in grado di diradare quell’alone nero che sapeva di peccato.

Ipocrita, perché ancora una volta, non aveva saputo fermarlo.

Bugiardo, perché ancora una volta, non aveva saputo dirgli la verità.

Bugiardo, maledetto bugiardo perché, anche stavolta, non aveva saputo dirgli ti amo.

 

 

 

 

 

 

 

[…e come avrebbe voluto che fosse.]

 

 

 

 

 

 

 

 

Quel pomeriggio i sandali di gomma nera scricchiolavano quasi impercettibilmente, calpestando le foglie e i petali di ciliegio: sembrava che un soffice tappeto fosse stato disposto apposta per lui, indicandogli la strada verso casa, che quel giorno anziché sembrare accorciarsi, passo dopo passo, sembrava allungarsi sempre di più, inesorabilmente.

A scuola era stata una giornata pesante, malgrado anche stavolta Kakashi sensei non si fosse risparmiato i continui complimenti per il suo studente migliore, tra l’invidia e gli sguardi torvi dei suoi compagni di classe.

Sasuke tuttavia era diventato avvezzo a quel genere di elogi.

Tutto ciò che adesso gli premeva era di poter tornare a casa.

Da lui.

Dal suo tutto.

Dal suo niente.

Dal suo niisan.

Da Itachi.

La borsa di cuoio marrone, quel giorno, pareva pesare più del solito: la tracolla ruvida e grezzamente rifinita, attraverso la sottile stoffa scura della sua maglia, graffiava la pelle sudata della sua spalla, bruciando, ma non un’ombra di dolore si era dipinta sul volto fiero di Sasuke.

Si risistemò quello spietato fardello nel modo meno doloroso possibile, passandosi stancamente il dorso della mano sulla fronte accaldata, scostando dalla pelle umida i serici fili neri che vi erano rimasti incollati.

Affrettò il passo.

Tutto ciò che voleva era di poter varcare la porta di casa e trovare lì suo fratello, gettandogli le braccia al collo, ansioso di trascorrere un po’ di tempo con lui, desideroso che lo aiutasse coi compiti, o semplicemente che lo invitasse fuori, per godere del mielato sole pomeridiano; si sarebbe accontentato anche solo di un suo sorriso più unico che raro che Itachi riservava unicamente a lui, o che quelle due micce pallide e affusolate gli colpissero la fronte.

Il pensiero di stare con Itachi lo fece arrossire, e servì solo a farlo correre più veloce, malgrado l’afa, malgrado la spalla doloronte e il sudore che cominciava a colargli negli occhi.

Quando imboccò il viale residenziale di villette a schiera e intravide casa sua, quasi gli mancò il respiro: finalmente era arrivato ed ora aveva quasi paura di continuare a camminare.

Avanzò lentamente, come se quel tappeto rosato da un momento all’altro potesse cedere sotto il suo passo troppo pesante, facendolo scivolare nel mare di pece nera che ribolliva sotto quello strato ingannevole di foglie e fiori.

Si fermò davanti all’imponente cancello in ferro battuto davanti casa sua: deglutì nervosamente, prima di dischiuderlo adagio, malgrado il sordo stridìo metallico tagliò la silente quietudine di quel quartiere dalla troppa, ostentata opulenza.

Salì i pochi gradini che conducevano all’entrata, aprendo il pesante battente di legno scuro.

 

-Sono a casa!

 

Nessuna risposta.

Si guardò intorno, sebbene la penombra nell’ingresso gli impedisse di scorgere null’altro che il grande orologio a pendolo sulla parete di fronte a lui e il lungo specchio, nel quale intravide solo la propria immagine riflessa.

 

-C’è nessuno? Mamma…Papà?

 

Ancora una volta ottenne come risposta soltanto il silenzio.

Piegò il busto in avanti, per togliersi le scarpe, lasciando poi ricadere malamente la borsa sul pavimento, esausto.

Salì le scale e, dopo ogni gradino, quel fruscìo che gli era parso di sentire diventò sempre più vicino, sempre più nitido, sempre più reale.

Un barlume di speranza si riaccese quando, giunto sul pianerottolo, vide la porta della stanza di Itachi socchiusa e un’ombra che si mosse.

Lui era lì. Avrebbe voluto chiamarlo, ma la voce gli morì in gola.

Si fermò sulla soglia, senza emettere il minimo suono, e osservò.

Itachi era di spalle, solo un asciugamano di ciniglia bianca gli cingeva i fianchi stretti e i capelli, più neri dell’ossidiana brillante sotto il sole d’estate, erano sciolti e gocciolanti d’acqua: pareva molto indaffarato, ma attraverso quel sottile spiraglio, Sasuke non riusciva a vedere cosa stesse facendo.

Poi Itachi si voltò e prima che aprisse di nuovo l’armadio e frugasse tra i vestiti appesi lì tra lo sferragliare delle stampelle, Sasuke la vide.

Triste, spietata, nera.

Adagiata sul letto.

Una valigia.

Riuscì a stento a reprimere un lamento, e strizzando forte gli occhi corse via, senza neanche vedere dove stesse andando.

E così Itachi lo avrebbe abbandonato, di nuovo.

Se ne sarebbe andato, lasciandolo lì, da solo, in quella grande e vuota casa.

Chissà questa volta per quanto tempo: forse poche settimane, o forse due mesi, come l’ultima volta che era dovuto partire per affari da sbrigare per conto dell’azienda di suo padre.

Quando entrò nella sua stanza l’unica cosa che voleva era dormire.

E non svegliarsi più sino al suo ritorno.

Scivolando nel nero abisso della solitudine.

Al pensiero di lui.

Di Itachi.

 

Sasuke si era disteso sul letto, sfilandosi di dosso l’uniforme scolastica e tirando su il lenzuolo bianco, malgrado il caldo.

Ormai aveva deciso.

Non lo avrebbe salutato.

Non ce l’avrebbe fatta anche stavolta, almeno si sarebbe risparmiato le solite, blande raccomandazioni per i suoi studi e quell’insopportabile:

“Ora devo andare, sarà per la prossima volta, Sasuke”.

Testardo finse di dormire, quando ad un certo punto, sentì un rumore di passi e lo scatto della serratura; il rumore si fece sempre più vicino, finchè quell’evanescente presenza si fermò in punta di piedi proprio accanto al suo letto.

Sasuke potette inalare quel profumo, caldo e avvolgente: il suo profumo.

Nonostante stesse facendo uno sforzo immane per rimanere immobile e tenere le palpebre chiuse, senza tradire il suo stato di sonno apparente, respingendo l’impulso di abbracciarlo e dargli un bacio dell’arrivederci, Sasuke riuscì a sentire il battito frenetico del suo cuore galoppargli in gola, quando percepì che suo fratello non accennava a muoversi, rimanendo in piedi accanto alla sponda del letto.

Probabilmente lo stava osservando: chissà cosa pensava di lui…

Lo trovava carino?

Lo trovava… attraente?

Scacciò subito via quel pensiero.

Forse Itachi stava semplicemente meditando se svegliarlo o lasciarlo riposare.

Sasuke sentì il proprio cuore smettere di pompare il sangue nelle vene, facendolo gelare nel momento in cui avvertì le labbra morbide di Itachi toccargli, lambendola delicatamente, la guancia nivea, baciandola, continuando a sfiorararla con la bocca, mentre con le dita gli accarezzava l’altra; il suo respiro tiepido e umido gli aveva poi solleticato le ciglia, prima che lui sussurrasse contro le sue palpebre:

 

-Mi dispiace che tu adesso stia dormendo, ma sarà per la prossima volta, Sasuke. Ti prometto che tornerò presto, otouto. Arrivederci.

 

Lo baciò.

Lievemente, sulle labbra.

 

A Sasuke sembrò di morire quando, completamente succube e avvinto a quella bocca che lo stava baciando con tanta dolcezza, rispose con tanta passione, tanto ardore, aprendo leggermente gli occhi vitrei per il piacere che lo logorava in ogni fibra del suo corpo, solo per scivolare nel nero degli occhi di lui.

Gli occhi neri di Itachi.

-Nii-san…

Gemette quando Itachi arretrò, fissandolo intensamente e facendolo scuotere tutto, facendolo sciogliere nelle fiamme nere di quell’amore violento, proibito, impetuoso del quale inesorabilmente stava consumandosi.

Rimasero così, a guardarsi negli occhi per un tempo indefinito, scivolando ciascuno negli occhi neri dell’altro, mentre un filo di saliva ancora congiungeva le labbra gonfie per il bacio di Sasuke a quelle di suo fratello.

-Perdonami, otouto. Non intendevo svegliarti.

Itachi si alzò e fece per andarsene, quando Sasuke, gettando via malamente il lenzuolo che lo copriva, lo afferrò per la manica della giacca scura che indossava.

Itachi si voltò di scatto, guardandolo interrogativo.

-Volevi andartene senza salutarmi?

Lo incalzò Sasuke, mentre un rossore diffuso gli tingeva le guance pallide.

-Non dire così. Eri tu che volevi che me ne andassi senza salutarti. Mi sbaglio forse, Sasuke?

Come faceva a conoscerlo così bene, Sasuke non riusciva a capirlo.

-Ma non è vero!

-Non fare l’ipocrita Sasuke. E non essere bugiardo, lo sai che con me non funziona.

Lasciò andare la manica, rimanendo in ginocchio sul letto, con indosso solo i boxer, eppure non provando vergogna davanti a lui, continuando a guardarlo, non sapendo bene come continuare.

-Io non…E’ vero, non volevo.

Disse infine, con una punta di rammarico per non essere stato in grado di dire, in quella frase, tutto ciò che realmente avrebbe voluto dirgli.

-Hai visto? Avevo ragione anche stavolta. Ma è normale che tu non voglia, dopotutto sono tuo fratello maggiore e lo so che tu mi odi.

A Sasuke non sfuggì la provocazione insita in quella frase e afferrandogli la mano, la portò verso di sé, facendogliela poggiare sul proprio petto.

-Ti sbagli, Itachi! Lo sai che non ti odio…Itachi…io ti a…

Non riuscì a finire quella frase proibita sfuggita alle sue labbra, subito trascinate in un bacio famelico, impetuoso, profondo e bagnato; gli prese la mano, guidandola in basso mentre continuava a ricambiare il suo bacio, fermandosi all’orlo dei boxer di cotone.

-Anche io, Sasuke.

La mano più grande allentò le cintola dei boxer, insinuandosi oltre, mentre Sasuke sospirava dolci, innocenti, proibite parole.

-Toccami, nii-san…Toccami.

-Cosa vuoi Sasuke?

Gli domandò con un sorriso malizioso a piegargli gli angoli della bocca, prima di scendere a baciargli e mordicchiargli il collo latteo.

-Voglio…

Esitò per un fugace istante, mentre il piacere lo invadeva a ondate per il tocco di quelle dita che, continuando a vezzeggiarlo, gli sfilarono via lungo le gambe l’unica cosa che indossava.

-Voglio che rimani qui. Con me.

 

 

[Voglio che…]

 

[…Mi scivoli dentro]

 

 

 

 

Per una volta, una volta sola nella sua vita, a Sasuke sarebbe piaciuto lasciarsi andare in quella pozza scura, nera macchia di ventidue colori sovrapposti del loro amore proibito.

Sarebbe stato un compleanno da ricordare.

Avrebbe ricevuto il regalo più bello.

Ne era certo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Nda: ho cambiato stile, differente ne? Spero che vi piaccia ragazzi, l’ho scritta con l’acqua alla gola in un periodo davvero molto turbolento, in cui sono oberata dal lavoro, dallo studio e impegni vari, sempre in giro.

Ma il tempo di scrivere Uchihacest non mi manca mai.

Complimenti anche alle altre partecipanti^^

Lo so, sono una yaoista senza speranze!!

   
 
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