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Autore: sofismi    03/02/2018    3 recensioni
"La musica continua imperterrita, non c'è niente che possa fermarla. Io intanto fumo, seduta sul pavimento incastrata tra la finestra e il mondo. Incastrata nel mio corpo, nella mia mente. Il fumo scappa attraverso la mia bocca, fuori dai polmoni, e guardandolo mi chiedo quando anch'io sarò in grado di fuggire così."
L'arte è ovunque, tutti riescono a percepirla, ma alcune persone sono più sensibili di altre e questo Madelaine lo ha capito. Se n'è resa conto una sera, fumando seduta sul pavimento di quella che - da quel momento in avanti - non sarebbe stata più la sua stanza, e ha trovato il coraggio per essere se stessa. Sarà un viaggio disturbato da turbolenze, tempeste, ma il vento la porterà sempre a casa.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Primo




Sono a casa da sola, spettinata e triste. Gli occhi sono stanchi di posarsi su qualsiasi oggetto e la testa è più pesante del solito. L’istinto che nasce normalmente, durante serate del genere, è quello di scappare dal mio corpo, e spesso lo faccio: con metodi non convenzionali ma necessari che mi permettono di vivere qualche ora di pace, nonostante l’odio che mi ritrovo a provare per me stessa il mattino quando mi sveglio. Stanotte, però, questo bisogno non è ancora arrivato. Sento il petto allagato di lacrime, le onde si infrangono sulle pareti interne del mio corpo per poi tornare nel cuore dell’oceano e ricominciare la corsa. Mi stropiccio gli occhi, come una bambina. E ho caldo ma sono già nuda, come una donna. È come se la mia intera esistenza non avesse senso, e in questi momenti sensazioni del genere di fanno più pesanti, moleste. Cerco di ripetermi che va bene così, che succede a tutti. Eppure non mi sento nemmeno più una persona, non sono sicura di essere mai stata un essere umano. Mi chiedo se non sia tutta una farsa, un’allucinazione di massa, una specie di simulazione creata da un sadico che beneficia della nostra sofferenza. La musica che sento mi dice di non preoccuparmi, che andrà tutto bene, che non sono sola. Ma non mi sento nella posizione di crederci, non è mai così. Chi nasce nel dolore, nelle cose strane e diverse, alla fine non ne esce mai. Siamo incastrati in realtà che ci costruiamo noi stessi, cantiamo per tutta la vita una melodia che è sempre quella, anche se a volte le parole cambiano. Io, con il passare degli anni, non mi sento cambiata, ma allo stesso tempo mi sento un’altra persona. Mi capita di non riconoscermi, di vedere il mio viso e non sentirlo mio. Mi capita di camminare e di chiedermi se anche gli altri a volte mi vedono con un viso, un corpo diverso. Però ho imparato che se una persona ti vede in un modo diverso da come era abituata è solo perché la sua percezione di te è cambiata. Noi non cambiamo fuori, cambiamo dentro noi stessi e dentro agli altri. Abbiamo mille maschere, ma non mille facce. Siamo mille sfaccettature viste da mille punti di vista diversi. Ma alla fine le nostre note sono quelle, e la melodia è la stessa.
La verità è che mi sento stressata, sotto pressione. Non so chi sono eppure vado avanti, ho un lavoro che non è il mio, un ragazzo che non fa per me, una casa che non mi appartiene. È come se mi fossi intrufolata nel corpo di un’altra persona e le avessi rubato la vita. Non ho ancora trovato un mio posto a cui appartenere e tutto ai miei occhi sembra sbagliato, perché non sono questi gli occhi che dovrebbero vedere queste cose.
Mentre la musica continua imperterrita fumo seduta sul pavimento, incastrata tra la finestra e il mondo. Incastrata nel mio corpo, nella mia mente. Il fumo scappa attraverso la mia bocca, fuori dai polmoni, e guardandolo mi chiedo quando anch’io sarò in grado di fuggire così. E la verità mi si rivela leggera, così leggera che sembra uno scherzo: subito, potrei fuggire subito, adesso, in questo istante. Lui dorme, la porta è aperta. Non ho sbarre né catene ad intralciarmi la strada, e allora perché non vado? Perché sono ancora qui? Potrei farlo, se volessi. Ma è proprio il fatto che so di volerlo davvero a fermarmi, a rendermi abbastanza perplessa da tentennare. Dovrei urlare “fanculo questa merda!” eppure non lo faccio, e vedo una me tra qualche anno: vecchia, frustrata, arrabbiata con il mondo anche se dovrebbe essere arrabbiata solo con se stessa per non aver avuto la forza e il coraggio di alzarsi da quel pavimento, quella notte, quando ne aveva la possibilità.
“Fanculo questa merda!” dico, buttando il mozzicone e alzandomi finalmente dal pavimento. Mi vesto velocemente ed esco e ciò che mi ritrovo davanti è il mondo intero, è la mia vita. E dentro sono io: reale, viva, nuova, pronta.
 

Dopo essere cresciuti nella convinzione di vivere in un mondo bellissimo veniamo buttati in una realtà che non ci aspettavamo, ci ritroviamo ad affrontare sfide che non ci immaginavamo. È come se, una volta adulti, venissimo portati su un altro pianeta. Ma quando si diventa adulti? Ho a malapena vent’anni, non so prendere decisioni, non so rapportarmi con gli altri, non so come funzionano l’economia o la politica, non sono responsabile, quasi non so vivere. Eppure tutto ciò è richiesto e preteso. E io mi ritrovo a non portare mai a termine nulla, mi impegno per ciò che mi interessa e poi abbandono, e mi sento una fallita. Quando ero piccola sono dovuta crescere in fretta, e adesso mi comporto come avrei dovuto comportarmi allora ma con il peso delle responsabilità sulle spalle. Sono una bambina intrappolata nel corpo di una donna, e mi sento sbagliata. E cammino su questo marciapiede da non so quanto tempo ormai, senza una meta. Ho abbandonato tutto come si fa con i giocattoli vecchi, e mi sono ritrovata con niente, se non le poche cose che ho infilato nella borsa, i miei ultimi spiccioli e qualche parola di una poesia di Whitman che mi ripeto nella testa per convincermi che vada bene così. Avvolta nel freddo dell’alba mi infilo nell’unico bar aperto in questo paesino sperduto e ordino un caffè. La borsa pesante di libri cade con un tonfo sul pavimento, e io, pesante di tristezza, mi lascio cadere sulla sedia, con la stessa energia della mia borsa. Il caffè è tremendo ma lo butto giù come se fosse necessario per la mia sopravvivenza - e in effetti lo è, dato che muoio di sonno - mentre cerco la poesia che mi si è incastrata tra i pensieri. “Oh me, oh vita. Domande come queste mi perseguitano,/ infiniti cortei d’infedeli, città gremite di stolti,/ che vi è di nuovo in tutto questo,/ oh me, oh vita!” Intanto il locale di riempie, la maggior parte sono pensionati ma c’è anche qualche ragazzo. Io osservo tutto dal mio tavolino nell’angolo, perseguitata da domande in una città gremita di stolti, senza trovare nulla di nuovo e diverso. “Risposta:/ che tu sei qui, che la vita esiste e l’identità,/ che il potente spettacolo continui,/ e che tu puoi contribuire con un verso.” Non so perché ma leggere queste parole mi rassicura, è come se il poeta mi avesse appena abbracciata dicendomi che va bene, che posso farcela. E io gli credo, e piano piano riprendo possesso del mio corpo e della mia mente. Adesso ciò che mi manca è un piano.
“Oh capitano, mio capitano!” dice una voce profonda dietro al mio libro. Un ragazzo mostruosamente alto è in piedi davanti a me, in una posa bizzarra quasi teatrale, e ride. Io, presa alla sprovvista, alzo uno sguardo stranito verso di lui e non dico una parola.
“Non potevo farne a meno, perdonami” dice continuando a sorridere, “adoro il vecchio zio Walt.”
“Già, vedo,” rispondo infastidita, “anche io.”
“Messaggio ricevuto, levo le tende,” mi dice con una voce molto più profonda di prima, “buona giornata!”
“Anche a te,” rispondo sorridendo con cortesia. È stato strano, breve ma intenso. Odio chi non si fa i fatti suoi, specialmente la mattina. Scrollo le spalle come per togliermi di dosso la presenza di tutte le persone che ho intorno e ritorno impaurita sui miei passi. E adesso cosa faccio? Devo trovare un posto dove dormire, e un lavoro magari. Qua non ho assolutamente nessuna possibilità di sopravvivenza, per avere una chance dovrei spostarmi verso la grande città, e volendo i soldi per un biglietto li ho, ma voglio? Sì, per forza. Devo. Ormai ne va della mia vita.
Esco dal bar con un biglietto di sola andata in mano, il sole appena sorto mi bacia la pelle e lo sento tiepido nonostante il venticello leggero dell’alba. Mi dirigo verso la fermata dell’autobus che fortunatamente non dista molto dal bar, però con la borsa pesante sulla spalla mi sembra un tratto interminabile. Ho paura perché non so cosa mi aspetta, ma sono contenta di lasciarmi la mia vecchia vita alle spalle. Questo sarà l’inizio, il mio inizio. Mentre cammino sorrido senza rendermene conto, mi sento leggera, libera. Finalmente, facendomi spazio tra la gente, vado a sedermi sulla piccola panchina sotto la tettoia della fermata. Borsa tra le gambe e biglietto tra le dita. Sono libera. 


  
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