N/A:
fic scritta per la quarta settimana del cow-t, prompt “un’altra possibilità”.
Non mi sentivo assolutamente pronta per scrivere su i7 ma poi è venuta fuori
una shot eterna.
La mia sicurezza sull’IC è relativa: in parte Yuki doveva per forza discostarsi
un minimo da com’è in game, a causa degli eventi; il resto però potrebbe essere
errore di chi si approccia per la prima volta, sì.
Ci sono TANTI riferimenti a Mechanical Lullaby (un biscottino se si individuano tutti(?)),
quindi sconsiglio la lettura senza una base di ML stesso, almeno a grandi linee.
Spoiler per i nomi reali di Yuki e Momo.
Il suono del violino riempie la stanza. In cuor suo, mentre
l’odore di fiori lo culla verso un sonno profondo insieme a una ninna nanna, e
un piccolo peso si poggia contro la sua spalla, sente che c’è qualcosa che non
vuole lasciar andare.
Ma quello è un sentimento troppo strano per essere compreso facilmente.
Lui non ha abbastanza tempo.
Yuki
sogna di rado. O, per meglio dire, è raro che ricordi cosa ha sognato una volta
sveglio. I suoi mondi onirici non sono mai stati molto vari, come se fossero
legati agli stessi elementi, obbligati ad attenersi a pochi dettagli e a
ripeterli per creare scenari diversi ma sempre, immancabilmente simili. A
volte, quand’era più giovane – l’ultimo anno della scuola media, sì – ci sono
state volte in cui ha faticato molto a distinguere i dettagli di alcuni sogni
dalla realtà. Si perdeva a guardare fuori dalla finestra e a volte gli sembrava
di vedere delle piccolezze, come una farfalla oppure un fiore particolarmente
bello e raro, che però non c’erano davvero. In altre occasioni lamentava una melodia
che gli rendeva difficile concentrarsi, convinto qualcuno abusasse dell’aula di
musica della scuola – ma andava a guardare, quando poteva, e non trovava mai
nessuno. Tanti episodi isolati che però, a lungo andare, si era ritrovato a
raccontare a qualcuno “che gli desse una mano”.
Aveva visto uno psicologo per la prima volta a metà del suo terzo anno delle
medie, e la prima cosa che quell’uomo gli aveva chiesto era stata: «Vedi mai
delle persone, oltre a delle cose, Yukito-kun?»
Gli aveva risposto di no. Non c’erano mai persone, solo piante (sono piante
che conosci?) oppure un insetto ogni tanto; sì, a volte c’era la musica (ho
saputo che da bambino suonavi il violino, ora hai smesso?), ma non gli
mancava suonare, non andava nell’aula con il pianoforte perché voleva
utilizzare lo strumento. Più passava il tempo, più ne parlava, meno Yuki
capiva; poi all’improvviso tutte quelle cose non erano più state nella realtà,
nella sua quotidianità. In compenso aveva iniziato a sognare ancora più spesso,
una matassa confusa di immagini e suoni in cui solo qualcosa ogni tanto
sembrava acquisire un colore e una forma precisa, un suono esatto in mezzo a
tanti rumori.
Così, al suo primo anno delle superiori e dopo diverse sedute, aveva smesso di
incontrare lo psicologo: tutti quei dettagli che si sovrapponevano alla sua
realtà non c’erano più – erano su un piano diverso, uno irreale, un mondo
onirico che nasceva e finiva con il sonno. Non c’era più ragione di andare.
Forse, aveva pensato, tutti avevano una cosa come quella: ricordi che non erano
davvero ricordi, solo strascichi di un riposo notturno che a volte sembravano
troppo reali. Aveva smesso di parlarne, aveva smesso anche di preoccuparsene,
prendendoli come venivano e quando venivano, solo per ciò che erano; e se ogni
tanto si svegliava con la sensazione che gli avessero strappato qualcosa di
importante, di un vecchio amico che partiva per non tornare più, di aver
dimenticato qualcosa di essenziale, ricacciava indietro tutto oppure lo
lasciava lì, a galleggiare nella sua mente e ad appesantirgli il cuore finché
non scivolava via e lo liberava. La maggior parte delle volte funzionava, tutto
se ne andava veloce e improvviso così com’era arrivato.
Il punto, però, è che non è mai sparito del tutto.
Non sa da
quanto stia davvero osservando la finestra, le gocce di pioggia che si
abbattono sul vetro in un rumore vago e rilassante, uno scorcio di cielo grigio
tra le tende quasi del tutto tirate. Si è svegliato da poco, ma tra la fatica
che fa a prendere coscienza del mondo che lo circonda e l’indolenza del brutto
tempo a fargli da coperta, è abbastanza sicuro siano almeno dieci minuti che
guarda lì fuori, riuscendo a intravedere poco e nulla del mondo al di là del vetro.
Contrariamente al solito, la sua mente sta lavorando in maniera febbrile, nel
disperato tentativo di tenere a mente la melodia che è sicuro di aver sentito
nel suo sogno; ha ancora addosso la sensazione di qualcosa di conciliante ma,
al tempo stesso, di doloroso e sa per certo che la melodia è la chiave di
tutto, è sicuro ci fosse una musica di qualche tipo. Ma è come un nome
incastrato sulla punta della lingua, e lui si illude: se riuscisse a non
focalizzarsi su nulla, a guardare senza vedere, se concentrasse tutti i suoi
sensi solo verso il disperato tentativo di cogliere quel qualcosa (sta
scappando, la sente, sta scivolando via di nuovo) potrebbe farcela questa
volta. Potrebbe non essere più solo nella sua testa, ma fuori, reale, vera.
Il fruscio delle lenzuola è tutto ciò che ci vuole, insieme a una mano che
scivola sui suoi fianchi fino a cingerli in un abbraccio morbido, pigro. Accade
in un secondo: la presenza di Banri diventa l’unica
cosa concreta, e tutto ciò che di astratto esiste al mondo sparisce.
È come
percepire di nuovo qualcosa per la prima volta da quando è andato a dormire: sente
il calore del corpo di Banri contro il suo, vede
lo scorcio di paesaggio fuori dalla finestra. La mano di Banri
non cerca un contatto intimo, ma si poggia sul suo stomaco come se – stringendo
il suo corpo contro il proprio – riuscisse a proteggerlo. Per qualche istante,
quello è l’unico vero contatto tra loro: la schiena di Yuki contro il petto del
ragazzo dietro di lui, entrambi sotto le coperte.
«Tutto bene?» gli sente pronunciare in un mormorio, perché è così vicino che
per farsi sentire non ha bisogno di alzare la voce. Yuki indugia per un attimo,
come se il passaggio dall’illusione al reale lo confondesse a tal punto da
rendergli difficile focalizzarsi sulle cose. Annuisce piano, gli occhi azzurri
ancora sulla pioggia. Si lascia scappare solo un mormorio di assenso tra le
labbra, sentendo quelle di Banri sul collo, un bacio
leggero che sembra volerlo consolare.
«Incubo?» gli sente domandare, sapendo bene che in realtà quella sola parola
significa un ben più articolato “hai di nuovo fatto qualche sogno strano?”
che, a sua volta, è il modo premuroso in cui Banri
gli chiede se il problema che ha da sempre c’è ancora, se lo ha turbato, se ha
bisogno di qualcosa di specifico o se possono restare solo così, in un mezzo
abbraccio sotto le coperte.
Banri è stato la prima persona a cui ha detto dei
sogni di sua spontanea volontà. Si sono avvicinati per caso, si sono legati in
un modo che per Yuki ha rappresentato una prima volta in tutto e per tutto, e a
un certo punto glielo ha detto e basta.
«Faccio dei sogni, non proprio ricorrenti» ha ammesso senza guardarlo, cercando
fuori dalla finestra della loro classe un segno di qualcosa, quasi nella
speranza di potergli mostrare una prova concreta di quel che lo rendeva strano
«prima quello che sognavo si trascinava fuori.»
«Fuori come?»
«Pensavo di sentire un odore, o dei suoni, e invece non erano davvero lì.»
«Erano quelli che sognavi?»
«Mh.»
«Ti succede ancora?» gli ha chiesto Banri, e solo
allora Yuki lo ha guardato, ha cercato sul suo viso tutte le cose negative che
invece avrebbe voluto rifuggire, forse convinto che aspettandosele in partenza
avrebbe reso meno doloroso trovarle davvero. Banri lo
guardava, serio: gli occhi chiari su di lui, in attesa e in ascolto, senza
prese in giro a baluginargli nello sguardo in attesa del momento opportuno per
dar loro voce e prendersi gioco di lui.
«No.» gli ha detto, buttando fuori tutta l’aria in una sola sillaba, come se in
quel “no” sperasse di lasciar andare la frustrazione, l’angoscia, e forse anche
la paura «Però li sogno ancora.»
Banri è rimasto, sempre. Nella semplicità con cui
sembra rapportarsi anche alle cose più strane di lui, Yuki ha imparato nel
tempo a leggere – invece – un complesso e articolato modo di preoccuparsi del
prossimo senza pesare su quest’ultimo. Parte di lui non vuole pensare nemmeno
adesso che Banri gli sia così vicino (non come amico,
ma come uomo) per un senso del dovere, perché pensi che altrimenti Yuki
cadrebbe su se stesso, pezzi sparsi che non verrebbero
raccolti da nessuno. Sa che Banri è diverso. Sa che
se non avesse provato qualcosa – cosa, a volte, Yuki non è certo di saperlo –
avrebbe posto un limite tra di loro, una linea invisibile oltre la quale non
andare mai; probabilmente Banri è quel tipo di
persona troppo coscienziosa per non capire quando un suo atteggiamento rischia
di creare una dipendenza pericolosa, controproducente, di come poi le buone
intenzioni possano ferire, se gestite nel modo sbagliato. È stato il senpai ben voluto
da tutti a scuola, visto come un principe azzurro dalle ragazze e quel punto
fermo capace di essere di supporto senza chiedere niente in cambio, senza quasi
far notare di essere proprio lui, il cardine di un mondo che gli gira intorno,
per quanto piccolo e limitato a un’aula questo possa essere.
Nel modo in cui lo stringe a sé, Yuki non sente la possessività di una coppia,
ma più la protezione per le cose preziose e quella sensazione crea una bolla di
calore dentro di lui, tenuta e nutrita con cura e attenzione; non rischia mai
di esplodere, ma nemmeno si raffredda, ferma nel tepore ideale per sentirsi
parte di qualcosa di bello ma senza la paura che quel qualcosa diventi enorme e
ti consumi. L’abbraccio di Banri, il modo in cui le
labbra si posano sul suo collo o sulla sua testa per lasciare baci leggeri,
sono la confortevole sicurezza in un mondo che a volte Yuki pensa potrebbe
perdere, al suo risveglio.
«Sono solo le sei.» sussurra Banri tra i suoi
capelli, nel tono ancora lo strascico del sonno «Puoi dormire ancora un po’, ho
la sveglia puntata.» aggiunge, l’ennesima premura di fronte alla fatica che fa
a svegliarsi. Yuki non deve nemmeno pensarci davvero, mentre piano si gira nel
suo abbraccio e affonda la faccia contro il suo collo, inspira in silenzio, a
occhi chiusi. Non è “l’odore di Banri”, ma è odore di
buono, è familiare e lo conosce bene. Lo fa stare bene.
È lì. O almeno, Yuki spera davvero che sia lì e che non sia un dettaglio troppo
reale di un mondo che non esiste.
Nonostante gli odori e i suoni fossero già relegati alla fase del sogno, cosa
che gli aveva permesso di interrompere le (poco utili) sedute dallo psicologo,
Yuki aveva portato con sé l’abitudine di cercarne la traccia in ciò che lo circondava,
per rassicurare se stesso di non essere un pazzo
visionario e che quelle cose – qualunque cosa fossero – non stessero lì, in
agguato, aspettando solo il momento propizio per rifarsi avanti e distruggere
le sue convinzioni di stare bene.
Era stato così che aveva conosciuto Banri al suo
primo anno di liceo: poco propenso al rendersi per forza simpatico a tutti,
ancora perso nella ricerca di una stabilità sensoriale tutta sua, Yuki era lo
studente – di certo nella sua classe, ma anche in senso più generale – che se
ne stava abbastanza sulle sue da non far parte di un gruppo in particolare, ma
non al punto da essere preso di mira. Tendeva a sparire durante la pausa
pranzo, a volte con la scusa delle belle giornate per uscire nel cortile e
altre per sparire ingoiato dai troppi corridoi pieni di troppe persone. Così
una volta aveva lasciato che i suoi piedi lo guidassero fino all’aula di musica
della nuova scuola e per un istante, sentendo qualche nota sconnessa venire
dall’interno, il cuore gli era finito in gola e la mano che aveva allungato per
aprire la porta aveva tremato.
All’interno c’era Banri: quando Yuki si era piazzato
sulla soglia e aveva guardato nella stanza – aspettandosi qualcuno di
conosciuto, e trovando invece i lineamenti di un estraneo –, Banri aveva alzato lo sguardo dal pianoforte a lui, un dito
che ancora faceva pressione su uno dei tasti bianchi, la nota già persa in un
rinnovato silenzio. Non si erano mai visti prima ma, nonostante quello, Barni
gli aveva rivolto un sorriso cortese, di quelli mai troppo sbilanciati perché
non ci si conosce affatto e non si sanno le intenzioni della persona che si sta
guardando negli occhi; però c’era anche una sfumatura di gentilezza naturale,
sul viso di quel ragazzo, qualcosa da cui Yuki si era sentito accolto e che per
la prima volta lo aveva fatto sentire in un imbarazzo poco familiare.
«Ciao, devi usare l’aula?» erano state le parole che gli aveva rivolto Banri, mentre lui sentiva se
stesso scuotere il capo lentamente, un po’ come se il suo corpo si stesse
muovendo per i fatti suoi e lui fosse solo una presenza lì dentro, capace di
percepire buona parte delle azioni ma non di controllarle.
«Ah» aveva proseguito in un secondo momento «sei del primo anno.» era stato il
suo commento, privo di alcuna malizia o derisione; solo allora Yuki aveva
notato lo stesso dettaglio che doveva aver suggerito la sua classe a Banri: la cravatta appena allentata al collo dell’altro era
rossa. Secondo anno.
«Ogami Banri.»
«...Ah.» non una delle sue reazioni più brillanti, no «Orikasa
Yukito.»
«Orikasa-kun, sei impegnato ora?»
La prima cosa che Yuki aveva imparato ad apprezzare di Banri
era stata la voce.
Dopo il primo incontro nell’aula di musica, quella stanza era diventata un po’
il loro punto di ritrovo, non poi così segreto visto che era alla portata di
chiunque passasse di lì, ma silenzioso abbastanza e poco frequentato tanto da
garantire loro un posto per parlare senza il chiasso del cortile o il caldo
afoso dell’estate a fare da fastidiose interruzioni. Banri
era gentile proprio com’era sembrato la prima volta, cortese con discrezione,
mai fuori posto; e riusciva a far sentire giusto anche Yuki, anche quando il
vento portava dentro l’aula profumo di fiori durante la primavera e lui temeva
di riconoscerne uno che non c’era davvero e aveva l’istinto di alzarsi e
chiudere la finestra (ma non poteva, non c’era un vero motivo per farlo
dopotutto). Parlavano di musica, principalmente: mai di quella che Yuki
aveva sentito per un periodo nella sua testa e che adesso lo cullava nei sogni,
ma di quella a cui chiunque può dare ascolto con un paio di cuffie o un
computer a portata di mano. A Banri aveva anche detto
di aver preso qualche lezione da bambino, e lui gli aveva proposto
scherzosamente di suonare insieme.
«Non ricordo più granché. Dicono che ho insistito tanto per imparare, ma che ho
smesso quasi subito.»
«Però la musica ti piace ancora, giusto?»
Quanto sarebbe stato difficile spiegare che forse la musica non gli piaceva
davvero, forse cercava solo di avvicinarsi a una delle poche cose che ricordava
(in maniera molto confusa) dei suoi sogni? Banri
forse non lo avrebbe giudicato, aveva pensato, o almeno non sarebbe andato in
giro a dire quanto lui fosse un tipo strano. Ma se pensava a se stesso mentre
rivelava una cosa come quella, Yuki sentiva un peso immenso e non riusciva a
comprendere appieno se fosse la paura del giudizio o la paura che detto ad alta
voce suonasse folle e irreale persino a lui.
«Mh.»
«Allora tieni.» gli aveva detto, frugando nella tasca dei pantaloni e allungandogli
un pezzo di carta piegato a metà; aprendolo Yuki aveva riconosciuto un ticket,
di quelli delle live house che ospitavano le esibizioni di gruppi minori e
amatoriali, band che facevano musica con il sogno di sfondare ma la
consapevolezza di quanto fosse difficile farlo. Sul ticket c’era scritto il
luogo, l’orario e c’era la parte tratteggiata da strappare per la consumazione
gratuita.
«Hai una band?»
«No, suono da solo. Al posto di un gruppo che non può più andare. Un amico
suona con gli amici, si sono ritrovati con un’esibizione in meno all’ultimo
secondo, così mi ha chiesto di riempire il vuoto. Pochi minuti, niente di che.
Se vieni, però, mi fa piacere. E poi ci sono gruppi davvero bravi, a te la
musica piace, quindi...» aveva spiegato, e Yuki per la prima volta in assoluto
non si era perso a guardare in una direzione vaga, alla ricerca di qualcosa di
imprecisato e improbabile. Si era soffermato sul viso di Banri,
sulla punta d’impaccio che si notava nel suo spostare lo sguardo in
continuazione sul pianoforte dell’aula e nelle dita che sfioravano i tasti
senza suonarli, come se dovesse solo togliere la polvere da sopra di essi. E
poi aveva visto spuntare, vincendo l’imbarazzo di chi è poco portato a vantarsi
dei suoi meriti, la gioia di quando si parlava di qualcosa che piaceva
abbastanza da non volersene distaccare mai. La voce di Banri
tremava appena, una cosa impercettibile se non ci si faceva caso di proposito,
troppo emozionato nell’invitare qualcuno di persona, o di osare farlo in
generale come se fosse una cosa di grande importanza – o forse, ma Yuki ci
avrebbe pensato solo più in là, l’emozione di invitare proprio lui.
«Ci vengo.» si era ritrovato a rispondere ancora prima di considerare se
sarebbe stato libero per farlo, perché in quel momento pensare di negare a Banri la sua presenza era stato insopportabile.
«Davvero?»
«Sì. Fai le prove qui?»
«Non faccio le prove, di solito, perché non mi esibisco.» aveva detto con un
sorriso leggero, divertito all’idea di essere preso per un professionista che
non era a diciassette anni e non sarebbe stato nemmeno dopo «Ma sì, ogni tanto.
Solo per stavolta.»
«Fammi sentire.»
«Ma così ti rovini la sorpresa.»
«No.» gli era uscito anche troppo brusco «Cioè, forse.» e Banri
aveva riso «Però ci saranno altre persone, e la musica. Poi magari quella sera
non ti sento bene, Banri.»
«Ma ci sono le casse, certo che mi sentirai.»
«Non posso, prima?»
Banri lo aveva guardato, un po’ incredulo di fronte a
tutta quella testardaggine – come se non l’avesse realizzata prima, e forse era
possibile perché anche se parlavano di continuo da mesi ogni volta che
potevano, Yuki ascoltava per lo più e interveniva dove serviva – alla fine si
era arreso.
«Solo un pezzetto.» aveva concesso.
In quell’aula e in quel preciso giorno Yuki si era detto che sarebbe stato
bello se in futuro, svegliandosi da uno dei suoi sogni strambi, gli fosse
rimasto un ricordo preciso della voce che ogni tanto gli parlava e che gli
sembrava sempre essergli tanto cara.
Sarebbe stato bello riconoscere in quel ricordo la voce di Banri.
Banri non smette di stringerlo anche quando Yuki si
gira verso di lui. Gliene è grato, ma rimane comunque
in silenzio – sa che Banri alle sue poche parole è
abituato, legge interi discorsi nelle sue pause, nel modo in cui irrigidisce le
spalle e aggrotta le sopracciglia. Vede in poche espressioni più di quanto Yuki
sarebbe mai in grado di descrivere con tutte le definizioni del mondo.
A volte gli manca, non suonare più, non aver assecondato quel capriccio
dell’infanzia; si chiede se spiegare tutto quello che sente dentro sarebbe più
facile, se solo la musica facesse da tramite per tutte quelle parole così
pesanti, così soffocanti a cui si arrende giorno dopo giorno.
«Yuki?»
«Mh?»
«Vuoi che andiamo da qualche parte?»
Sa bene che oggi Banri ha lezione all’università dalle
undici in poi e che è pienamente cosciente di come questo sia, per Yuki,
l’ultimo anno delle superiori. Banri è l’affidabilità
tra loro due, il ragazzo assennato che porta sulla buona strada; certo ha il
suo carattere, la sua testardaggine – ma se non l’avesse, Yuki dubita che
riuscirebbero davvero ad avere un rapporto di qualche tipo – ma riesce a
renderli poco meno di un pregio anziché un tremendo difetto. Sentirlo proporre
di ignorare i loro doveri di studenti per qualcosa di non programmato porta
Yuki ad alzare gli occhi, a cercare quelli dell’altro. Incontra prima il suo
sorriso (le sue labbra) e poi il resto.
«Da qualche parte dove…?»
«Non lo so, dove vuoi. Ma possiamo anche restare a casa, se preferisci.»
Sarebbe bello, con la pioggia fuori di cui non preoccuparsi: restare lì sotto
le coperte, inglobati da una sfera invisibile che li protegge dal resto del
mondo, quello che se non lo incontri allora non devi temerlo; se lo lasci fuori
dalle quattro mura in cui ci si rinchiude, quello non esiste più e non può
toccare, o ferire, o dire che tutto quello che si considera reale non lo è.
La live house era insopportabilmente calda, quando Yuki ci aveva messo piede;
anche fuori l’aria era umida, ma era stato come entrare dentro una sauna e per
un breve istante aveva avuto l’istinto di uscire e tornare indietro. Si era
invece obbligato a muovere passi in avanti, non molta strada considerata la
ragazza che strappava i ticket a quelli davanti a lui, augurandogli buon divertimento.
Le aveva allungato il proprio in silenzio, puntando gli occhi azzurri altrove
anche se aveva sentito lo sguardo di lei su di sé – mi raccomando, ai
minorenni diamo solo analcolici, non provare a fregare il barista okay? – e
aveva annuito distrattamente prima di muoversi verso il palco. Aveva guardato
artisti su artisti alternarsi su di esso, per tutta la sera: alcuni davvero
bravi, altri mediocri, altri con una musica che avrebbe quasi definito volgare
per i suoi gusti. E poi era salito Banri, annunciato
dalla band che si era appena esibita – forse quella del suo amico – e il
contrasto era stato quasi immediato. Non era stata solo questione di uno al
posto di quattro, di un’esibizione semplice rispetto a una più articolata: la
voce di Banri, accompagnata da un solo strumento, lo
aveva colpito come uno schiaffo. Era stata una sensazione simile a qualcuno che
lo scuoteva per riportarlo con i piedi per terra, con la mente a quell’esatto
luogo e quell’esatto momento; qualcuno che gli diceva che doveva assolutamente
essere lì ora, per Banri, per se
stesso, perché se avesse perso quell’istante di tutta una vita allora il resto
della vita non sarebbe servita a niente. Per la prima volta dopo tanti anni
Yuki si era sentito concreto, come non era mai riuscito a sentirsi, con
la mente persa in luoghi lontani e pieghe del tempo imprecise.
Alla fine della canzone gli applausi avevano riempito l’aria, ma Yuki non si
era unito, non aveva battuto le mani; aveva invece seguito la figura di Banri ringraziare e poi chiamare su i
prossimi della scaletta, prima di ritrovarsi ad andargli dietro anche con i
piedi e non solo con lo sguardo, passare tra le persone e raggiungere il
backstage. Non era stato facile passare – non che ci fossero ospiti troppo
famosi, ma facevano comunque attenzione a chi lasciar entrare e chi no – ma poi
Banri lo aveva visto, aveva alzato un braccio verso
di lui, assicurando che lo conosceva, chiedendo di lasciarlo avanzare. Così
Yuki aveva coperto quella distanza come se fosse infinita e non riuscisse a
respirare senza condividere l’aria con Banri. E a
quel punto, solo allora, aveva compreso quanto Banri
fosse la sua àncora: lui era reale, non è era né un odore fittizio né un suono
perso da qualche parte e che faticava a ritrovare. Banri
era lì, poteva toccarlo (sembrava sorpreso di sentirsi prendere un braccio e
tirare via), poteva parlare con lui («Era bella.» «La canzone?» «La tua
voce.»), poteva guardarlo ed essere sicuro che anche dopo essersi svegliato
la mattina dopo si sarebbe ricordato di lui.
«Yuki, dove stiamo andando?» glielo aveva chiesto con una risata malcelata
nella voce, e Yuki avrebbe voluto potergli rispondere ma non lo sapeva, e non
solo perché non aveva mai visto prima quel backstage. Così si era fermato di
botto e lo aveva guardato, perso; Banri doveva aver
pensato che all’improvviso non sapesse più dove si trovava. Forse era stato
davvero così.
«Yuki…?»
«Tu— la canzone...»
«Era così brutta?»
«Eh?» brutta. C’erano tante parole che passavano per la testa di Yuki, ma
“brutta” non era stata contemplata nemmeno per un istante.
«Hai un’espressione… sembra che ti sia crollato il mondo addosso.»
No, no il mondo ha appena cominciato a stare fermo, a ricostruirsi, non so
perché tu non lo vedi ma io sì, non so perché tu riesci a fare questa cosa
quando io per anni non ci sono riuscito— «Non sta crollando niente.»
«Allora che succede?» gli aveva stretto una mano nella propria «Yuki…?»
La bocca di Banri era calda, la stretta sulla mano
ancora più forte di prima. Yuki non sapeva come toccarlo e Banri
forse lo sapeva ancora meno, ma nella penombra di un angolo pieno di strumenti
acustici di riserva e con l’umidità a sfiorargli la pelle e penetrargli nelle
ossa, Yuki lo stava baciando e Banri lo stesso. Gli
aveva portato una mano tra i capelli, con la delicatezza di chi toccava
qualcosa di delicato e voleva trattarlo con tutti i riguardi, ma anche con il
bisogno istintivo di piegare quel qualcosa fino a modellarlo sulla propria
forma, fino ad assorbirla. E la stranezza non era nel corpo di Banri che cercava il suo, ma in Yuki che era pronto anche a
essere distrutto; i suoi pezzi, alle mani di Banri,
li avrebbe affidati davvero.
Quella consapevolezza lo aveva colpito solo vagamente, lì per lì, ma poi aveva
assunto una forma sempre più precisa, dei contorni sempre più nitidi, e aveva
assunto la connotazione di bisogno. Più di quello di un corpo, più di
quello degli abbracci e delle mani strette e delle dita intrecciate; era un
bisogno diverso da quello di sentirsi fissato a terra, di sentire che niente
gli sarebbe sfuggito più; era più di una voce senza identità, di un fiore senza
nome, di una melodia senza spartito. Banri era una
dimensione, la cornice in cui una tela si incastrava alla perfezione.
Era quello il tipo di bisogno che Yuki sentiva, e percepiva in Banri qualcosa di diverso nei propri confronti, ma
qualunque cosa fosse – Yuki aveva impiegato anni a trovare una definizione per
sé, era impensabile farlo per gli altri – era simile quanto bastava a voler
stare insieme in un modo che era più di amici, e si incastrava con il
romanticismo perché tutti lo consideravano lo step successivo. A Yuki non
interessava davvero (dimensione, aveva deciso, per me sarà sempre
dimensione) ma se per avere qualcosa doveva lasciare che per gli altri si chiamasse
in un modo diverso, consono a loro e non a lui, poco importava.
Per la prima volta, mentre Banri ore dopo e in una
stanza loro gli chiedeva se era okay, se poteva andare avanti, se poteva
muoversi, Yuki era riuscito a pensarlo con tutto il cuore: finalmente.
Finalmente.
Il silenzio regna di nuovo come unico sovrano lì dove si trovano, a eccezione
del ticchettio basso e che prima Yuki non aveva sentito affatto, quello che
proviene dalla sveglia sul comodino di Banri e che
suonerà tra un’ora, perché è alle sette che l’altro la punta per dargli il
tempo di alzarsi con calma e prendere coscienza di sé.
Banri non lo incalza riguardo i loro programmi per la
giornata, limitandosi a passargli una mano tra i capelli, con gesti lenti e
ripetuti, quasi lo cullasse per farlo tornare a dormire. Yuki riesce a
percepirlo chiaramente con ogni parte del corpo che è a contatto con la sua: le
gambe intrecciate, il braccio ancora attorno al suo fianco, la stoffa del
pigiama di Banri contro la sua mano all’altezza del
petto, quella tra i propri capelli, le labbra che gli sfiorano la pelle e poi
gli baciano la fronte, un po’ come se cercasse di ipnotizzarlo e – allo stesso
tempo – fosse Banri stesso quello sotto ipnosi.
Yuki riconosce quel modo di fare, quel ripetersi dello stesso gesto finché qualcuno
non lo ferma: Banri lo fa sempre quando troppi
pensieri gli affollano la mente e cerca di dargli un ordine.
«Hai di nuovo sognato qualcosa?» glielo chiede, ma Yuki sa che è più
un’affermazione che una vera domanda.
«Forse. Non mi ricordo bene.»
«Ti fa male?»
«No.» forse è una bugia «Non ricordo mai bene.»
«Questo non vuol dire che non ti faccia male.»
Si muove, si scosta il giusto perché inclinando la testa in modo da guardarlo
non rischi anche di colpirlo per errore; nell’istante in cui punta gli occhi in
quelli di Banri, sa già che qualcosa non va. Non
saprebbe spiegare perché: forse è che negli ultimi due anni ha vissuto a
stretto contatto con lui, o magari è che non è mai stato un gran chiacchierone
e Banri si è dovuto abituare, quindi a modo loro hanno
imparato a comunicare senza doversi per forza dire le cose apertamente.
Oppure potrebbe essere perché, quando una dimensione è perfettamente in
equilibrio da quando esiste e poi si forma una crepa, si nota subito.
Una crepa, sì. È quella che vede nell’espressione di Banri
quando capisce che Yuki ha compreso già, quella che un po’ gli sente nel
respiro quando apre la bocca per parlare ma non lo fa subito; un’incrinatura
nel silenzio, nella voce. È come essere arrivati al limite di un percorso: se
fa un altro passo avanti, Yuki è sicuro che sentirà il vuoto in cui si rischia
di precipitare quando si arriva alla fine.
«Yuki.»
«Stai andando via.» nemmeno la sua è una vera domanda.
Banri lo guarda per una manciata di secondi che dura
come sedici anni di vuoto.
«Sì.» pronuncia poi e anche se sono ancora vicini, è come se non si stessero
toccando più «Sto andando via.»
( La musica
del violino scema; in quel momento, un rintocco d’orologio )
All’inizio
Yuki non ha capito perché Banri stesse andando via.
Non fisicamente, quello era chiaro – un’occasione all’estero, una borsa di
studio, era qualcosa da cogliere al volo, era razionale e perciò Yuki la capiva
bene e, in cuor suo, era stato felice per lui. Ma perché Banri
gli avesse detto addio a un livello più profondo e definitivo, Yuki ha
impiegato anni a comprenderlo. Adesso capisce che per Banri
era troppo: non solo il modo in cui lui – Yuki – si perdeva, in cui cercava
corrispondenze impossibili da trovare nel reale; era troppo anche il modo in
cui Yuki aveva tessuto la propria esistenza intorno a lui, il modo in cui aveva
preso Banri e lo aveva messo al centro di tutto.
Forse era esagerato dire di essere stato un parassita, ma Yuki è conscio di aver
semplicemente spinto troppo. Anche sapendo (lo ha sempre saputo, meglio di
chiunque altro) quanto fosse difficile convivere con qualcuno che vedeva e
sentiva cose inesistenti da cui si lasciava perseguitare. D’altronde, aveva
convissuto con se stesso per diciotto anni di vita,
all’epoca: era impossibile che Banri, di un solo anno
più grande e dopo meno di due a stretto contatto, fosse già in grado di
sopportarlo.
Non si sono più visti, né sentiti; forse in un primo momento Banri glielo avrebbe concesso, ma Yuki è sicuro che alla
lunga avrebbero smesso comunque di sentirsi, di cercarsi. Ha ancora il suo
numero e ogni tanto gli capita di guardarlo, ma non lo chiama mai. Non sa se
sarebbe pronto a scoprire che non è più attivo. E di contro, se Banri rispondesse a una sua chiamata, poi lui avrebbe una
voglia incredibile di raccontargli tutti gli ultimi tre anni: del proprio
diploma, dell’ammissione all’università (botanica. Lo so, non sembra da me),
della live house in cui ogni tanto è tornato, del concerto di violino a cui ha
assistito più o meno un anno fa (non penso sarei mai diventato un
violinista, anche se avessi continuato, sai?). Ma quando ci pensa, non
fatica a immaginarsi che alla fine di tutto Banri
chiederebbe come va. Se lo figura con facilità, così bene che a volte Yuki ha
paura si tratti di qualche scherzo della sua testa.
Fai ancora quei sogni strani che ti bloccano, Yuki?
Non crede che avrebbe il coraggio di dirgli di sì.
«Orikasa, stai andando in laboratorio?»
«Sì. C’è qualcosa da portare?»
«No, però può darsi ci troverai già qualcuno. So che Suzuki ha chiesto una mano
al nostro supervisore per il macchinario che vi ha lasciati a piedi la
settimana scorsa.»
«Mh.»
Nell’ambiente universitario non ci sono molte differenze, nel suo
atteggiamento, rispetto a quando andava a liceo eppure al tempo stesso si sente
profondamente diverso. Lui è ancora il ragazzo di poche parole che non si
dedica certo a far parte di un gruppo o a intessere legami con gli altri, ma in
qualche modo l’università glielo rende più semplice, con i passaggi da un corso
all’altro, le ore nel laboratorio dove non sono mai più di due collaboratori
alla volta. Però reagisce in modi meno bruschi, meno sulla difensiva; si perde
meno, in tutti i sensi in cui ci si può perdere, e non cerca più un pilastro,
una dimensione. Quando guarda l’elenco dei suoi contatti sul telefono e
il nome di Banri fa capolino come un bambino
dispettoso che osserva il risultato di un suo scherzo, Yuki sente dentro di sé
di non essere pronto. Se anche riuscisse a trovare un’altra persona, non è
sicuro che quella potrebbe sopportare un peso così grande e lui non saprebbe
gestire di nuovo un abbandono.
Così si muove per i corridoi conosciuti in cui non ha nemmeno bisogno di
guardare, per sapere dove andare. Gli piace la sensazione che gli danno, quella
sicurezza che nemmeno gli odori e i suoni che solo lui conosce potrebbero
minare. Il laboratorio stesso gli ha dato l’impressione di essere tornato a
casa fin dalla prima volta in cui ne ha varcato la soglia: ricorda di essere
entrato, aver guardato tutto di quella stanza e, pur non riconoscendo molto se
non gli strumenti studiati nei corsi seguiti fino a quel momento, di aver
provato una sensazione di calore nel petto. Era tutto parte di lui in un modo
intimo che non si poteva spiegare, era stato come lui immaginava sarebbe potuto
essere riuscire a tirare fuori tutte le sensazioni dei suoi sogni, buttarle
alla rinfusa nella realtà, creare un miscuglio incomprensibile che avrebbe
avuto senso solo per lui, uno in cui avrebbe potuto guardare cose che altri non
vedevano e sentirne altre che gli altri non sentivano, senza sentirsi fuori
posto. Dare un nome ai fiori con quel profumo così particolare e forse
complimentarsi con quel violinista sconosciuto, con le voci che ogni tanto
sentiva, e poi voltarsi e vedere a chi o cosa appartenesse quel peso sulla
propria spalla. E, se si fosse trattato di una persona, dirgli che sarebbe
andato tutto bene: poteva riposare ancora, finché lo desiderava. Lui sarebbe
rimasto immobile, a vegliare, anche per ore se necessario. Avrebbe sussurrato
poche parole per augurargli un sonno senza sogni, come si augura il meglio alle
persone importanti.
«Ah— O-Orikasa-senpai!»
Due occhi brillanti lo fissano come se, solo entrando in quel laboratorio, lui
avesse il potere di illuminare l’intera stanza. Yuki osserva il ragazzo davanti
a sé, senza sapere se qualcuno lo abbia mai guardato in quel modo prima di
allora.
Sunohara Momose è un ragazzo
singolare, ma innocuo. Yuki ha impiegato due mesi – di cui una parte passata a
stretto contatto per la riparazione del macchinario in laboratorio – per
riuscire ad avere la parvenza di una certa naturalezza tra loro quando
condividono lo spazio. Non sa bene come, ma Sunohara
lo conosce da ancora più tempo: sostiene di aver visto Yuki per i corridoi in
più di un’occasione, di averlo scoperto (proprio quella parola ha pronunciato: scoperto)
grazie ai senpai
del suo corso e di averlo osservato. Solo ogni tanto!,
come gli ripete di continuo ogni qualvolta il discorso li porta in quella
direzione.
Dopo due mesi in cui Yuki gli ha detto che pochissimi lo chiamano “Orikasa-senpai” e che ancora meno lo chiamano “Yukito” – «Non mi importa granché delle formalità» –
è riuscito a strappargli la tacita promessa di uno “Yuki-san” senza poter
pretendere di più; in compenso ha guadagnato un sorriso fatto di felicità e
impaccio, due emozioni che di rado Yuki ha visto sul viso di una persona
contemporaneamente, insieme al permesso (la richiesta) di chiamarlo “Momo”. In
virtù di quello scarso attaccamento al fare formale lui non ha potuto che
essere ben disposto, e così ora suonano come due amici di vecchia data con un
anno di differenza racchiuso in un unico suffisso.
La compagnia di Momo durante il giorno è fatta di una semplicità disarmante, di
chiacchiere continue in cui lui ha l’importante ruolo di ascoltatore assoluto,
di un affetto celato male dalle parole a causa di una scarsa abitudine a
nascondere le cose in generale, forse.
Di notte è orrendo, però. Momo non condivide con lui alcuno spazio al di fuori
di ciò che si trova nell’area del campus universitario: si sono visti
all’esterno dello stesso solo un paio di volte, di cui una del tutto casuale, e
Momo non ha mai visitato il suo piccolo appartamento un po’ vecchio e da
studente universitario. Eppure da quando lo conosce la sua parentesi onirica è
peggiorata. Ci sono notti in cui la melodia nei sogni è come una litania senza
fine, al punto che al risveglio riuscire a liberarsi la testa da quei suoni e
trovare un contatto con la realtà gli impiega quasi un’ora; altre volte la
mancanza di qualcuno fa così male da portarlo a prendere in considerazione di
rimanere al letto tutto il giorno – nascosto in un microsistema perfetto, una
fortezza inespugnabile. Infine ci sono notti, come una delle ultime, in cui
l’odore di fiori è forte a tal punto da svegliarsi con la nausea, da muovere
passi incerti e portarsi fino al bagno, da piegarsi sulla tazza e vomitare,
stordito, riuscendo a malapena a percepire la concretezza del water gelido a
cui si poggia.
Momo è nei suoi sogni, e Yuki ne è terrorizzato: l’onirico ha sempre violato la
realtà quando era un ragazzino, è abituato a gestire cose che non esistono in
un mondo che invece è vero. Ma qualcosa di reale come una persona, rinchiusa in
un luogo senza regole o tempo, dove lui non ha controllo, fatto di meccaniche
ripetizioni che si incastrano tra loro come ingranaggi… quella non è una cosa a
cui Yuki sa rispondere, qualcosa di gestibile.
Così durante il giorno lo guarda, mentre pranzano insieme e Momo è sempre chino
su un progetto che Yuki non è in grado di comprendere, fatto di calcoli e
disegni, un linguaggio sconosciuto. Lo guarda, cercando di collocarlo in
stralci di sogno che non ricorda mai davvero – prova a immaginarlo con il
violino poggiato sulla spalla e l’archetto in una mano, chino su dei fiori dal
nome complesso, sdraiato su un prato a ridere mentre cerca di distinguere la
forma di una nuvola, poggiato contro di lui con la stessa intimità di un
segreto a scivolare fra loro. E quando lo fa gli si stringe il cuore, perché ha
già desiderato una volta di poter riconoscere in qualcuno la sua personale
irrealtà e in cambio ha ottenuto soltanto un “addio”.
Non è pronto per avere un’altra possibilità.
Benché
Yuki non abbia ancora deciso se la condivisione di spazi con Momo sia davvero
la radice di ogni male o se la sua sia soltanto suggestione dovuta a un affetto
che nei mesi sta maturando piano, gradualmente, non ha davvero un motivo per
dire di no quando l’altro ragazzo gli rivolge inviti innocenti, dati dal
semplice piacere di passare del tempo insieme. Così incontri limitati
all’interno del campus diventano caffè presi al bar subito fuori dallo stesso,
poi l’assaggio di un dolce giudicato piuttosto bene nelle riviste, poi una
passeggiata per arrivare fino a quel negozio di fiducia, un po’ di nicchia, in
cui Momo compra il materiale per le piccole riparazioni che fa al di fuori dei
progetti scolastici. Esce fuori che Momo è capace di passare ore nei negozi di
antiquariato e dell’usato, di girare fra scaffali impolverati o dall’aria
vissuta, come solo le cose preziose tenute per molto tempo riescono a essere
davvero. Yuki lo capisce, perché potrebbe fare lo stesso in un vivaio o in un
giardino botanico – fa lo stesso quando a volte passano davanti a un modesto
fioraio che non dista troppo dal locale in cui prendono il caffè.
È strano ritrovarsi a uscire insieme più spesso di quanto avrebbe mai
immaginato, anche se ci sono giorni peggiori di altri, in cui tutto ciò che di
buono accade nelle ore diurne rende pesanti le notti; ma non succede sempre,
con regolarità, e dunque Yuki lascia che il positivo diventi allettante
abbastanza da non farlo cedere all’istinto di autoconservazione.
Le chiacchiere di Momo sono piacevoli, di qualunque cosa si parli, con quella
capacità che l’altro ha di rendere divertenti anche gli aneddoti di poca
importanza, di entusiasmarsi per le piccolezze; Yuki è conscio di sorridere
molto più di quanto abbia mai fatto in passato, e cerca di scacciare – ogni
tanto, quando gli si affaccia a tradimento nella testa – il pensiero di star
facendo un torto a Banri, pensando in quel modo, come
se l’altro fosse colpevole di non averlo reso felice abbastanza oppure lui,
Yuki, lo fosse di aver precluso a lui la stessa possibilità. Lui sa bene che Banri ha fatto tutto ciò che poteva; né la sua razionalità
né la sua emotività lo incolpano di nulla, né lo hanno mai fatto.
Ma la colpevolezza di un tradimento che non è tale gli si annida nel cuore come
un parassita che gli prosciuga la linfa vitale, e non conta quanto lui si
ripeta che sbaglia, che non è infedele a nessuno (ma non sono fedele a me,
gli suggerisce una voce insistente nella testa, a me stesso, che ho creduto Banri fosse la mia dimensione e l’ho portato a scappare via
perché si può essere solo dimensioni di se stessi), alla fine si sente
sporco come se voltasse le spalle a qualcosa.
Quando i suoi occhi, alzandosi distrattamente sulla strada davanti a lui
inquadrano la figura di Banri, qualcosa gli muore
dentro; nella sua testa si forma un vuoto totale in cui riecheggiano solo
accuse.
«Perciò pensavo— Yuki-san?»
Non si tratta di voci, di odori, di melodie: ha dentro un rifiuto così forte
che si sente come se lo stessero colpendo con una violenza inaudita, e non
riesce a muovere nemmeno un passo, né ad alzare una mano per dare una pacca
sulla spalla a Momo e dirgli che è tutto a posto, non c’è bisogno di fare
quella faccia come se lo vedesse in fin di vita, non deve preoccuparsi né
agitarsi alternando lo sguardo da lui a Banri.
Banri che lo ha guardato e per un momento ha pensato
di scappare via, Yuki ne è sicuro, glielo ha letto negli occhi (perché anche
lui vorrebbe fuggire, ora); Banri che ora lo osserva
e piega le labbra in un sorriso di scuse, più che di felicità, ma anche di
sollievo.
«Yuki.» pronuncia, fermo sul posto, senza azzardare un approccio perché di
fronte a un animale ferito non muovi tu il primo passo, ma aspetti sia la
bestia a farlo.
Il panico gli chiude lo stomaco in una morsa tale da fargli temere, per un
istante eterno, che adesso succederà qualcosa di brutto; poi però un lampo di
lucidità gli suggerisce che ha vissuto anni a fare la stessa cosa: vedere ciò
che altri non vedevano e dover fingere di non farlo – per omologarsi, in un
certo senso, ma anche preservarsi dalla delusione di sapere ancora una volta
che quell’odore, quella voce, quella musica non poteva essere sfiorata perché
non esisteva.
Così fa ciò in cui riesce bene: guarda Banri e
immagina che sia parte di quel mondo solo suo, quello che non può vedere
nessuno e che lui non può nemmeno iniziare a spiegare o descrivere, perché
sarebbe inutile. Prende tutto ciò che Banri significa
e lo annulla all’esterno rendendolo plausibile e reale solo dentro di sé.
«Banri.» suona naturale il modo in cui lo saluta?
«Bentornato.»
È solo il rintocco di un orologio di fantasia. Se si concentra, si accorgerà
che non c’è alcun suono e tutto tornerà a posto.
Momo
decide di portarlo più lontano di quanto non siano mai andati da soli. Si dovrebbe
parlare
di appuntamento, ma la verità è che non c’è stato alcuno scambio di messaggi
significativi tra loro, nessun comune accordo; Momo ha preso il coraggio a due
mani – letteralmente, Yuki lo ha visto stringerle in due pugni a più riprese
mentre parlava, quasi tutta la forza di cui aveva bisogno fosse raccolta lì e
si espandesse dai palmi a tutto il corpo e fino alla sua mente – e, dopo
essersi assicurato del suo avere il weekend libero, ha dichiarato che c’era un
posto in cui voleva portarlo.
Così adesso Yuki si lascia guidare fuori dalla metropolitana, lungo la strada.
Momo, stranamente, non parla molto. Sembra così concentrato sul percorso da
ricordarsi a stento di doversi assicurare di essere seguito, anche se in realtà
il problema non si pone davvero: incuriosito dalla meta finale, gli occhi
chiari sono fermi sulla figura del più giovane, un mezzo sorriso che va a
incurvargli le labbra nel vedere come si stia mettendo d’impegno per una cosa
così semplice come fare da guida in un itinerario deciso da lui.
«Yuki-san» pronuncia, fermandosi quasi all’improvviso, dimentico di qualcosa
che ricerca sul suo viso ma di cui Yuki non riesce a comprendere la natura.
Comunque Momo non aspetta una sua risposta: «ho pensato, ecco, che ti potesse
piacere. Ma se l’hai già visto— voglio dire, è molto probabile che tu lo abbia
già visto.» ammette con una risatina nervosa, come a voler sottolineare quanto
sciocco sia pensare il contrario.
Yuki deve lasciare la sua figura e guidare il proprio sguardo più in là, anche
se non di molto, per capire finalmente quale sia il soggetto della frase e
riconoscere un tragitto che, in verità, ha davvero seguito in altre occasioni e
da solo. Poco più avanti si staglia l’ingresso del giardino botanico già
visitato in passato, in cui Yuki si è persino perso una volta, troppo distratto
dai fiori e dalle piante per badare ai sentieri che si intrecciavano come in un
labirinto.
«L’ho già visto. Ma è il mio posto preferito.»
«Lo sapevo— oh.»
L’espressione sul viso di Momo è impagabile: lo guarda portandosi ancora dietro
lo strascico di una delusione subodorata, ma la mischia alla sorpresa di
sentirgli dire che in ogni caso è un’iniziativa gradita al pari di un regalo
unico. E il sorriso che gli si dipinge sul volto vale più di un qualsiasi
giardino botanico pieno di piante che non basterebbe una vita per conoscere –
ma questo Yuki non glielo dice. Si limita a vederlo mostrare di nuovo tutto
l’entusiasmo da cui il suo corpo sembra costantemente attraversato, al pari di
una corrente elettrica mai a riposo, e muoversi in avanti incitandolo a
proseguire, a entrare («Yuki-san pago io l’ingresso, ci tengo, sono io che ti
ho invitato!») e poi a scambiarsi i ruoli, rendendo Yuki la guida e seguendolo
senza lamentarsi di ogni volta che si fermano di fronte a una specie di fiore,
anche quando forse agli occhi di Momo sembrano tutti uguali o almeno molto
simili.
Gliene è grato. Perché quando sostiene che quello è
il suo posto preferito, Yuki nella sua mente trascende l’immagine di un luogo
che si visita più di una volta con lo stesso piacere della prima; intende
invece quel posto in cui vorrebbe andare quando sta male, in cui si potrebbe
perdere quando vuole piangere o in cui correre a perdifiato, fino a sentire i
polmoni che bruciano e le gambe che gridano di fermarsi, fino a temere di non
riuscire a farlo perché ormai la velocità scorre nel corpo come l’adrenalina
nelle vene, l’euforia nel cervello. Il giardino botanico per Yuki è quello: un
angolo di casa – non una casa intera, non una dimensione ma qualcosa che ci si
avvicina abbastanza e ne prende gli aspetti migliori lasciando indietro i
peggiori: farlo sentire nel posto giusto, senza il rischio di sgretolarsi sotto
i suoi piedi.
«Yuki-san, posso farti una domanda?»
«Mh?»
Momo non tentenna quasi mai, quando parla con lui, oppure lo fa in un modo
adorabile che però non ha mai sottolineato, per fin troppe ragioni. Il fatto
che ora sfreghi più volte le mani contro i pantaloni, i palmi forse sudati, è
la spia rossa di un guasto che sta per bloccare un intero macchinario.
«La persona che abbiamo incontrato quel giorno… è successo qualcosa?»
Yuki non deve chiedergli di chi parla, è chiaro, immediato. Una parte di lui,
chiusa a riccio ancora prima della fine di quella frase mossa dalla
preoccupazione e non dal desiderio di ficcanasare, rifiuta Momo nella sua
interezza: il corpo, i gesti, la presenza, persino la voce che dalla prima
volta a Yuki è suonata così familiare da riuscire a stento a capire come
potesse essere possibile. L’altra parte di lui, però, sente forse di
doverglielo in un modo complesso che non ha niente a che vedere con la
razionale legittimità della domanda di Momo o con il suo ruolo nella sua vita.
Ci pensa per un momento: ha mai parlato di Banri a
qualcuno?
No. Forse se ancora vedesse lo psicologo di anni prima avrebbe finito con il
dirgli qualcosa, ma è sicuro di non averlo mai confessato a nessuno – a chi mai
avrebbe potuto o dovuto dirlo, d’altronde?
Mentre guarda uno degli iris che sono piantati a
terra, nel loro apposito spazio in un’aiuola perfettamente suddivisa tra sei
diverse specie di fiori, Yuki soppesa il proprio desiderio di condividere tutto
ciò che riguarda “Banri”. Se sia pronto a spiegare
l’intero universo che si era formato intorno a lui, o tutto ciò che esisteva
prima e si era disposto in un disordine ordinato grazie alla sua presenza; se
possa riuscire a condividere con un’altra persona che non è Banri
la sua storia, quello che vede e quello che sente, quello che popola i suoi
sogni come un’ossessione fino a trascinarsi al risveglio, a farlo sentire
schiacciato dalla realtà, costringendolo a volte all’immobilità per un’intera
giornata.
«Banri» pronuncia il suo nome, ed è come qualcosa che
a forza di non essere nominata per molto tempo è diventata estranea nella sua
familiarità «...»
Si ferma, percependo la mano di Momo che trema vicino alla sua, sebbene non si
tocchino davvero né le loro dita siano intrecciate in un contatto intimo.
Indugia, non sapendo come interpretarlo: è perché pensa di avergli posto una
domanda indiscreta? Perché teme la sua reazione? O perché ha paura della
risposta? Yuki lo guarda, senza un indizio che gli suggerisca quale sia la
verità, e poi lascia vagare lo sguardo alla ricerca di una panchina, di un
punto in cui sedersi perché quella conversazione non è qualcosa che possano
affrontare in piedi. Lui non può farcela, per esempio.
Così vaga con le iridi chiare, inquadra qualche cartello che indica i vari
percorsi – punto di ristoro, giardino delle peonie, serre – e trova le
panchine, anche se l’attenzione si sofferma più in là, su un albero in
lontananza: le camelie sono in fiore e il loro profumo, che da lì si percepisce
il giusto, quasi il fiore cercasse di non imporsi con prepotenza ma di fare
capolino con discrezione, è di una familiarità inspiegabile a parole.
«Siamo stati insieme.»
Lo pronuncia con una durezza che non è dovuta al rancore per una storia finita
male, ma a una confessione sfuggita prima ancora di articolarla come si voleva.
«Sediamoci.» gli propone poi; e, quando sono finalmente seduti, e a Momo le
mani tremano ancora, Yuki non lo guarda e preferisce osservare quell’albero di
camelie.
«Momo, a te è mai successo di fare in modo che il tuo mondo si reggesse su una
sola persona?»
A me sì.
Come in
primavera capita spesso, anche se mai come nella stagione delle piogge, un
acquazzone li coglie in flagrante mentre stanno uscendo da uno dei negozietti
in cui a Momo piace infilarsi, perdendoci a volte quasi un’ora, scusandosi con
Yuki quando si rende conto di averlo costretto a rimanere lì dentro con lui –
ha provato a dirgli che non è una costrizione, ma Momo finisce con lo scusarsi
in modo così goffo, nella sua fretta di farlo, che Yuki ha lasciato stare e
glielo concede senza essere davvero arrabbiato o infastidito da quel tipo di situazione.
Dopo avergli raccontato di Banri, c’è stato tra loro
uno stallo durato per diversi giorni, e un ritorno alla normalità che
dall’esterno è sembrato immediato ma che dall’interno, Yuki lo sa, ha richiesto
molto più tempo. Ritrovare l’equilibrio dei gesti spontanei e della naturalezza
dei loro discorsi, nel modo di impiegare il loro tempo insieme o di far
combaciare due studi e due interessi così diversi, ha preteso tutta
l’attenzione di Yuki anche verso gli indizi minori del linguaggio del corpo
altrui, uno studio dell’emotività di un’altra persona che lui non si è mai
davvero dato la pena di affrontare in passato. Lentamente sono tornati a
stabilire delle basi tra loro, con la nuova consapevolezza di tutto quel mondo
personale che Yuki gli ha tenuto nascosto finché Momo non ha chiesto. Non hanno
più preso il discorso, trattandolo forse un po’ come un tabù e un po’ come una
ferita che sta faticando a rimarginarsi ma che pian piano forse ci potrebbe
riuscire, con una lentezza estenuante, e per questo ha bisogno di tutto il
tempo possibile senza essere punzecchiata e riaperta di continuo.
Yuki ci ripensa mentre salgono le scalette esterne per raggiungere il suo
appartamento, quando lo coglie alla sprovvista la realizzazione di non aver mai
invitato nessuno prima, cosa a cui aveva già pensato solo in modo superficiale.
La pioggia a vento li hanno pressoché inzuppati e dunque cerca le chiavi con
gesti veloci, per aprire in fretta e permettere a entrambi di ripararsi.
Momo è un insieme di contraddizioni già da quando varca la soglia: lo fa con la
riverenza dovuta ai luoghi importanti, una punta di furtività di chi si
intrufola dove non dovrebbe, e al tempo stesso agisce con la spontaneità che
Yuki adora in lui, scuotendo la testa come un cucciolo troppo ingombrante.
«Nemmeno le previsioni avevano parlato di pioggia, mi sento tradito! Yuki-san,
ho un asciugamano nella borsa, dovevo portarmi avanti con un progetto ma alla
fine non ci ho lavorato e poi ci siamo incontrati al campus e siamo usciti per
andare a prendere i pezzi di ricambio— di solito, ecco, lo uso perché è sempre
un casino a mettere le mani nei macchinari ma insomma, dicevo, non l’ho usato e
quindi puoi farlo tu. Per asciugarti! Con i capelli lunghi poi ti raffreddi
prima, o almeno credo, meglio se non corri rischi sì?»
Yuki lo guarda, mentre è ancora gocciolante ma si preoccupa di rovistare nella
sua borsa e porgergli un asciugamano pulito; gli scappa uno sbuffo divertito
tra le labbra mentre lo prende, lo apre con cura e poi glielo poggia sui
capelli bagnati beandosi dell’espressione sorpresa che Momo gli mostra.
«Siamo a casa mia, posso prenderne un altro.» spiega solo quello, liberandosi
delle scarpe e muovendosi in automatico verso la piccola porta sulla destra.
Impiega davvero un attimo a recuperare quanto gli serve – il suo appartamento
non è comunque molto grande, tanto per cominciare – così da tornare e trovare
l’altro dove lo ha lasciato, scarpe ai piedi comprese.
«Momo»
«Sì?!»
«Mpf...»
«Yuki-san non ridere! Stai ridendo di me, vero?»
«Solo perché bagnato sei buffo. Ho un’asciugatrice di là, non è grande» con lo
spazio che ha bisogna economizzare, non lo dice ma è ovvio «ma puoi metterci ad
asciugare le tue cose. Ti do un cambio.»
«Yuki-san non serve che ti disturbi—»
«Momo.»
«Va bene, va bene, non mi sgridare Yuki-san.»
Si guardano per un attimo, Yuki incuriosito e Momo come se si aspettasse
comunque un rimprovero; poi scoppiano a ridere, e a Yuki sembra un suono nuovo
in quelle quattro mura, un suono che le riempie interamente anche quando si spostano
dall’ingresso alla stanza più grande delle due (una più un pezzetto che
spacciano per seconda, a dirla tutta) che compongono la sua reggia di studente
ormai a ridosso della laurea.
Tutto quello che si sussegue sembra parte di una bolla isolata dal resto
dell’esistenza: il modo in cui Momo accetta di cambiarsi solo se Yuki non lo
guarda – prova a mascherare la cosa come un imbarazzo giustificato da aneddoti
che, Yuki sospetta, sono inventati sul momento almeno per metà – o come si
offre, quando finalmente ha addosso qualcosa di asciutto, di preparare il tè
per sdebitarsi (anche se il tè è comunque tuo, Yuki-san, però devi cambiarti
quindi io intanto posso rendermi utile, se non ti dispiace che usi la tua
cucina, è chiaro). Yuki indovina senza bisogno di chiederglielo, che la
preparazione di una bevanda calda è un modo di combattere un impaccio facile da
riconoscere non solo come presente, ma anche nella sua natura; essere
silenziosi, quelli che non rendono una stanza piena di chiacchiere, in genere
implica anche essere buoni osservatori. Se poi le persone che si osservano
reagiscono in un modo quasi impossibile da fraintendere, basta anche essere
solo un po’ più attenti della norma. Così Yuki si libera con calma degli abiti
bagnati sostituendoli ad altri asciutti e puliti, si siede su uno dei
cuscinetti intorno al tavolino che tiene per studiare e toglie per stendere il futon
la sera, gli fa anche la cortesia di accendere la televisione e di fingere
di focalizzarsi su quella piuttosto che sulla sua presenza. Tuttavia Momo
rimane fermo, di fronte al piccolo angolo cottura, deciso a dare tutte le sue
attenzioni a un bollitore che si potrebbe abbandonare a se stesso finché non se
ne sente il fischio.
La televisione è tenuta a un volume sufficiente perché possa essere credibile
il suo stare guardando il programma di varietà in onda, ma non così alto da
coprire del tutto i piccoli suoni di una casa qualsiasi a cui lui tende a non
dare troppo peso, quando è da solo ed è lui stesso a produrli, come quel sibilo
silenzioso che il gas produce quando è acceso e qualcosa è suo fuoco. Il brusio
delle risate del pubblico fa da sottofondo mentre lui decide di abbandonare la
schiena di Momo e portare gli occhi sulla finestra - l’unica - della stanza; il
tempo fuori è persino peggiorato e il carico di acqua nelle nuvole scure getta
un’ombra tale che Yuki pondera sul dover o meno accendere la luce per evitare
che sembri di bere tè al buio, quando sarà pronto. Le gocce di pioggia si
abbattono sul vetro come se ce l’avessero a morte con esso, e picchiassero con
tutte le loro forze.
Yuki a stento si accorge di assopirsi, di scivolare con la coscienza dentro un
sogno, a dispetto di tutti gli studi che sostengono che i sogni veri non
inizino mai prima di tre ore dopo essersi addormentati – lui non ci ha mai
creduto: semmai, è più facile ricordare quelli che avvengono quando il sonno è
nella sua fase più pesante, se proprio.
Forse è perché la pioggia è ancora tale anche nella dimensione onirica, anche
se più leggera, più gentile; o forse è lui che la sente poco, mentre quella
melodia che conosce fin troppo bene gli arriva alle orecchie e lo culla, lo
accarezza. Per abitudine cerca di percepire un peso sulla propria spalla,
irrazionalmente incapace di voltare il capo per controllare lui stesso, anche
se basterebbe così poco e non capisce perché sembri così difficile, uno sforzo
così grande e insopportabile, nemmeno la sua testa fosse un macigno. Il peso
non c’è. L’odore di fiori è nascosto da quello dell’acqua piovana, che è uguale
in tutti i mondi che esistono. Non ci sono indizi, e si sente abbandonato nella
propria stessa casa.
Dissen!
«Yuki-san?»
Sono due voci così simili, come ha potuto non capirlo prima? Si sente così
stupido, mentre apre gli occhi e fatica a mettere a fuoco in quella stanza
ancora buia in cui si è appena appisolato – o ha dormito per ore? –,
sovrapponendo due figure al punto da non distinguere i dettagli essenziali di
nessuna delle due. Allunga una mano alla cieca, là dove scorge l’ovale di un
viso (sei tornato, sei tornato, sei tornato), sentendo una frase che
forse non gli verrà mai detta morire nella gola di chi gli sta davanti. La sua
mano scivola sulla guancia, sfiora l’orecchio per sbaglio, si adagia dietro una
nuca e poi si avvicina – o forse avvicina l’altra persona, ma in fondo cosa
importa – fino a che non può posare le labbra sulle sue, e sentire che ovunque
sia è la parte giusta.
Dove non serve saperlo; reale o meno, sembra una questione di così poco conto,
adesso.
Novem.
Da quando
lo ha baciato, Yuki ha dovuto ammettere a se stesso
due cose: la prima lo preoccupa, ed è che Momo si aggira attorno a lui con un
imbarazzo incredulo, come se non concepisse quanto accaduto fra loro proprio
perché sono loro. Come se lui non si meritasse una cosa del genere e la stesse rubando a qualcuno. Passano ancora il tempo
insieme, condividono il lavoro affiancandosi in una differenza abissale – Yuki
cura e studia esseri viventi, Momo lavora su creature fredde che di vita hanno
solo la parvenza grazie a calcoli complessi e giochi d’incastro – ma lo fanno
come se non riuscissero ad avere più quel punto d’incontro intimo che non
necessita parole. Momo muove le mani con la stessa precisione e velocità,
districandosi tra ingranaggi e strumenti in miniatura, gli occhi e l’attenzione
fissi sull’orologio da taschino sul quale sta lavorando da una settimana e
mezza; Yuki sfoglia le pagine, guardando figure di piante con infinite
descrizioni tecniche e piene di parole che nessuno, al di fuori della sua area
di competenza, capirebbe mai e le osserva come se loro dovessero dargli una
risposta e comporre per lui un messaggio personale, inequivocabile, attraverso
il quale Momo potrebbe capire tutto quello che nella presa di coscienza, mentre
le sue labbra lasciavano quelle altrui, Yuki non è riuscito a dirgli.
Ma gli orologi non parlano. I fiori neppure.
Comprende
il peso di quel silenzio solo dopo, quando giorni dopo vede Momo per caso, in
anticipo sul loro appuntamento per pranzare insieme. Lo capisce perché quando
lo vede Momo è con Banri, poco lontano dalla loro
università e sul tragitto che percorrono per raggiungere il locale dove
dovrebbero vedersi. Yuki non sa cosa lo porti a fermarsi quando potrebbe
tranquillamente raggiungerli, palesare la sua presenza – in verità lo sa bene,
ma ammetterlo denoterebbe un coraggio che non ha, che gli scivola tra le mani
ogni volta che Banri è fisicamente presente.
Si accorge già da lontano di troppe cose che vorrebbe ignorare, prima tra tutte
il modo in cui Momo si sta torturando le mani, non solo torcendosi le dita ma
anche conficcandosi le unghie nella carne in alcuni momenti, scaricando uno
stress così ovvio che Banri – su cui Yuki sposta lo
sguardo poco dopo – sta mostrando un’espressione colma di disagio e
colpevolezza, quella che ci si addossa ancora prima di capire se si è davvero
nel torto o meno. Yuki muove pochi passi, per lo più incerti, ma poi si ferma.
Non ha paura di essere visto (forse sì) o di essere frainteso (più di
ogni altra cosa), ma le parole di Momo lo inchiodano lì sul posto, come una
condanna.
«Lo so che tu sei stato importante per Yuki-san. So che siete stati insieme, e
Yuki-san… lui non parla con tante persone, e può sembrare che non gli importi,
ma io so che non è così. So che è troppo gentile a volte, così tanto per permette
persino a uno come me di stargli vicino, non si è arrabbiato nemmeno quando gli
ho chiesto una cosa così personale come dirmi chi fossi tu, Banri-san.
Chi fossi per lui, chi fossi stato, perché l’ho capito da come ti ha guardato
che non dovevi essere una persona qualsiasi, perché… perché non si guardano
così le persone di cui non ci importa niente. Ma Yuki-san, lui mi ha permesso
di restare anche dopo una cosa del genere… e io lo so che tu sei qualcosa che
io non potrò mai essere, lo so, però vedi— però io non voglio che me lo porti via. Perché sono sicuro che ci riusciresti.»
Yuki è così stordito che apre la bocca per dire qualcosa, ricordandosi solo in
un secondo momento che da dove si trova può vedere loro, ma loro non possono
vedere lui; che ironia, essere come gli elementi di un sogno che lo tormenta da
più di sei anni.
Banri sembra confuso quanto lui, ma inquadra il
nocciolo della questione molto più velocemente; muove tutto il corpo, cercando
il gesto più gentile e al tempo stesso fermo per interrompere Momo e il suo
sciorinare di parole colpevoli come se avesse ucciso qualcuno, arrecato il
danno più grande di tutti solo esistendo.
«Ma se Yuki-san vuole te» è peggio di un macigno in pieno stomaco «se devi
portarmelo via, allora deve essere perché puoi dargli una felicità enorme,
immensa. Posso rinunciarci, così. Posso… posso farmi da parte, se è così.»
Buffo come le dimensioni che ci si costruisce attorno si sgretolino in due modi
diversi: il vuoto sotto i piedi, la paura del nulla, di qualcosa che si spezza
per sempre che è quello che c’è stato con Banri –
convinto, per dirlo in un modo che Momo potrebbe comprendere, sarebbe stato
impossibile riparare qualunque cosa fosse quella che gli si era rotta a un
livello talmente personale da non poterla nemmeno mostrare a un’altra persona.
E poi la dimensione che invece crolla su se stessa per
proteggere chi la vive, chi ci si è nascosto, chi ci ha sbirciato dentro piano,
con troppa cautela e troppa paura, chi si è abituato lentamente senza esserne
davvero convinto. Un sacrificio inumano. Un annientamento che non si potrebbe
mai chiedere, ma che a volte si riceve, indipendentemente dal proprio
desiderio.
Banri lo guarda, ora che abbandona il terreno sicuro,
quello dove non poteva essere visto e giudicato, dove poteva essergli chiesto
di scegliere senza che lui fosse pronto a farlo; lo guarda mentre affianca
Momo, mentre Momo boccheggia con delle scuse mortificate già sulla punta della
lingua, e Banri gli sorride, gli sorride per la prima
volta dopo tre anni quando lo vede stringersi Momo contro il petto.
Non si sta aggrappando, lasciando la propria esistenza come un peso sulle
spalle di un altro; sta prendendo se stesso e lo sta consegnando a qualcuno,
prendendo però in cambio un peso identico da portarsi dietro, da tenere al
sicuro.
La sua nuova dimensione ha un corpo preciso, una voce che lo chiama e un cuore
che batte così veloce da farlo ridere a bassa voce, discreto.
Si sente pronto per un’altra possibilità, ora.
Finiscono
a letto insieme più velocemente di quanto entrambi devono aver mai preso in
considerazione. Se Momo non fosse teso come una corda di violino e Yuki fosse
il tipo da darsi a battute sciocche e scontate pur di alleggerire la tensione,
gli farebbe notare quanto quel pensiero e quella situazione, detti così,
possano essere fraintendibili. Invece è lì, nel proprio futon, girato su
un fianco e con Momo nella stessa posizione, rivolto verso di lui: fuori un
temporale primaverile fa da rumore di sottofondo, meno forte di quello
dell’ultima volta che sono stati insieme in casa sua. Momo è più che sveglio,
mentre cerca di fingere di dormire; lo vede nel modo in cui stringe troppo gli
occhi, per convincere se stesso prima di Yuki, e da
come le sue spalle sono rigide nella ricerca di un equilibrio perfetto nella sua
posizione, più di quanto farebbe mai un funambolo per paura di cadere. Yuki
lascia vagare lo sguardo oltre Momo, concedendogli una tregua. Incontra quasi
subito la porta-finestra che dà sul piccolo balcone, le tende in parte tirate
che lasciano libero uno spiraglio grande abbastanza da mostrargli la porzione
di cielo grigio che c’è fuori; la pioggia è fina, e non essendoci troppo vento
sono poche le gocce che finiscono con lo scivolare contro il vetro.
Anni prima ha osservato uno scenario simile (non uguale), in un letto con una
persona (un’altra), aspettando per un tempo indefinito che la sua mente
smettesse di vagare dove nessuno avrebbe potuto darle un segno. Adesso c’è una
calma quasi irreale, fuori e dentro la sua testa, mentre guarda fuori. Almeno
finché una mano non si muove, per andare a prendergli una manica e tirare il
poco che basta perché lui abbandoni la porzione di cielo visibile e abbassi lo
sguardo su Momo, trovandolo lì a occhi aperti che lo fissa. Un’ombra di
preoccupazione si nota con una facilità disarmante, sul suo viso.
«Yuki-san…?»
«Mh?»
«Ah… è che...» Yuki ha imparato a notare che gli occhi di Momo si spostano di
continuo, quando qualcosa lo agita e non sa come tradurre in parole buone
intenzioni che rischiano di mascherarsi da frasi fuori luogo. Yuki non ricorda
di aver mai avuto quel modo di rifuggire le cose, ma indubbiamente deve aver
avuto – e avere ancora – una brutta abitudine, un modo di fare pronto a tradire
le sue intenzioni. Qualcosa che Banri, in passato,
doveva essere stato in grado di riconoscere così come ora fa lui; si chiede se
dovrebbe cercare il proprio modo di far capire a Momo, senza per forza bisogno
di parole, che non c’è niente di male in quello che vuole dire. Qualunque cosa
sia, Yuki non lo crede capace di ferirlo volutamente.
Muove una mano con lentezza voluta, non per provocazione ma per estrema cura,
simile a quella con cui in laboratorio tocca fiori delicati a cui basterebbe
pochissimo per rovinarsi e appassire in breve tempo. Quella mano esita, poi si
posa sul fianco di Momo; lo sente sobbalzare per un gesto inaspettato e dunque attende.
Poi quando percepisce un sospiro lungo e un lieve rilassamento lascia che la
propria mano scivoli sulla sua schiena, fino a posizionarsi al centro. Fa una
pressione leggera, ma con tutta l’intenzione di portare Momo ad avvicinarsi di
più a lui.
«Yuki-san?!»
«Va bene.»
«No, voglio dire, la… la mano sta—»
«Lo so. Volevo stare più vicino.»
Momo lo guarda e boccheggia; è difficile non ridere, ma Yuki si trattiene,
vedendolo così rosso in viso. Legge nelle sue espressioni un’adorazione che non
pensava avrebbe mai visto rivolta a lui – né di rifletterla, con il tempo, dopo
tanta storia alle spalle. Non sa darle un altro nome, se non “storia”.
«Yuki-san...»
«Yuki.»
«Yuki-san per favore! Sto cercando di chiederti una cosa importante!»
«Però vorrei comunque che mi chiamassi solo Yuki.»
Lo vede esitare, profondamente combattuto. Aspetta, aspetta, ma poi muove la
propria mano e la fa salire fino a potergli sfiorare la nuca con le dita,
infilarne solo la punta tra i capelli prima di spostarsi e accarezzargli una
guancia, mentre si avvicina fino a sentirlo trattenere il respiro come un
bambino che non crede al regalo che stanno per fargli. Indugia per un solo
secondo, senza alcuna cattiveria, ma per realizzare con tutti i sensi che
questa cosa sta succedendo davvero, Momo è lì e quando Yuki lo bacia non è la
sovrapposizione di due immagini simili senza contorni da definire, ma il
desiderio di sentire che il suo centro sta tornando a posto, rendendo di nuovo
tutto stabile.
Posa le labbra su quelle di Sunohara Momose perché, adesso, ci sono solo loro due e il suono
della pioggia, e anche se niente di tutto quello è un sogno che acquista
finalmente senso, sente di poter dire finalmente che va tutto bene.
«Yuki...» Momo lo soffia così piano, il suo nome, da pensare abbia paura di
farlo sentire a qualcuno.
«Mh?»
«Vedi ancora cose che ti fanno stare male?»
È incredibile come “cose che non esistono” sia diventato quello, “cose
che ti fanno male”, e come una connotazione diversa e non positiva riesca,
comunque, a renderle parole gentili dietro cui si nasconde un affetto smisurato.
Ancora troppo timido per ammettere a se stesso di
essere un amore impossibile da spiegare anche dopo tutta una vita, figurarsi
quando si è solo all’inizio.
Yuki guarda verso la parte alta del materasso, dove ha poggiato il regalo che
Momo gli ha dato appena arrivato: un carillon costruito da lui. Lo apre con
cura, lasciando che una melodia meccanica si diffonda nella stanza; all’interno
del piccolo cofanetto, una farfalla d’ingranaggi muove piano le ali, quasi resa
viva dalla musica.
«No. Non ci sono più cose che mi fanno stare male.»
Ci crede davvero.
A volte ci si rende conto di essere in un sogno anche mentre si continua a
sognare.
Per un istante Yuki sente il panico montargli dentro, mentre un profumo
familiare e una melodia conosciuta quasi gli annebbiano i sensi. Per la prima
volta, però, una figura nitida lo avvicina: quasi rimane male nel dare
finalmente dei contorni definiti a una ragazzina e sentirsi come ci si sente di
norma di fronte a uno sconosciuto.
Senza provare niente di speciale.
Lei lo guarda con un sorriso sbarazzino, una punta di dolcezza che si perde
nella vivacità di un vestitino leggero verde; nonostante la lunga treccia
bionda che le poggia su una spalla, in una pettinatura da donnina, nei
lineamenti e nella pelle liscia e di un bel colorito roseo Yuki legge un’età
giovane.
«Da qui
sai la strada, vero?»
Non è sicuro di conoscerla, ma non è nemmeno più certo che sia una sconosciuta:
si guarda intorno, con la calma data dalla cautela, senza identificare molto.
Dentro di sé, però, sente di sapere esattamente dove deve andare. Per strano
che sia, non è in direzione del profumo di fiori né del suono di violino che si
fa sempre più lontano.
«Sì. Credo di sì.»
Lei si fa scappare una risata allegra, facendo una piccola piroetta su se stessa, le braccia allargate come se volesse mostrargli
in un solo istante tutto il mondo.
«Io vado dall’altra parte, dunque. Ce la fai senza di me?»
«Sì.» in realtà una piccola, piccola parte di lui vorrebbe dire di no solo
perché conscia che altrimenti quello sarà un addio, non un arrivederci. La
ragazzina lo fissa, gli prende una mano e se la porta al viso, obbligandolo con
gentilezza a farle una carezza. Sorride con più dolcezza, un’espressione più
matura della sua età. Poi lo lascia andare.
«Lo sapevo che eri ancora gentile come ti ricordavo io.»
«Tu ce la fai, senza di me?»
«Sì. Ti sei preso cura di me, e adesso io ho una casa in cui starò sempre
bene.»
Senza dubbio quello è un addio. Però non è triste come Yuki se lo ricorda, come
lo ha sempre considerato; è un po’ come se sapesse di non poterlo evitare, e un
po’ come se in realtà quello fosse un ricordo e lui quell’addio lo avesse già
pronunciato tanto tempo fa.
«Allora io vado, Dissen.»
Quando lei si volta lui la richiama, solo per un momento, per un’ultima domanda.
( La
ragazzina cammina all’indietro, così da guardarlo mentre si allontana.
«Mi chiamo Mary» risponde. )