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Autore: Moony16    12/02/2018    2 recensioni
Berlino non era ancora una città sporca di sangue quando Caroline vi arrivò contro la sua volontà in quell'estate del 1940, quando nessuno avrebbe potuto immaginare la piega che avrebbe preso la storia. Con sè, solo una nuova identità, un nuovo nome, la stella di Davide finalmente strappata via dai vestiti e una vita intera lasciata alle spalle.
L'accompagna Joseph, un giovane ufficiale delle SS, il perfetto ariano, uno di quei uomini che potrebbe benissimo stare tra le figurine che la ragazze si passano tra i banchi di scuola, in una rivista del partito nazionalsocialista o in un volantino che incita alla guerra, per riprendersi il "Lebensraum", lo spazio vitale tedesco.
Cosa li lega? Nulla in realtà, se non un'infanzia passata insieme e un debito che pende sulla testa del giovane come una condanna.
***
LA STORIA E' INCOMPLETA QUI, MA LA STO REVISIONANDO E RIPUBBLICANDO SU WATTPAD NELL'ACCOUNT Moony_97, DOVE LA COMPLETERO'
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Storico
Capitoli:
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Prologo

Germania, Friburgo, 1924
Il cielo era luminoso quel giorno di Agosto, il sole rischiarava i tetti spioventi tipici della città e le foglie sembravano brillare. Era metà mattina, le strade erano animate di gente, il fiume Dreisam scorreva placido riflettendo la luce. Due bambini, dalle pendici del Schauinsland, proprio agli inizi della foresta nera, giocavano ridendo divertiti. Sembrava stessero facendo qualche strano gioco inventato da loro e il modo in cui si guardavano rapiti indicava che erano inconsapevoli del resto del mondo circostante. Erano come dentro una bolla di felicità e spensieratezza.
Joseph e Caroline erano vicini di casa e inseparabili. Entrambi figli unici, erano cresciuti insieme come fratelli, o forse  qualcosa in più. La madre di Joseph era morta di parto, mentre Caroline … beh i suoi semplicemente non erano più riusciti ad avere altri bambini. 
Joseph aveva sei anni, mentre Caroline appena quattro. Lui aveva i capelli biondissimi lisci e sottili, che portava sempre molto corti. I suoi lineamenti erano affilati, la pelle pallida e gli occhi di un azzurro chiarissimo, che d’inverno sembrava grigio. Si vedeva che sarebbe diventato alto ed era magro come un chiodo.
Se i suoi colori erano così tenui e delicati, quelli di Caroline erano tutto l’opposto. La bambina aveva ricci e vaporosi capelli, rossi come lingue di fuoco, e gli occhi uguali al colore delle foglie smeraldine accanto a loro. Il suo viso infantile era paffuto e aveva il naso all’insù spruzzato di efelidi. 
Da qualche parte nella foresta, doveva esserci il padre di Joseph. L’uomo, reduce di guerra, al suo miracoloso ritorno in patria aveva trovato la moglie morta e un bambino piccolo da accudire. Con il governo allo stremo e nessuno disposto ad assumerlo in un impiego fisso, aveva dovuto arrangiarsi. Così lavorava un po’ dappertutto, come spazzino, muratore, imbianchino, e un altro milione di lavori che aveva fatto per riuscire a mantenersi. Aveva imparato anche a distinguere i funghi velenosi, e così su quel monte andava a raccoglierli insieme a delle erbe che la farmacista non mancava mai di pagare con qualche spicciolo. Nelle giornate come quelle portava con sé il figlio nella speranza – inutile – che imparasse qualcosa. Il bambino era troppo piccolo e insisteva sempre per portarsi dietro la figlia del proprietario di quelle due piccole stanze che avevano in affitto e dove vivevano. 
Comunque, il signor Muller non poteva lamentarsi. I genitori della bambina, forse perché desideravano tanto un altro figlio senza riuscire ad averlo, forse stupiti dall’intelligenza del ragazzino o forse perché lui faceva felice loro figlia come nessuno, avevano preso a cuore il piccolo Joseph. E poiché erano straricchi, il bambino non rischiava mai di andare a letto senza cena, a differenza del padre. Lo avevano preso sotto la loro ala protettrice e, nonostante il padre avesse protestato molto, gli mantenevano persino gli studi. 
Il signor Muller si sentiva umiliato dalla situazione creatasi, ma se voleva che Joseph studiasse, quello era il prezzo, ed era disposto a pagarlo. Voleva che suo figlio potesse avere un futuro. Certo, i parenti della moglie erano benestanti, però non erano mai stati in buoni rapporti e lui preferiva l’elemosina di quei gentili signori rispetto al dover chiedere soldi per l’istruzione di suo figlio a loro.
I due bambini dunque erano con lui, ufficialmente per aiutarlo, praticamente per giocare e godersi il sole estivo. 
Ad un certo punto Caroline, sdraiata a pancia in su con lo sguardo verso il cielo, si era girata verso Joseph con le sopraciglia aggrottate.
«Joseph, dove è tuo padre?» aveva chiesto. Si era accorta che non sentiva più i passi del signor Muller e aveva avuto paura. Il bambino si era alzato e le aveva teso la mano, aiutandola a mettersi in piedi, poi si era guardato in torno. Aveva i calzoncini marroni sporchi di terra e la maglia bianca tutta stropicciata. Il vestitino di lei non era messo meglio. 
«non lo so, ma tornerà. Si sarà allontanato un po’ di più» disse ostentando una sicurezza che non aveva. Anche lui aveva avuto paura quando, guardandosi intorno, non aveva scorto la figura rassicurante del padre. 
«e se non torna?» chiese quella spaventata, gli occhi grandi spalancati dal terrore.
«torna, fidati di me. E anche se non tornasse, ci sono io»
«sapresti tornare a casa?» la bambina era scettica e Joseph rispose troppo velocemente
«si, certo» mentì. Non voleva spaventarla, doveva proteggerla. Anche solo da quel sentimento di paura che era nato in lei. Era suo dovere farlo: era la persona a cui voleva più bene oltre suo padre, era bellissima, e si fidava ciecamente di lui. Era la sorellina che non aveva mai avuto e da che ricordava aveva sempre provato l’istinto di difenderla da ogni cosa;  che si trattasse dei ragni che la spaventavano tanto o dei  tuoni durante i temporali.
«e poi con me non devi avere paura: io ti proteggerò sempre» disse sicuro.
«mano sul cuore?» lui aveva riso e aveva messo la mano destra sul cuore.
«mano sul cuore, Elly» lei si imbronciò
«non chiamarmi Elly! Altrimenti ti chiamo “Jo” e sembri una femmina!»
«Elly! Elly! Elly! Elly» cominciò a canzonarla mentre le facevano il solletico e lei si dimenava come una pazza sul terreno scuro della foresta. Cominciarono a rotolarsi e le loro risate riecheggiavano allegre per la foresta.
Gli alberi conservarono quella promessa, che lui avrebbe sempre rispettato e che lei avrebbe sempre ricordato, nonostante fossero solo bambini. 
Dopotutto, un giuramento è un giuramento.
Quando lei finalmente si arrese, la pancia dolorante per le troppe risa, non aveva potuto fare a meno di abbracciarlo e sussurrargli.
«ti voglio bene, Jo» innocente. E bene gliene voleva per davvero. 
Lo immaginava così, il principe di Cenerentola e Biancaneve e di tutte le altre fiabe che la madre le raccontava. Quei principi erano sempre belli come Jo e simpatici e buoni come lui. Se tutti gli altri maschi, anche gli amici stessi di Jo, la guardavano male perché era “femmina” e non giocavano con lei, lui la difendeva sempre, non le diceva mai di no, le offriva sempre la parte più buona del pane con la marmellata e qualche volta acconsentiva persino a giocare al dottore: lui era sempre il paziente.
Quindi gli voleva bene. Era suo fratello. Però, se avesse avuto un fratello, era sicura che non lo avrebbe considerato mai il suo principe. Quel posto nel suo piccolo cuoricino era riservato solo e soltanto a Jo.
***
Germania, Friburgo, 1929
Era Dicembre , la neve rendeva tutto gelido e in casa di Joseph non c’era neanche un pezzo di carbone per riscaldarsi. Tremando come una foglia, il ragazzino di quasi undici anni si guardava intorno spaesato. Era mezzanotte e il padre non era ancora tornato a casa. Era in ritardo di sei ore e fuori la tempesta infuriava, bestia implacabile e senza pietà.
Negli ultimi tempi le cose erano andate sempre peggio. Il padre faticava ogni giorno di più per trovare di che vivere, non pagavano l’affitto da tempo immemore e non avevano nulla con cui riscaldarsi. Non potevano neanche andare nella foresta, per cacciare qualcosa da mettere sotto i denti o raccogliere qualche frutto o fungo. Joseph aveva preso l’abitudine di pranzare a casa di Caroline e i genitori di lei lo guardavano compassionevoli, certi che fosse il suo unico pasto e senza sapere come fare per aiutarlo di più di come già facevano: Il signor Muller accettava ciò che davano al figlio, ma mai gli avrebbe permesso di fare di più. 
Joseph aveva cercato di aiutare il padre, svolgendo piccoli lavori che gli fruttavano quei pochi spiccioli di cui andava tanto fiero e che erano accolti sempre benevolmente dal padre. 
Quella sera però, al freddo e da solo, aveva davvero paura. Paura che fosse successa qualcosa a suo padre, di non sapere dove andare, cosa fare, a chi chiedere aiuto. Di botto, dopo ore passate immobile nella stessa posizione, era scoppiato in un pianto isterico. Senza suo padre, era solo. 
Ancora singhiozzando era uscito da casa sua per raggiungere la porta della casa di Caroline. Le due stanze che chiamava casa erano in realtà le cantine umide della casa di Caroline e per raggiungerla gli bastò salire quei gradini puliti ma consumati.
Dopo qualche minuto da che aveva bussato lo aveva accolto il padre della bambina, tutto tremante e singhiozzante, digiuno e disperato. L’uomo lo aveva guardato sospirando e lo aveva lasciato entrare, cercando di essergli d’aiuto come poteva.
Si era addormentato sfinito ore dopo, davanti al fuoco e sotto lo sguardo preoccupato di quei due signori a cui lui voleva tanto bene quanto lo si vuole a dei nonni o a degli zii affettuosi.
Il giorno dopo un signore con grandi baffi e un cappotto nero abbottonato fin sotto al mento, aveva bussato alla casa di Joseph.
Suo padre, aveva detto, era stato ritrovato quella mattina per strada. Morto disidratato. Di freddo o di fame? Non si sapeva e neanche importava. L’unica cosa che aveva importanza era il riconoscimento del cadavere, il funerale, l’affidamento del bambino e altre mille pratiche burocratiche che Joseph non aveva nessuna forza di ascoltare.
Di tutto si era occupato il padre di Caroline, comprese le lettere da mandare ai parenti rimasti del bambino, solo uno zio a Berlino e una zia zitella che abitava in campagna nella parte opposta del paese.
Caroline era stata la sua unica fonte di forza. Era grazie a lei se non era sprofondato nel torpore, se riusciva ancora a mandare giù qualche boccone di cibo o se riusciva a piegare la bocca in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso. Lei gli stava vicino, cercando di capire nonostante avesse solo nove anni. Lo faceva commuovere con quei dolcetti, che Caroline diceva preparati da lei con l’aiuto della cuoca, quando lui sapeva che l’unica cosa che la bambina aveva fatto era impastare tutto. Con quei bacetti sulle guancie quando piangeva. Con quel suo peluche preferito, che un giorno Joseph aveva trovato sul cuscino, con la sola spiegazione che lo avrebbe rallegrato. Con quel suo sgattaiolare nel suo letto per dormire abbracciati, che gli risparmiava tanti incubi.
Una sera però, davanti al fuoco, Caroline aveva dovuto comunicargli la notizia che lo avrebbe cambiato per sempre, che lo avrebbe portato ad essere ciò che non si sarebbe mai aspettato, qualcosa che gli avrebbe sconvolto l’animo.
«Joseph … devo dirti una cosa» aveva esordito sedendosi sul tappeto accanto a lui. Erano ancora bambini ma l’affiatamento che avevano era raro. 
«non è una bella notizia, vero?» aveva detto Joseph con lo sguardo fisso sul fuoco. Il cambiamento aveva già iniziato a manifestarsi in lui ma era ancora ammorbidito dalla figura di Caroline, la parte più bella della sua infanzia che era in quel modo terminata di botto.
«dipende dai punti di vista. Per me, è la notizia peggiore che ci possa essere» aveva detto lei, guardando a sua volta il fuoco.
«vogliono mandarmi in qualche orfanotrofio? Non preoccuparti, anche se non saremo vicini di casa, non smetteremo di essere amici» si era sforzato anche di sorriderle prendendole una mano. Lei lo aveva guardato in viso e Joseph si era accorto che piangeva. E un campanello di allarme era suonato nella sua testa, perché Caroline era una bambina che non piangeva mai. Mai.
«Caroline, dove vogliono mandarmi?» si era allarmato.
«a Berlino, da quel tuo zio medico» aveva singhiozzando lei, affondando la faccia sul suo petto. Lui non aveva pianto. Si era stancato di versare lacrime. Aveva solo sentito qualcosa inclinarsi nel suo cuore. La rabbia lo travolse, per essere stato strappato da sua madre a causa delle pessime condizioni in cui era nato, durante la guerra; da suo padre, per colpa dell’inflazione e di tutti quei ricchi che abusavano del loro denaro, destinando ad una morte vergognosa altri esseri umani; separato dalla sua migliore amica, da sua sorella, l’unica persona che le era rimasta, a causa di quelle dannate leggi sbagliate. La rabbia, aveva iniziato a covare in lui, ceca, ringhiante, feroce e  senza perdono, come un cancro che piano avrebbe consumato tutto ciò che aveva intorno.
Aveva abbracciato quella bambina dolce e piena della stessa innocenza che stava scivolando via da lui veloce come l’olio.
Era dovuto salire in carrozza, guardando i suoi occhi verdi scuri di lacrime e gli sguardi compassionevoli di quei signori che tanto gli avevano dato. Prima però li aveva abbracciati forte, ringraziandoli mille volte della loro gentilezza. L’uomo era stato burbero come sempre, anche se Joseph aveva distinto gli occhi lucidi. La donna era semplicemente scoppiata in lacrime: si era abituata a considerarlo come un figlio e perderlo era devastante: avevano provato a farlo restare con loro, ma non era stato possibile. Poi si era avvicinato a Caroline e abbracciandola aveva suggellato la sua promessa.
«Tornerò Caroline. Ho promesso di proteggerti sempre, ricordi? In qualsiasi momento tu avrai bisogno, chiedimelo: per quanto potrò, io ti aiuterò» lei aveva annuito contro la sua spalla. Non voleva lasciarlo. Era ancorata alle sue spalle magre con tutta la forza che aveva in corpo e non voleva lasciarlo andare. Si rifiutava categoricamente di credere che non lo avrebbe più rivisto.
«tornerò Caroline, te lo giuro. E sarò ricco e coperto di gloria. Verrò qui e ti sposerò» disse con l’avventatezza dei bambini. Eppure era sicuro, nonostante avesse solo unidici anni, che se avesse mai voluto stare con una donna per sempre, era lei. Non  lo annoiava mai come le altre bambine, lo conosceva benissimo e poi era bellissima.
«mano sul cuore?» aveva detto lei, tra le lacrime.
«mano sul cuore, Elly» giurò senza riuscire più a trattenere le lacrime.
«arrivederci allora, Jo» lo aveva salutato lei. Poi si era finalmente staccata da lui, singhiozzando. 
Lui era salito nella carrozza tremando e si era affacciato. Mentre quella partiva aveva urlato anche lui il suo arrivederci. Non era un addio, non poteva neanche lontanamente considerare che si trattasse di una addio.
Ne sarebbe morto, altrimenti.
 

Capitolo 1: Ufficiale

Francia, Parigi, 1940
Joseph Müller, ventuno anni, giovane, bello e intelligente, guardava allo specchio il suo aspetto, un sorriso compiaciuto a increspargli le labbra sottili.
L’uniforme nera gli donava, ne era certo. Metteva in risalto il suo fisico e la sua carnagione, mentre i suoi occhi assumevano la tonalità del fumo. Lo stesso fumo che saliva dalla città fino a qualche giorno prima, a opera dei suoi fratelli tedeschi.
Era soddisfatto Joseph, nonostante la ferita da arma da fuoco al fianco gli procurasse dolore ad ogni movimento. Si era distinto in battaglia, aveva condotto magnificamente il suo reggimento, combattuto con valore e ridotto al minimo la perdita di uomini. Insomma la sua carriera da comandante nelle SS non avrebbe potuto cominciare meglio. La croce di ferro di secondo grado faceva bella mostra di sé nella divisa, ed era sicuro che tornato in patria le ragazze, guardandolo, gli sarebbero cadute ai piedi.
Durante la parata, svoltasi quello stesso giorno, aveva persino stretto la mano al Fhurer, cosa che lo aveva riempito di orgoglio e di autocompiacimento.
La carriera militare lo aveva arricchito e ricoperto di gloria. Era una ragazzino quando, nel 1933, Hitler aveva assunto il potere. Ma gli ideali del partito rispondevano alla sua rabbia, trovavano i colpevoli per le sue disgrazie, lo facevano sentire parte di qualcosa. Si era iscritto praticamente subito e da lì aveva intrapreso quella carriera che gli stava dando tanti onori.
A sedici anni infatti, grazie al suo ottimo rendimento scolastico, il suo aspetto da perfetto ariano e la sua prestanza fisica, era entrato nella NaPoLa più vicina a Berlino e si era diplomato con il massimo dei voti. Poco dopo aver compiuto i diciotto anni era entrato nella Waffen-SS. Aveva preso parte alla notte dei cristalli insieme ai suoi compagni, si era sentito dio sceso in terra camminando baldanzoso per le vie della città, mentre la gente abbassa lo sguardo al suo passaggio. Dall’anno precedente aveva  ottenuto vittorie su vittorie, era inarrestabile, una forza della natura. Stava finalmente facendo ciò per cui era stato addestrato e ne ricavava gioia e orgoglio. Eseguiva gli ordini in ogni caso, qualunque essi fossero, la sua coscienza, i suoi sentimenti erano dettagli irrilevanti di qualcosa di più grande e più importante. Qualcosa di cui era orgoglioso di fare parte.
Sorridendo si spogliò e si mise a letto, nella camera che gli era stata assegnata per quella notte, negli occhi, la Parigi conquistata e sottomessa del giorno prima.
L’indomani sarebbe partito per la Germania, per un breve periodo di permesso, concessogli a causa della ferita riportata. Non era però sua intenzione arrivare subito a Berlino: si sarebbe fermato prima, a Friburgo, sua città natale, che non vedeva da ben dieci anni. Dopotutto aveva fatto una promessa, aveva giurato che quello non sarebbe stato un addio. Non rivedeva Elly da quando era partito e lei aveva smesso di scrivergli quando l’aveva informata di essere entrato nella gioventù hitleriana. Ne aveva dedotto che non approvava, e questo era precisamente il motivo per cui non era sicuro di restare a lungo a Friburgo. L’unica ragione per cui vi ritornava era rivedere la sua vecchia amica, fedele alla promessa fatta quel giorno, quando le aveva giurato che quello non era un addio. 
E poi, era suo dovere trovare moglie, per continuare la stirpe ariana. Non amava però nessuna donna, non aveva mai avuto il tempo di occuparsene e neanche la voglia. Di solito i suoi rapporti con il gentil sesso erano limitati ad avventure di una notte e non avrebbe mai sposato una di quelle sgualdrine che si portava a letto. Così, se Elly fosse stata ancora libera, avrebbe potuto farci anche un pensierino. Dopotutto era sicuro che tra loro ci fosse almeno una solida base di affetto, lui era ormai ricco e lei anche. Sarebbero stati felici, più o meno. Dopotutto il suo scopo non era l’amore, ma la procreazione, una bella donna che gli facesse compagnia alle serate importanti e gli rendesse la casa tranquilla e accogliente. 
La ferita lo disturbava, pulsava e bruciava, gli impediva di dormire bene, facendolo rigirare nel letto, mentre i pensieri lo invadevano.
Era stato colpito proprio all’ultimo, qualche giorno prima, durante uno degli ultimi attacchi all’assedio di Parigi. Aveva sparato ad un uomo e credendolo morto, era passato avanti. Il bastardo però era ancora vivo, e prima di beccarsi una pallottola in testa dal suo sottotenente era riuscito a sparargli. Fortunatamente la pallottola lo aveva colpito in maniera superficiale, altrimenti si sarebbe trovato con qualche organo interno spappolato.
 Sapeva che quello squarcio che aveva sul fianco non era una cosa da prendere sottogamba e che doveva curarsi se non voleva beccarsi un’infezione. Ci avrebbe messo mesi a guarire del tutto e tornare in battaglia in quello stato, ne era sicuro, gli sarebbe costata la vita. Non che importasse: era pronto a morire per il suo paese senza esitare un solo istante. Però i suoi superiori erano d’accordo nel credere che sarebbe stato uno spreco e che avrebbe potuto riprendere a combattere quando si sarebbe rimesso del tutto. Nel frattempo quindi avrebbe svolto un lavoro da ufficio a Berlino
Era sicuro che la sconfitta della prima guerra mondiale, che aveva portato sua madre a morire di parto, e la crisi del dopoguerra, che aveva portato suo padre a morire di fame, fosse solo causa degli ebrei. Li odiava con tutto se stesso, senza nessuna pietà, istigato dalla propaganda del regime, infuocato dalla sua rabbia. Erano bestie, e come tali andavano trattati e ad ogni cattiveria verso il popolo ebraico sentiva di togliere un altro po’ del cancro che opprimeva il suo popolo, di estirpare quelle erbacce che minacciavano di soffocare la sua razza.
Si alzò dal letto sbuffando e guardò fuori dalla finestra. Gli Champs-Elysees erano bui, non un’anima camminava per quella famosa via, sempre in fermento prima della guerra.  L’intera città sembrava urlare “tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure”*. Parigi, dopotutto, era poetica anche in quello stato, pensò, sorridendo ironico. 
In piedi, il fianco faceva ancora più male, però non riusciva più a stare sdraiato con gli occhi chiari fissi sul soffitto. Sospirò esasperato, senza sapere che fare. Il giorno dopo, ne era sicuro, il viaggio in auto sarebbe stato un tormento, con le strade distrutte e la posizione scomodissima per la sua ferita.
Si sdraiò di nuovo, convinto a racimolare almeno un paio d’ore di sonno, mentre la notte era sempre più buia.
***
Friburgo apparve lontana e bellissima, rischiarata dalla luce del tramonto. Aveva impiegato un giorno intero a raggiungerla, partendo alle sei del mattino e riducendo le pause al minimo indispensabile. La sua auto militare, gentilmente concessagli dal generale, sembrava sbuffare arrancando per la strada. L’auto era piena di soldati, tutti nervosi e sfiniti dalla guerra e dal viaggio. Guidava Joseph, che nonostante la ferita al fianco era quello messo meglio. L’uomo che gli sedeva accanto si era ritrovato vicino ad una granata e aveva così perso un occhio, oltre ad essersi procurato innumerevoli ferite. Dietro c’erano due soldati, uno era stato ferito all’addome da un proiettile, fortunatamente era abbastanza lontano da non aver subito danni irreparabili. L’altro soldato ancora aveva perso il braccio in una esplosione. Ferite di guerra, che portavano fieramente, ma che facevano fremere Joseph di rabbia. I suoi fratelli, mutilati! Quando li guardava, un odio viscerale nasceva nei confronti degli sconfitti, che, a suo parere, meritavano la morte anche solo per quello.
Vedere la città illuminata dalla luce del sole morente, li riempì di gioia. Il viaggio era stato lungo, le ferite dolevano, erano a disagio e avevano tutti bisogno di una bella dormita. Joseph non sapeva dove avrebbe passato la notte. Pensava ad un albergo, o alla casa di Elly. Non sapeva se l’avrebbero ospitato ma non importava più di tanto. Il vecchio albergo infondo alla via in cui abitava da bambino sarebbe andato benissimo.
Fermò l’auto di fronte la caserma centrale della città. Registrarono il loro arrivo, quindi li congedarono.
Era smanioso di rivedere la sua vecchia amica, così si incamminò, pensieroso, per quelle strade tanto familiari quanto lontane nei ricordi.
Gli sembrava di essere tornato bambino e il suo cuore sarebbe stato certo molto più leggero, se non avesse avuto l’impressione di veder spuntare il padre da ogni angolo. Ma era morto e di lui restavano solo le ossa, a quel punto. Era sepolto nel cimitero della città, e ufficialmente era questo il motivo per cui stava andando lì. Ma a lui non importava del cimitero. La morte non può essere rappresentata da un corpo freddo e mangiato dai vermi, polvere, inutile spoglia senza vita. I morti, si era convinto, vivono nei ricordi dei vivi, non nelle effigi delle lapidi, in uno squallido cimitero. Forse però quella sua convinzione era solo una spiegazione che si era dato, per poter convincersi che non importava il fatto che non aveva mai potuto portare dei fiori sulla tomba del padre. Un modo per giustificarsi e per non impazzire al pensiero di avergli mancato di rispetto.
Percorse le strade velocemente, ma quando si trovò di fronte la casa in cui aveva abitato, la trovò grigia e con le finestre sbarrate. La porta era scrostata e le finestre erano coperte di polvere, il colore della facciata era sbiadito. Non ci abitava nessuno da anni, era palese. Ma allora dov’erano? Si guardò intorno spaesato, senza sapere che fare. Una signora dalla finestra della casa di fronte lo guardava curiosa, così lui la chiamò, ricordando che era la stessa signora che anni prima gli lanciava secchi di acqua gelata addosso, quando faceva troppi schiamazzi con i suoi amici. 
«signora Meyr!» chiamò a gran voce. Quella si ritrasse spaventata dalla finestra.
«signora Meyr non faccia la timida, si ricorda di me, no?» urlò di nuovo. Il silenzio più totale nella strada.
«sono Joseph Müller, signora Meyr. Vorrei solo parlarle» disse infine. Dopo qualche secondo lei si affacciò.
«non conosco nessun Joseph Müller!» lui sospirò.
«signora Meyr sono lo stesso ragazzino che anni fa abitava in questa casa. Si ricorda? Mi beccava sempre, con quei secchi d’acqua!» disse infastidito dalla ritrosia della signora. Avrebbe potuto essere più duro, però non era in veste di militare in quel luogo, nonostante l’uniforme. Non voleva essere sgarbato.
«senta, mi serve solo sapere che fine hanno fatto gli Huber»
«me lo dica e me ne andrò» aggiunse, dopo il silenzio della signora. Lei allora gli urlò un indirizzo e rientrò dentro casa. Lui si accigliò sentendo il nome della strada, in un dei quartieri più poveri della città. Il signor Huber doveva aver fallito, constatò. Se ne dispiacque, anche se era sicuro che la cosa fosse dovuta alla sua non-aderenza al partito. Dopotutto, era lo stesso motivo per cui Elly non gli aveva più scritto. Però erano gli Huber e non gli importava più di tanto, nonostante tutto. Era grazie a loro se era ancora vivo, se aveva potuto studiare, arrivando dove era in quel momento, se aveva conosciuto Elly, la bambina che aveva reso felice la sua infanzia. Avrebbe potuto giudicare chiunque, ma non loro. Guardò l’ora e sospirò. Erano ormai le dieci e mezza, sarebbe stato inopportuno presentarsi a casa di qualcuno a quell’ora. Così strascicando i piedi, si diresse all’albergo in fondo alla via, il disappunto stampato in viso, per non aver potuto soddisfare la sua curiosità.
Si, perché era anche curioso. Da bambino considerava Elly una bambina bellissima. Amava i suoi capelli, e aveva continuato ad amarli nonostante, secondo l’ideale di bellezza di quel momento, dovessero essere biondi. Bastavano i suoi, di quel colore. 
E poi aveva ricevuto delle foto, l’ultima era del suo dodicesimo compleanno. E gli sembrava che stesse cambiando in meglio. Però in quel momento la ragazza doveva avere diciannove anni, e lui non aveva idea di come fosse.
Arrivò in albergo in quello stato, urgendo un cambio di bende e un po’ di riposo. Prese una camera e la raggiunse borbottando. L’euforia era svanita, lasciando dietro di sé solo stanchezza e un dolore al fianco che sembrava aumentare ad ogni passo. Si spogliò cercando di muoversi il più lentamente possibile. Trovò la benda sporca di sangue e imprecò. Dai punti di sutura, molto tirati, stillavano goccioline di sangue e una sostanza bianchiccia che fece suonare i suoi campanellini d’allarme. La ferita si era infettata, tutto intorno era rosso e bruciava, mentre il solco, ricucito, sembrava scavato nella pelle. Se non fosse stato in guerra, probabilmente avrebbe vomitato. Mantenne invece la calma, pulendo la ferita come aveva detto di fare il medico, disinfettandola con quel prodotto che bruciava da morire, per poi richiuderla in bende candide e sterilizzate. Dopo un’ignizione di penicillina, per evitare le infezioni, si coricò stanco, addormentandosi quasi immediatamente.
Quella notte Joseph dormì bene. Forse perché era stanco morto, forse perché quel luogo gli dava pace e il letto era così morbido … comunque si svegliò alle otto e mezza, stupendosi di quel ritardo. Di solito, come minimo, la sveglia per lui suonava alle sei. Si alzò stiracchiandosi, soddisfatto dalla dormita e sollevato che il dolore al fianco fosse diminuito. Senza fretta, si lavò e indossò l’uniforme nera, non avendo con sé abiti civili. Erano le nove quando, con passo svelto, si incamminò verso l’indirizzo che aveva ottenuto il giorno prima dalla signora. Il luogo, come aveva immaginato, era una topaia, le strade strette e le case malmesse. Il numero a cui doveva bussare era la porta per una cantina. Si rattristò, vedendo quello squallore. La famiglia che ricordava non lo meritava affatto. Bussò alla porta rovinata e sporca con sicurezza, mentre il cuore cominciava a battergli all’impazzata. Dopo un paio di minuti questa si aprì, rivelando una figura femminile. Aveva i capelli rossi e ricci, acconciati in una crocchia disordinata. I vestiti sembravano corti e decisamente consumati, il viso magrissimo, su cui spiccavano come non mai i grandi occhi verdi. I polsi erano sottilissimi e lei così magra da fargli credere che, d’inverno, il vento dovesse trascinarla. Aveva un colorito malsano, grigiastro, e ogni tanto era scossa da attacchi violenti di tosse.
Non appena lo vide il suo viso si riempì di terrore, impallidì e lasciò cadere un panno che aveva in mano. Lui la guardò stupito, e credendola prossima ad uno svenimento, chiese cortesemente:
«posso entrare?» lei spalancò gli occhi e con l’aria di un condannato a morte, si fece da parte. Lui varcò la soglia, chiudendosi la porta alle spalle, poi rispettoso si tolse il cappello dalla testa, stringendolo in mano nervosamente.
«d-di cosa ha bisogno?» chiese balbettando un po’, con un tono così spaventato da innervosirlo.
«non mi riconosci?» chiese stupito. Lei lo guardò confusa.
«riconoscerlo? M-mi dispiace, io non l’ho mai visto prima» rispose, con gli occhi piantati sul pavimento.
«Elly, c’è solo una persona in questo mondo che ti chiama così. E quella persona sono sempre stata io» disse con dolcezza, avvicinandosi  un poco a lei. La consapevolezza la investì, sentendo il suo nome pronunciato in quel modo, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Si impose di mantenere ferma la voce.
«l’unico a chiamarmi così era Joseph Müller, signore» disse lei, alzando lo sguardo sui suoi occhi di ghiaccio.
«lo so. Non chiamarmi signore è imbarazzante» disse guardandosi intorno, incerto su che comportamento assumere. Cominciava a pensare che quella non fosse stata una buona idea, ma sapeva che non avrebbe potuto fare altrimenti. Non si aspettava quell’accoglienza così fredda. Aveva immaginato milioni di volte il momento in cui l’avrebbe rivista. Aveva immaginato una ragazza simile a lei, ma sicuramente meno scheletrica, ben vestita, che gli correva incontro e lo abbracciava dopo dieci anni di separazione. Una ragazza pronta a spiegargli perché lo aveva ignorato, a riprendere la loro amicizia, felice di vederlo come se avesse ritrovato un fratello. Non si aspettava affatto di sentire un tono tanto freddo e distaccato. Era stato come ricevere un pugno in pieno petto. Se aveva conservato un briciolo di umanità, durante l’addestramento e poi nella guerra, era solo grazie alla dolcezza del suo ricordo. Lei, la cosa più bella della sua vita, che ormai da sei anni gli era scivolata dalle dita.
«sei uno di loro, come dovrei chiamarti?» singhiozzò alla fine lei. Tossì ancora, di petto, forte e senza riuscire a respirare bene. Si piegava su sé stessa, come a farsi piccola piccola. Appena finì, ricominciò con voce roca:
«non ci posso credere, sei uno di loro!» lui rimase fulminato.
«che vuoi dire?» lei alzò un attimo lo sguardo e incontrò i suoi occhi. 
«non lo ricordi vero? Oppure non lo hai mai saputo, in effetti è più probabile … »
«spiegati meglio» disse spazientito. La delusione gli scivolava inesorabile nel petto, amareggiandolo, rattristandolo. Si sentiva tradito: lui non l’avrebbe mai trattata in quel modo.
«Jo che ci fai qui?» chiese allora lei. Lui si addolcì un attimo a sentirla chiamare con il suo vecchio soprannome.
«avevo promesso che non era un addio» disse, leggermente in imbarazzo. Era una cosa da femminucce. Ma lui era sempre stato un uomo di parola. 
«Avrei preferito non vederti mai più, piuttosto che in questo modo!» urlò adirata.
«avevo smesso di scriverti, non ti rendi conto perché? Non puoi davvero essere così stupido da non averlo capito, il ragazzino che ricordo era molto più sveglio di così!» continuò, mentre lui la fissava sempre più sconvolto. Lo sforzo di gola però le costò caro, quindi si ritrovò di nuovo piegata dalla tosse.
«avrei preferito che fossi morto, Jo» sussurrò dopo qualche attimo di silenzio. Lui spalancò gli occhi, mentre il cuore gli diventava sempre più pesante, schiacciato dall’odio dell’unica persona di cui si era realmente fidato nella sua vita. L’unica ancora in vita, almeno.
«che stai dicendo? Sei impazzita per caso?» chiese, bianco come un cadavere.
«impazzita, io? E tu? Che vieni qui con quell’uniforme!»
«sono nelle SS e ne vado fiero» sibilò lui, allora. Pensava che lei non condividesse le decisioni del regime, e questo era intollerabile. Era solo grazie al Fhurer se lui aveva la possibilità di vendicare la morte dei genitori e avere un lavoro, solo grazie a lui se la loro nazione era rinata dalle ceneri di una guerra che aveva ridotto il paese sull’orlo del baratro.
«potrei farti arrestare per queste parole» aggiunse dopo, risentito.
«oh credimi, potresti farlo per molto meno» lui si accigliò, mentre la paura si impossessava di lui. E questo che vorrebbe dire? Pensò esasperato.
«che avete combinato? Perché vivete in questo luogo, e tu sembri uno scheletro?» chiese infine, temendo la risposta, che gli pendeva sul capo come una spada di Damocle. Non disse quanto gli risultasse preoccupante la tosse che la scuoteva di tanto in tanto.
Lei rimase in silenzio cercando le parole. Prese fiato, poi lo buttò fuori come avendo ripensato alle parole da pronunciare, quindi si sedette e lo fissò in viso.
«ricordi dove andavamo il venerdì sera?» lui si accigliò.
«no che non lo ricordo, non ne abbiamo mai parlato. So solo che tu ti annoiavi a morte» lei ridacchiò nervosa. 
«si beh … andare alla sinagoga era noioso» disse, gli occhi fissi sul pavimento. Lui la guardava senza capire.
«alla sinagoga? Ma lì vanno …» non finì la frase sperando di aver capito male, pregando che non fosse come la sua mente gli suggeriva.
«gli ebrei, lo so. Quelli come noi» Caroline si passò la mano sul viso, poi un altro attacco di tosse la colpì sotto lo sguardo perso di Joseph.
  
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