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Autore: Black Swallowtail    23/02/2018    0 recensioni
I ricordi più difficili da serbare, quelli che ci marchiano come una maledizione, sono quelli dei giorni più felici, macchiati dal proprio errore, distorti dal senso di colpa.
Aidan Reiss, l'esperto dell'occulto che cammina tra la realtà e il mondo sovrannaturale, è costantemente tormentato dalla promessa che ha compiuto, una croce che ha scelto per se stesso.
Dopo gli eventi che hanno portato al salvataggio di Jeiv Kondras, Azure Kuri, in un parco in rovina, abbandonato e distrutto, su un'altalena arrugginita, ascolterà la storia di Aidan — una storia di sofferenze, apatia, abbandono e rosso cremisi.
La storia della sua più grande perdita.
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Scary Monsters and Nice Spirits'
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III

Glass smile.

Non sono molti gli studenti rimasti a passeggiare tra le aule e nei corridoi. Con l'avvicinarsi della sera, e l'imbrunirsi del cielo, sopratutto in una giornata come questa, mentre le nuvole iniziano ad ammassarsi, per nascondere le scintille luminose delle stelle, la maggior parte delle persone si è già affrettata verso casa; per questo, quando scendo le scale che mi portano fino all'atrio, i miei passi rimbombano con una violenza scaturita dalla fretta, amplificata dalla totale assenza di altre figure, oltre a me. Con le mani in tasca, stringendo nella destra il pennello che Ayane ha abbandonato inavvertitamente, mi ritrovo a lasciarmi sfuggire un mezzo sbuffo, chiedendomi come possa essersi dimenticata di qualcosa di tanto importante.

Se si fosse trattato di uno stilo come gli altri, avrei aspettato l'indomani per riportaglielo, o lo avrei lasciato nell'aula del club di arte senza dargli troppo peso, ma questo piccolo oggetto che stringo tra le mani ha un'importanza che va ben oltre la sua utilità. Non c'è nemmeno bisogno che mi fermi ad osservarlo un momento di più, perché so benissimo che non è mai stato sfiorato da vernice o tempera, se non per qualche schizzo nero appena percettibile sulla punta dei crini attorcigliati tra di loro.

Il pennello con cui appone la propria firma, sul quale ha inciso il suo nome, il primo che abbia mai preso in mano, rappresenta una sorta di reliquia, a cui, strano a dirsi, la lega un valore affettivo di cui non ha mai fatto parola, ma che riesco ad intravedere semplicemente sfiorandolo. È stato toccato, accarezzato, con la massima cura, ma mai utilizzato o trattato con noncuranza; per lei, in qualche modo, ha un valore nebuloso ed insolito.

Una parte di me sembra punzecchiarmi, dicendomi che sto solo esagerando, che sto meramente cercando un motivo per starle accanto, per continuare a sentire la sua voce debole, annoiata, o osservare la sua espressione pensosa mentre riflette, immersa nella marea dei suoi pensieri tempestosi, di cui non riesco mai ad afferrare il burrascoso corso. La stessa parte di me mi ripete, tagliente, che ho bisogno di averla vicino, di sentire ancora qualcosa muoversi in me. È come quando si intravede un dettaglio meraviglioso, colorato, ma ancora pallido e fragile, nel mezzo di una distesa piana e stinta – se ne è fatalmente attratti, come una falena dalla fiamma che la brucia irrimediabilmente, come veleno che divora e consuma, ma il cui sapore è irrinunciabile.

Senza che nemmeno me ne sia accorto, la mia andatura è aumentata gradualmente, fino quasi a diventare corsa lungo l'ultima rampa di scale, accompagnato solo dal mio respiro veloce, improvvisamente più rapido, e la sensazione delle lettere sull'asta di legno, nella mia tasca, che i polpastrelli seguono senza pensarci, istintivamente, una scanalatura dopo l'altra, a formare il nome di Ayane.

Le porte sono aperte e l'aria gelida della sera mi investe con un prepotente aroma di terriccio secco e fiori esausti, che fuoriesce dalla serra socchiusa, in un angolo dell'ampio cortile. Il cielo si è venato di sfumature violacee che si avviluppano alle tinte oscure della notte imminente, che arriva dall'alto, dipanandosi in nero assoluto, senza nemmeno che uno spicchio di luna si riveli; i lampioni ai lati della strada già accesi rilucono di riflessi giallastri e arancioni che ricadono su una figura poggiata contro l'imponente cancello d'ingresso, la schiena sorretta dalle sbarre gelide e la testa leggermente piegata su un piccolo libretto, uno di quei romanzi in formato tascabile che si possono tenere aperti anche con una mano, mentre l'altra riposa, rilassata, nella tasca dei pantaloni.

Appena in penombra, rischiarato solo dall'albume di luce incerta accanto al quale sta attendendo con pazienza, non sembra disturbato dallo sporadico passare di qualche macchina o dal soffiare del vento autunnale, che solleva turbinii di foglie secche e minaccia di stropicciare le sottili pagine del suo romanzo; non capita di rado che qualche ragazzo rimanga ad aspettare fino all'orario di chiusura delle attività dei club scolastici, e non sembra esserci nulla d'insolito nella figura di questo studente che si limita a leggere un romanzo piuttosto spesso.

Quando gli passo accanto, e la luce ne illumina la figura a metà, gettando ombre spigolose e taglienti sul suo volto irriconoscibile e indefinito, la prima cosa che mi salta all'occhio è l'uniforme che indossa, dai colori leggermente più chiari della mia, e la spilla appuntata al petto che lo identifica come membro di una scuola che non appartiene a questo quartiere; giocherellando con la cravatta sfilacciata, liberata dal nodo, che ricade sfatta sulla giacca abbottonata, alza per un secondo gli occhi indistinguibili dal volume, un libro sulla cui copertina campeggiano appuntiti caratteri gotici, che non riesco a leggere. È una scrittura troppo spigolosa e complessa per riuscire ad interpretarla con un'occhiata così rapida, un'immagine che ho intravisto per una frazione di secondo, prima che, con un gesto deciso, chiuda il volume; l'indice rimane tra le pagine, senza perdere il segno, come se non volesse interrompere la sua lettura se non per poco.

È ovvio che si sia mosso per avvicinarsi a me, proprio come se mi avesse aspettato fino ad ora; è solo questione di un secondo, proprio mentre lo sto per superare, allontanandomi dal cancello, quando sento una sensazione di gelo diffondersi lungo la schiena. Come se una mano di cristalli ghiacciati mi abbia carezzato la pelle, scivolando fino nelle mie viscere, un brivido impercettibile si allunga fino a raggiungere la mia spina dorsale, bloccando il mio passo proprio quando la sua voce mi chiede di fermarmi.

“Sei uno studente di questa accademia, giusto?” Non c'è minaccia o alcuna nota intimidatoria, nella sua voce, né il suo aspetto sembra fuori dall'ordinario. Nel complesso, non c'è nulla di sinistro o allarmante tale da giustificare la sensazione di inquietudine che è improvvisamente sbocciata in me senza apparente ragione. L'uno di fronte all'altro, sul limitare del cancello principale della scuola, i suoi tratti si fanno leggermente più chiari, distinguibili, fino a che non riesco a vedere la sua figura risaltare contro il paesaggio di desolazione autunnale, in una strada ormai buia, di cui siamo gli unici abitatori.

Ma non è da lui che spira questa improvvisa ansia e, per quanto mi affanni a spostare impercettibilmente lo sguardo tutt'attorno, non mi sembra di intravedere nessun altro all'infuori di questo studente senza nome. Per quale ragione stia aspettando davanti ai cancelli, a quest'ora della sera, in un quartiere ben diverso da quello in cui si trova la scuola che frequenta, sono domande che ronzano nella mia testa, disturbate tuttavia dal rumore bianco che è la sensazione di allarme e gelo che ho sentito un secondo fa.

“Volevo chiederti se, per caso, tu abbia notato qualcosa di strano negli ultimi tempi.”

Scrollo le spalle, più per allontanare i brividi improvvisi e violenti, che per dargli una risposta, “Non sono una persona che presta molta attenzione alle cose che gli stanno attorno.”

La mia attenzione per le cose, la mia volontà di comprendere il mondo privo di colore, come un enorme distesa di bozze incompiute, si è spenta, bruciata tempo fa, riducendosi in cenere. L'unica eccezione, dopo tanto tempo, è stata proprio Ayane – e tutto quello che la circonda, che le sue dita sfiorano mai inavvertitamente. L'anonima figura picchietta le dita contro la copertina di brossura, producendo un basso ticchettio ritmico, che accompagna la sua espressione corrucciata, per un secondo, che si è fatta di colpo più seria.

“Immagino tu non sappia delle sparizioni degli ultimi mesi, allora.” La luce del lampione tremola, modificando il gioco di ombre sulla sua figura, nascondendo il suo viso per qualche istante, mentre faticosamente l'alone giallastro esita, comparendo e scomparendo, insieme al suo sguardo annoiato, alle sue labbra immobili in una piega di disappunto, “Alcuni studenti dell'accademia che risiedono in questo quartiere sono spariti mentre tornavano a casa a quest'ora di notte, negli ultimi tempi. Una strana coincidenza, non trovi?”

Qualcosa inizia ad agitarsi. Un rumore assordante, che riverbera per tutto il mio corpo, per tutte le mie ossa. Il battito sempre più veloce, sempre più rabbioso ad ogni parola, del cuore che si dimena ed urla. Urla di muovermi, di allontanarmi, perché il pericolo incombe su di lei.

Le mie dita stringono il pennello, seguono le lettere del suo nome, una dopo l'altra, con un nervosismo, una foga dettati dalla paura, dall'improvvisa allerta che quelle parole hanno innescato in me.

“Le ultime tre sparizioni sono avvenute tutte attorno a quel parco abbandonato nella zona residenziale, proprio al calare della notte.”

Il suono della sua voce è distante ed ovattato, a malapena discernibile, quasi soffocato dall'agitarsi del cuore, dall'urgenza di correre.

Le mie dita trovano l'ultima lettera del suo nome. Se n'è andata prima del solito, quando il sole stava calando, senza che io abbia provato a fermarla. Senza che riuscissi a dirle di rimanere.

Non sento nulla di ciò che mi sta dicendo, non riesco più a vedere nulla, al di là della strada sfocata di fronte a me, nella corsa affannosa scandita dall'ansimare della mia bocca, dall'abbassarsi irregolare del petto, dal battere folle che mi percuote e risuona dentro di me, scandendo quei pensieri aggrovigliati e pungenti.

L'ho lasciata andare senza nemmeno guardarla negli occhi, senza nemmeno cercare di capire cosa la tormentasse. Se solo le avessi detto di rimanere, se solo le avessi chiesto di svelarmi cosa si agiti in lei, se solo l'avessi trattenuta, se solo avessi provato a capirla, se solo avessi parlato, invece di osservarla, invece di tacere—

Non so chi sto supplicando sottovoce, non so a chi sto rivolgendo, con tutto me stesso, la disperata preghiera che stia bene, che non sia in pericolo, che non le sia accaduto nulla. Perché, nei giorni in cui è così divorata dal dubbio e dal tormento che tiene dentro e che la corrode, che non lascia mai intravedere a nessuno, c'è solo un luogo in cui la solitudine riesce a darle conforto. Un luogo che le è sorprendentemente affine, nella sua diversità; perché, se lei è così appariscente, così perfettamente costruita, nel suo aspetto esteriore, vive in un mondo di disperate macerie, un divorante vuoto, una rovina di abbandono.

Nei giorni in cui vuole fuggire, in cui qualcosa in lei si spezza, si rifugia in quel luogo che è anche la sua antitesi. In un parco abbandonato e ridotto in pezzi, in mezzo al quartiere residenziale.

Avrei voluto tendere la mano per prendere la tua, stringerla per trattenerti. Cercare di farti capire che, per quanto tu appaia così invincibile e spinosa, velenosa e divorante, non c'è bisogno di essere forte, con me. Non c'è bisogno di nascondersi, di rifugiarsi in te stessa – perché quel vuoto assoluto che tenti di colmare, lo sento anche io, che mi consuma e distrugge. E se non possiamo guarirlo, non ci resta che poggiarci l'uno all'altro, e leccare le nostre ferite a vicenda. Due animi danneggiati che si cercano e si aggrappano egoisticamente l'uno all'altro.

Avrei voluto farti comprendere che, per quanto poco, per quanto inutile, tu avresti sempre potuto contare su di me, senza bisogno di dirmi nulla, senza bisogno di mostrarmi le tue ferite invisibili, i tuoi più profondi e distorti abissi.

Ed invece, ti ho lasciato scivolare via, ancora ed ancora, senza riuscire a parlare, senza riuscire a toccarti – mi odierò per sempre, per questo.

Attraverso strade tra il rumore di clacson infuriarti ed urla cariche di insulti, quando mi lancio sulla strada senza controllare il colore del semaforo, senza prestare attenzione alle persone che spintono, in mezzo a questa via sbozzata, di cui distinguo appena i contorni, disegni abbandonati su una tavola incompiuta. Rischio di inciampare, ma mi mordo le labbra e continuo a correre incespicando, insultandomi a bassa voce, con le gambe che fanno fatica a sorreggermi, a spingermi ancora, a sopportare lo sforzo di questa corsa disperata. Crollo in ginocchio di fronte ad un cancello arrugginito e scardinato, prendendolo a pugni, mentre la mia vista minaccia di offuscarsi, non so se per la fatica o per le cocenti lacrime di vergogna al pensiero di quel che ho fatto. Di quel che non ho fatto.

L'erba secca che cresce tra le attrazioni dimenticate di questo parchetto mi è familiare, con il suo pallido colore verdastro che conserva ancora le reminiscenze dell'estate passata. È abbastanza alta da arrivare alle ginocchia e, agitandosi al vento notturno, graffia le mie mani quando mi rialzo in piedi, ansimando, nel tentativo di riprendere fiato dopo quello scatto improvviso. Mentre avanzo lungo la stradina consunta che si snoda tra i cespugli di rovi e l'erba rinsecchita, le foglie cadute dagli alberi frusciano sotto i miei piedi, le prime staccatesi dai rami, svuotate della vita dall'avvicinarsi del gelo invernale. Con le ginocchia doloranti e il cuore che ancora si contorce e ulula, i polmoni che bruciano ed implorano un momento di riposo, barcollo fino ad uno spiazzo dove lampioni sradicati e schegge di vetro sono pallidamente illuminati da quella parte della luna che si è faticosamente fatta strada tra le nubi; non c'è nessun rumore che spezzi il silenzio tombale di questo luogo e perfino la brezza, spegnendosi, zittisce il frusciare dei ciuffi selvaggi ed incolti, o delle foglie morte ed abbandonate.

Non c'è traccia di lei, né di nessun altro. Se non fossi così terribilmente spaventato ed anche esausto, allora potrei quasi rompermi e lasciarmi scivolare a terra, ridendo della mia ingenuità, della mia inutile preoccupazione. Ho dato troppo peso alle parole di quel ragazzo sconosciuto, fuori dalla scuola, senza nemmeno rifletterci; la paura, il senso di colpa, mi hanno spinto subito a muovermi, come se un presentimento impalpabile mi avesse detto che Ayane fosse in pericolo. Probabilmente non è venuta qui, questa sera, forse è semplicemente tornata a casa.

Devo essermi autosuggestionato, impaurito al punto da correre qui senza nemmeno pensare a quello che stavo facendo.

Poi, il rumore. Un tenue graffiare, una sorta di grattare, accompagnato dal basso rumore di qualcosa che viene risucchiato, non diversamente da come lei beve quelle innumerevoli lattine di caffè, producendo un lieve, impercettibile deglutire, perché tenta sempre di prenderne grandi sorsate, e la sua gola ogni volta si contrae per inghiottire tutto il liquido gelido ed amarognolo. È un suono talmente caratteristico, che conosco alla perfezione, da non poterlo confondere con nessun altro; ascoltandolo, riesco quasi ad immaginare le sue labbra che si avvicinano al bordo della lattina, lasciando scivolare quella brodaglia nerastra nella bocca, trangugiandola come se ne dipendesse la sua vita.

“Ayane..?” riesco a sussurrare, con quella poca aria che rimane nei miei polmoni, con la voce che è appena udibile perfino alle mie stesse orecchie, ma che nella desolazione di questo luogo appare fin troppo forte, come se stessi infrangendo un silenzio sacro.

Un altro suono sgradevole si accompagna, cacofonico, al trangugiare di Ayane, una sorta di stridio metallico, come di catene arrugginite che vengano tese faticosamente. Questo scricchiolare si ripete, regolarmente, risuonando sinistramente da una zona d'ombra dove i miei occhi non riescono bene a scorgere altro che una struttura che assomiglia ad un'altalena abbandonata, poco più che uno scheletro di acciaio solitario nel mezzo di uno spiazzo di erbacce e spazzatura, che si erge decrepito contro il cielo notturno.

Quando la fioca, incolore luce lunare rischiara la fonte di quel suono inquietante, un sospiro di sollievo sfugge dalle mie labbra. Riconoscerei quelle spalle esili, quei capelli corvini, quelle calze colorate, ogni dettaglio di lei, perfino in mezzo alla folla, nella quale spiccherebbe in ogni caso. Se ne sta seduta, dandomi la schiena, le scarpe che sfiorano appena il terreno erboso, spingendosi a malapena con le punte dei piedi, in un lento, svogliato dondolare. L'altalena si muove impercettibilmente, senza troppa convinzione, formando archi stanchi, come se fosse mossa più dall'inerzia, che dalla forza delle sue esili gambe.

Assorta com'è dall'osservare il cielo, quelle poche stelle che riescono a brillare fiocamente attraverso la coltre di nubi, il disco pallido e biancastro della luna, bagnata appena dai suoi raggi, sembra quasi essere lontana da ogni cosa; quasi come se riuscisse a vedere qualcosa, al di là del velo grigio che ricopre uniforme ogni cosa, in cui lei è l'unico dettaglio nitido, perfettamente delineato. I suoi capelli che si muovono ogni tanto, poco più che l'oscillare di qualche ciocca, insieme all'altalena, le sue dita sottili che giocherellano con la linguetta di una lattina scura, che regge debolmente tra le dita.

Sembra quasi che un peso sia stato sollevato dalle mie spalle. Mi accovaccio, una borsa con i colori della nostra scuola è poggiata poco lontano, sul limitare dello spiazzo, per metà affondata nell'erba, senza alcuna cura o attenzione. Scuotendo impercettibilmente la testa, mi chino a raccoglierla, sollevandola dall'erba e trovandola semivuota, probabilmente perché, dopo averla lanciata nell'angolo in questo modo, gli oggetti devono essere volati fuori. Ayane non ha molta cura delle sue cose, dopotutto, sopratutto per i libri scolastici e—

Un dettaglio salta all'occhio, una specie di nota stonata che rimbalza nella notte, risuonando violenta e sgradevole alle mie orecchie. Il mio stomaco si attorciglia per un secondo, nel notare che quell'oggetto rosa, dalla forma rettangolare, chiuso da una cerniera dorata, è troppo sobrio per appartenere a lei.

Il portafogli dentro la borsa è diverso dal suo. Allungo la mano tremante nell'erba alta, trovando un volume di testo che ne spunta fuori, sul quale è segnato un nome con una grafia elegante, femminile, ma che decisamente non è la sua.

Questa non è la borsa di Ayane..?

Il respiro torna a farsi improvvisamente corto.

“Ayane.” La chiamo di nuovo, questa volta con più decisione.

Il rumore dell'altalena che si muove ritmicamente si interrompe di colpo, lasciando il parco in un silenzio innaturale, congelato. Perfino la sua sottile figura è immobile, come se le mie parole l'avessero fatta irrigidire di colpo. Riesco ad intravederla, mentre si porta rapidamente le mani al volto, in un movimento che conosco fin troppo bene, ma che non avrei mai creduto di vedere compiuto da lei; il gesto di chi si asciuga qualcosa dal volto, con fretta, ma senza rabbia, quanto piuttosto con una sorta di sottile malinconia, un movimento improvviso ma tremante.

Arrivo alle sue spalle, ad un passo da lei, dalle sue dita che stringono le catene rugginose; le sue dita sono bianche per il freddo, nonostante la sciarpa che le pende dal collo, di un profondo colore cremisi, un rosso palpitante e vivo, che non credevo avrei mai più rivisto. La sento sospirare, quasi con rassegnazione, mentre mi fermo dietro di lei, schiacciando l'erba che graffia i pantaloni, avvinghiandosi alle gambe, quasi a trattenermi dall'avvicinarmi, ad impedirmi di raggiungere questa figura diafana che sta, solitaria, con i suoi dolori, i suoi tormenti, le sue paure, in mezzo all'abbandono che sente proprio.

Si volta appena, dandomi, per un secondo, l'immagine dei suoi occhi, senza alcuna traccia di lacrime, senza nemmeno un velo di umidità ad indicare il suo pianto, un silenzioso scorrere di lacrime. Le sue labbra sono strette, serrate con forza, nel tentativo di darsi un'espressione che sia indifferente, la solita gelida maschera che riserva a questo mondo, come se non ne fosse parte, come se vi camminasse, senza riuscire ad entrarvi del tutto. Come se lo sentisse stretto, una costrizione, un peso.

“Cosa sei venuto a fare?” le sue ginocchia si piegano, mentre si dà una nuova spinta, questa volta imprimendo più forza nelle gambe, facendo scricchiolare violentemente le catene, “Sei corso dall'Accademia fino a qui?”

“Io...” Per qualche ragione, ora che lo sento dalle sue labbra, ora che lo ha pronunciato ad alta voce, mi sembra quasi di aver fatto un'idiozia. Di essermi precipitato qui preso da un'ansia ingiustificata. Eppure, la borsa che reggo nella mano, le parole di quel ragazzo, sembra tutto—Scuoto la testa. Se Ayane è qui e sta bene, se non sembra ferita o preoccupata, allora non deve esserci nulla di cui preoccuparsi. Ripromettendomi di consegnare la borsa agli oggetti smarriti della nostra scuola, la poggio a terra, sollevando uno sbuffo di polvere, che si dissolve nell'aria notturna.

Ogni respiro si condensa in una nuvoletta che scricchiola nell'aria, per un secondo, ad ogni sua nuova spinta, ad ogni nuovo arco nel cielo scuro, quasi come se ambisse a toccare il cielo, a sfiorarlo anche solo per un istante con la suola di una scarpa, o di afferrarne un lembo per portarlo con sé.

Per trovare un po' di conforto in quella luce morente che punteggia l'oscurità sopra di noi.

“Avevi dimenticato questo.” riesco finalmente a sussurrare, tendendole il piccolo pennello, scorrendone, un'ultima volta, le lettere. Avrei potuto dirle qualsiasi altra cosa; avrei potuto dirle che mi sono precipitato sulla strada, solo seguendo una sensazione di terrore e di gelo; che ho corso fino a non sentire più le gambe e a farmi ardere i polmoni, preso dal rimorso per non averla mai capita, di non averla ascoltata, di non essere riuscito a trattenerla e a sorreggerla, nel momento in cui si è sentita schiacciata.

Invece, riesco solo a tenderle questo pennello, senza riuscire a toglierle lo sguardo di dosso, mentre con i talloni a terra blocca il movimento della gemente altalena; mentre, alzandosi in piedi, sembra esitare, indecisa se voltarsi o meno, se distogliere lo sguardo da quella desolazione che le sta davanti.

Mentre, guardandomi porgerle quel pennello, qualcosa anima i suoi occhi, il suo viso, le sue spalle, come un fremito impercettibile.

L'ho vista sorridere per la prima volta.

Un sorriso che tremola e minaccia di incrinarsi, che può sembrare quasi artificioso, perché non lo ha mai fatto.

Un sorriso di vetro.

   
 
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