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Autore: Mia Renard    08/03/2018    1 recensioni
Breve storia tratta dalle puntate 1x07 e 1x08
Attenzione Spoliler
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lincoln, Octavia Blake
Note: Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!
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Note dell'autrice: Ciao. Questa è la mia prima ff nelle sezione di The 100, anche perché lo seguo da poco. Ho comunque subito adorato la coppia Lincoln-Octavia. E' una ff presa dalle puntate quindi riporta eventi già conosciuti ma spero piaccia ugualmente. Se vi va lasciatemi un commento alla fine. Un bacio. Mia

~~Ero talmente spaventata che non ero riuscita a ragionare attentamente su quello che era successo. Ma probabilmente era dovuto al fatto di aver passato la maggior parte della mia giovane vita, nascosta in un buco e di non aver visto altro al mondo fuorché le quattro mura dei nostri alloggi,
Per questo, svegliarmi in quella caverna buia, mi aveva mandata nel panico. Ero spaventata, dolorante, sola e non sapevo dove mi trovassi. Pur avendo notato che le mie ferite erano state medicate, avevo pensato di essere prigioniera, rapita da una persona che non sapevo che intenzioni avesse. Poteva essere uno dei Terrestri. I miei compagni avevano subito attacchi. Jasper era vivo per miracolo e lo sconosciuto era sicuramente un nemico. E quindi avevo deciso di scappare. Ignorando il dolore che sentivo in tutto il corpo, avevo disperatamente cercato una via d’uscita. Spostando delle pietre ero riuscita a trovare un varco e la forza della disperazione, la paura, mi avevano dato le energie necessarie per issarmi fuori da quel buco.
La luce. L’aria fresca. Ero libera e tutti i miei sensi mi urlavano di correre, di allontanarmi il più possibile.
Avevo proceduto alla cieca, cercando comunque di trovare la direzione giusta per il nostro accampamento.
Mi ero sentita salva quando ho sentito, in lontananza, la voce di mio fratello. Mi stavano cercando. Ma c’era qualcosa che non andava. Ho visto delle ombre correre, esseri vestiti di scuro e delle grida, dei lamenti. Cosa stava succedendo? Eravamo di nuovo in pericolo? Ci stavano attaccando?
Stavo per lanciarmi verso i miei compagni. Volevo raggiungerli per aiutarli, per capire che cosa ci stesse minacciando. Ma improvvisamente mi ero sentita afferrare da dietro. Avevo provato a divincolarmi, a scalciare, a gridare aiuto ma la sua presa era talmente forte da immobilizzarmi e la sua mano mi aveva tappato la bocca. Quando poi mi aveva appiattito sull’erba avevo capito e avevo smesso di lottare. Aveva tentato di proteggermi, mi aveva impedito di andare verso gli altri dove, indubbiamente, avrei messo a rischio la mia vita.
 In quel momento avevo avuto il primo dubbio. Se mi aveva nascosta alla vista di quegli esseri, chiaramente ostili, che motivo avrebbe avuto poi, di farmi del male. Se le sue intenzioni fossero state cattive, che motivo avrebbe avuto di mettermi al sicuro? Quindi l’avevo seguito verso la sua caverna. Avevo pensato che forse potevo fidarmi. Quale altra scelta avrei avuto? Dopotutto, mi aveva salvato la vita. Anche quando mi ero lamentata, per il dolore alla gamba, dicendogli che avevo bisogno di fare una pausa, invece di lasciarmi indietro, mi aveva presa in braccio portandomi lui. L’avevo ringraziato ad avevo provato a parlare con lui, ma l’uomo non diceva una parola. Avevo supposto che non capisse la nostra lingua.
Era appunto perché avevo deciso di fidarmi, che la mia reazione era stata così rabbiosa quando, arrivati al suo rifugio, mi aveva incatenata alla parete, anche se l’avevo supplicato di non farlo. In quel momento non avevo capito che l’aveva fatto solo per il mio bene, per impedirmi di fuggire di nuovo e mettermi nei guai. Non sopportavo il fatto di sentirmi in trappola, ancora al buio in un buco, ancora nascosta. Era una cosa che la mia mente rifiutava. Avevo strattonato , avevo urlato ma un pesante lucchetto teneva fissate al muro le catene che mi imprigionavano .Per quel motivo, quando era tornato e si era avvicinato, l’avevo colpito con tutte le mie forze, usando i pesanti anelli di ferro come arma. Ero riuscita a stordirlo. Lui, a causa del colpo ricevuto, aveva perso i sensi.
E poi era successo tutto in fretta: la mia mente era concentrata solo sulla fuga, avevo visto la chiave delle mie manette, l’avevo afferrata ma da sola, immobilizzata com’ero, non ero riuscita ad aprirle. Improvvisamente avevo sentito delle voci avvicinarsi, delle voci che conoscevo. I miei amici. Non sapevo come ma erano riusciti a trovare l’ingresso della caverna ed erano venuti a salvarmi. Mio fratello si era affrettato a liberarmi, mentre lo sconosciuto si stava riprendendo. Prima che io riuscissi a dire niente, i miei compagni lo avevano attaccato, lui aveva risposto a sua volta, ferendo gravemente Finn con un pugnale.  Io avevo capito che lo straniero aveva solo tentato di difendersi ma la ferita del ragazzo era grave e rischiava di morire. Solo questo importava agli altri. Erano riusciti a catturare il terrestre e lui era stato condotto in malo modo, nel nostro accampamento.
Nonostante non mi fossi ancora ripresa dalla paura provata, lui non mi aveva fatto del male. Mi aveva trovata dopo la caduta, mi aveva medicato la ferita alla gamba e nel bosco, quando quei personaggi ostili avevano attaccato, mi aveva tenuta al sicuro. Mi aveva salvato la vita e, per questo, non volevo che gli facessero del male. Non lo meritava. Sapevo cosa Bellamy avesse in serbo per lui ma io, chiunque lui fosse, gli ero debitrice.
Lo avevano spogliato, lasciandolo a torso nudo e perquisendo il suo giubbotto, e lo avevano legato per i polsi e le caviglie lasciandolo in piedi. A vederlo così, mi si era stretto il cuore e avevo sentito un sapore amaro in bocca. Avevano cominciato ad interrogarlo ma lui non diceva una parola. Io avevo ripetuto più volte che molto probabilmente non capiva, era inutile fargli domande. Una parte di me tentava di difenderlo, di far capire agli altri che lui non poteva essergli utile. Speravo con tutta me stessa che lo lasciassero andare. Ma nessuno mi aveva ascoltata e mio fratello mi aveva cacciata via.
Non mi avevano lasciato restare ed io avrei voluto solo controllare che non gli facessero troppo male, supponevo che, se fossi rimasta e magari avessi insistito mi avrebbero creduta. Non volevo assolutamente che lo torturassero. Ma le condizioni di Finn avevano continuato a peggiorare. Clarke era riuscita a mettersi in contatto con l’Arca e con sua madre. Con il suo aiuto era riuscita ad estrarre il pugnale, e a pulire e ricucire la ferita del ragazzo, che comunque non dava segni di miglioramento. Non ci avevano messo molto a capire che, l’arma con cui il Terrestre l’aveva ferito, era avvelenata e che, sicuramente, tra le fiaschette che gli avevano trovato nel giubbotto, c’era una cura o comunque un antidoto. Lo sconosciuto era stato frustato. Gli avevo trapassato una mano con un grosso chiodo e Raven, convinta di essere in dovere di salvare il suo fidanzato, gli aveva anche dato delle scosse elettriche. Lo  avevo sentito urlare ed ero corsa di sopra. Il Terrestre era ridotto male, ma ancora non aveva pronunciato una sola parola. Lo avevo pregato di dire loro quello che volevano, per farli smettere di fargli del male. Tutti avevano tentato di zittirmi, di allontanarmi da lui. Allora avevo capito che c’era una sola cosa da fare. Mentre nessuno badava a me, avevo preso il pugnale, quello con cui lui aveva colpito Finn, quello avvelenato e mi era fatta un taglio sul braccio. In quel momento tutti poi mi avevano dato addosso, Bellany era fuori di sé ma io avevo fatto quel gesto perché ormai avevo la certezza che lo sconosciuto volesse che non mi accadesse nulla di male. Se avessi avuto bisogno anche io di essere curata, avrebbe indicato loro la fialetta giusta.
Con le lacrime agli occhi, con l’animo distrutto nel vedere come era stato torturato, avevo srotolato la custodia belle sue bottigliette davanti a lui. Mi aveva fatto solo un cenno del capo quando avevo preso in mano quella contenente quello che ci serviva.
Dopo questo episodio mi era stato proibito drasticamente di vederlo. Era sorvegliato e mio fratello aveva dato l’ordine alle sue guardie di non farmelo vedere. Ero stata terribilmente in pena per lui ma, per lo meno, sapevo che per il momento, le torture erano cessate.
Flinn aveva cominciato a migliorare ed era ormai fuori pericolo. Quindi Clarke, aveva potuto lasciarlo alle cure di Raven , per salire a controllare il prigioniero. L’avevo subito seguita. L’avevo vista tentare di pulirgli la ferita alla mano, ma lui l’aveva chiusa a pugno, non lasciandosi  medicare. Lei aveva insistito ma lui era stato irremovibile Avevo capito cosa fare: -Lascia- avevo detto alla ragazza prendendole il panno di mano. -Faccio io.-
Mi ero avvicinata allo sconosciuto, appoggiando la stoffa alle nocche delle sue dita chiuse. Dopo un attimo di esitazione, l’uomo aveva aperto la mano, lasciandosi pulire la ferita.-
-Grazie- mi aveva sussurrato poi.
Sentii il bisogno di rimanere con lui, di rassicurarlo che sarebbe andato tutto bene. Che avrei impedito alla mia gente di fargli di nuovo del male. Ma ero stata, ancora una volta allontanata.
Quello stesso giorno, grazie al cielo, Clarke aveva proposto di recarsi in un deposito che era stato trovato, per cercare cibo, ed aveva voluto che la accompagnasse Bellamy. Avevo sperato che con lui lontano, sarei stata meno sotto controllo ed avrei trovato il modo di salire dal Terrestre, almeno per vedere come stava. E ne avevo avuto l’occasione quando, il ragazzo che era di guardia, era stato chiamato per il suo turno, di parlare con i famigliari sull’Arca.
Appena si era allontanato, ero corsa dal prigioniero.
-Ciao- avevo esordito – Ti ho portato dell’acqua.-
Era così malridotto, debole. Gli avevo portato la borraccia alle labbra e  lui aveva preso due abbondanti sorsate.
-Scusa se non sono venuta prima. Mio fratello mi impedisce di vederti. E’ un’idiota ma penso che tu questo l’abbia capito.-
Lui aveva accennato un sorriso.
Avevo avuto ragione.
-Tu mi capisci. Lo sapevo.- Mi ero sentita così sollevata. Volevo che sapesse che, tra tutti quei nemici, aveva un’amica, una persona che si preoccupava per lui. Aveva sentito tutto, mentre si discuteva durante la sua prigionia, doveva avere capito che, almeno io, ero dalla sua parte.
-Lascia almeno che ti pulisca un pò- avevo continuato-
Avevo bagnato un panno  e l’avevo passato con delicatezza lungo il suo petto.
-E’ tutta colpa mia- avevo cercato di scusarmi. – Perché mi sono spaventata quando mi hai chiusa nella caverna. Se sapessi come sono cresciuta capiresti il perché.-
-Mi chiamo…mi chiamo Lincoln- aveva pronunciato lui a fatica
. La sua voce era roca e profonda. Ma poco più di un soffio. Ho supposto che fosse così debole e dolorante che fosse un terribile sforzo per lui parlare, anche se desideravo ardentemente che si fidasse di me. Avrei fatto di tutto per aiutarlo. Mi ricordo che, anche se con due parole, aveva mandato in me come un senso di calore e sicurezza. Una sensazione strana da spiegare.
-Lincoln…il mio nome è Octavia.- Avevo atteso ma lui non aveva proseguito. Allora avevo deciso di insistere: - Tutto qui? Non hai nient’altro da dirmi?-
-Non è sicuro per noi parlare.-
-Se non è sicuro perché mi hai detto il tuo nome?-
-Perché voglio che ti ricordi di me, quando sarò morto.-
In quell’istante, qualcosa dentro di me si era smosso, nel profondo del mio cuore. Mi aveva salvato la vita e adesso si arrendeva alla morte, probabilmente causata dai miei compagni, ma gli importava che io mi ricordassi di lui.
Avevo sentito un tale affetto, un tale trasporto.
Ero riuscita solo ad appormi all’idea: - Tu non morirai. Non lo dire.-
-Octavia- si era sforzato lui di sorridere di nuovo - è solo così che può finire.-
-Parla con loro. Di che non sei un nemico- avevo provato ad insistere.
-Ma lo sono- aveva obiettato lui.
Poi era tornata la sua guardia, ed io ero stata nuovamente cacciata.
Ma adesso le cose erano cambiate. Avevo sentito il dovere di salvarlo. Non potevo lasciare che lo uccidessero. Nient’altro più era importato. Dovevo farlo scappare, portarlo via.
Mi si era presentata l’occasione poco dopo: i miei compagni avevano cercato del cibo ed avevano trovato e cominciato a sgranocchiare cose che sembravano nocciole selvatiche. Ero rimasta stupita del fatto che, in pochi minuti, avevano cominciato poi a dire cose strane. Era come se avessero delle apparizioni immaginarie.
Non ci avevo pensato nemmeno un secondo, avevo preso dei vestiti a caso, che avevo trovato in terra, un manciata di nocciole ed ero accorsa dal prigioniero. Avevo offerto quel frutto alla sua guardia, che era uscito poi, credendo di seguire chissà cosa.
Avevo slegato Lincoln in un attimo e l’avevo convinto ad infilarsi gli abiti che gli avevo portato.
Lui avevo tentato di opporsi :-anche con questi vestiti mi vedranno, capiranno che mi hai aiutato, non voglio metterti in pericolo.-
Ma a me non era importa  nulla. Volevo solo pensarlo al sicuro:- Stanno vedendo tante altre cose adesso- avevo tagliato corto io.
Allora lui mi aveva spiegato: - Il cibo che hai dato alla mia guardia, fa male. Provoca delle visioni, ma poi passa.-
-Adesso devi andare- avevo tentato di mettergli fretta. Non sapevo quanto tempo avrei avuto per permettergli da scappare.- Allontanati più che puoi e non farti uccidere- mi ero raccomandata.
Lui mi aveva guardata, in un modo particolare. Nei suoi occhi scuri e profondi non c’era gratitudine ma qualcosa di diverso. Si era lentamente avvicinato e, con una dolcezza del quale non l’avrei mai creduto capace, mi aveva baciata. Un fuoco mi era divampato nel petto, divampando poi in tutto il corpo e si era formata del mio cuore la consapevolezza di amarlo.
Dopo un attimo di incertezza avevo risposto a quel bacio. Poi l’avevo lasciato scendere la scala a pioli, sperando con tutta me stessa che si mettesse in salvo.
E adesso sono passate un paio d’ore, le visioni sono finite e tutti cominciano a stare meglio. Aspetto che i miei compagni si riprendano, che tornino Clarke e Bellamy e subirò le conseguenze del mio gesto, che rifarei comunque mille volte. Più che convinta di avere fatto la cosa giusta.
Ma io ho in mente un solo pensiero: mi rendo conto solo ora di essere comunque di nuovo prigioniera, prigioniera di quel bacio.

 

  
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