I corridoi degli alberghi sembrano tutti uguali.
Lunghi da apparire infiniti, color crema e con una moquette che purtroppo
riesce a far risaltare le pallide pareti. A volte mi chiedo se è mancanza di
voglia di provarci o sono semplici scelte sfortunate quelle che sfociano nel
triste look dei corridoi d’albergo.
Tutti questi pensieri mi ronzano in testa mentre seguo
l’addetto verso la sala da ricevimento del primo piano, riadattata per l’occasione
in modo da potervi svolgere all’interno tutta una serie di interviste.
Da quando faccio la giornalista per NME, la rivista
musicale, ne ho intervistate parecchie di band o cantautori, in alberghi come
questo. Quindici minuti di tempo per porre quante più domande possibili,
cercando al tempo stesso di catturare ogni dettaglio. Ho sempre amato i
dettagli; risulta semplice, a una come me, annotare i gesti delle persone
durante le interviste. Mentre il registratore segna su di sé ogni parola, io
annotò su un taccuino quando qualcuno del gruppo sorride, ride o beve un sorso
del proprio caffè. Impastando questi particolari nell’articolo, descrivendo il
modo in cui l’intervistato si muove per rispondere, aiuta a far sembrare le
star più umane. Le avvicina al pubblico e il pubblico vuole proprio questo.
Si solito la mia routine in queste interviste è sempre
la solita: pongo le domande, saluto gli artisti e mi sistemo al bar dell’hotel,
dove sorseggio un drink e inizio a scrivere sul tablet le mie prime
impressioni, finché le ho ancora tutte ben ordinate in mente.
Tuttavia oggi so già che sarà diverso. Alla fine di
questo corridoio crema, oltre la porta della sala da ricevimento, ci sono i Bastille. Sono una band come un’altra, persone come altre –
e nel loro caso sono anche più simpatici di tanti altri – e io non ho mai avuto
paura a dover intervistare qualcuno.
La situazione nel loro caso, però, si complica perché
io e Dan Smith eravamo compagni di corso al college. Non due semplici persone
che seguivano le stesse lezioni, ma due veri e propri amici, che condividevano
pasti e caffè, proiezioni cinematografiche e recensioni improvvisate sulle
nuove uscite musicali. Adoravo trascorrere il mio tempo con Dan, sapeva sempre
di cosa parlare ed è sempre stato di un ottimismo contagioso. Volevamo
diventare entrambi giornalisti – lui cinematografico, io musicale – intenzione che
ci avvicinò ancora di più.
I nostri anni insieme alla Leeds University
sono stati alcuni dei migliori che potessi desiderare. Seguire le lezioni e
sostenere gli esami con lui che mi aspettava fiducioso oltre la porta,
contribuiva a rendere il corso di letteratura inglese più appassionante.
In quegli anni ero convinta che la nostra amicizia
sarebbe durata in eterno, anche se sapevo già che il mio pensiero era più un’utopia
che altro; i legami a distanza non sono mai semplici da conservare, ma una
parte di me voleva convincersi che per noi sarebbe stato diverso. Così, quando
lui si è trasferito a Londra, gli ho fatto i miei migliori auguri,
garantendogli che lo avrei raggiunto presto.
Tuttavia, prima che riuscissi a trasferirmi nella
capitale, il nostro legame era già scivolato via. Abbiamo iniziato a sentirci
di rado e con conversazioni sempre più fugaci. Ogni volta che parlavamo mi
rendevo conto che la nostra amicizia era sempre lì, pronta a ricordarci perché andavamo
tanto d’accordo, ma nonostante tutto le nostre sporadiche conversazioni non sono
riuscite a salvarci dalla distanza. Così alla fine, anche se a malincuore, ho
dovuto ammettere a me stessa che io e Dan Smith non saremmo mai rimasti amici
per sempre. È stato allora che ho realizzato che quello che provavo per lui non
era un semplice affetto dovuto al nostro legame: ne ero innamorata.
A complicare ulteriormente la questione c’è il fatto
che credo di esserlo tuttora. Non me ne sono mai dimenticata, neanche per un
istante. La sua voce, che mi ha sempre dato sicurezza, è diventata in breve
tempo la colonna sonora delle mie giornate grazie alle canzoni dei Bastille. Questa band che è diventata la mia preferita, di
cui amo ogni sfaccettatura e non solo perché il cantante è una delle persone
più importanti per me. Mi fa uno strano effetto ascoltare le loro canzoni,
sapere che sono parole di Dan e rendermi conto che quei testi che mi piacciono
così tanto sono opera dello stesso ragazzo con cui studiavo all’università, con
quegli stessi occhi azzurri e quella voglia irrefrenabile di parlare di cinema.
Lo stesso di cui sono innamorata. È difficile ignorare simili sentimenti,
soprattutto quando ogni canzone che ascolto è dei Bastille
e ogni testo sembra parlare direttamente a me. Ho rovinato molte relazioni per
colpa dei miei sentimenti verso di lui, per il fatto che non riesco a
dimenticarlo. Nessuno vuole stare con una donna che ama un altro e io non sono
mai riuscita a biasimare, o dar torto, a quegli uomini.
Sospiro, cacciando dalla mente questa moltitudine di
pensieri. Sono sempre più vicina alla porta oltre la quale si trova Dan e devo
pensare a cosa dirgli al momento del nostro primo incontro dopo anni di
silenzio. Mi chiedo se mi riconoscerà; all’epoca dell’università mi piastravo
continuamente i capelli e portavo gli occhiali. Ora, invece, non solo ho tinto
di color amarena ogni ciocca bruna sulla mia testa, ma lascio i capelli
mossi liberi di avvolgersi su se stessi e sono passata alle lenti a contatto;
inoltre sono anche dimagrita. Sento di essere diversa nell’aspetto, molto
diversa e mi chiedo se Daniel se ne accorgerà, se capirà che si tratta di me.
Anche lui è cambiato, ma non così tanto. Ha reso i suoi capelli alti e bizzarri
il suo tratto distintivo e la barba di pochi giorni gli dà un aspetto più
maturo. I modi di fare, però, sono sempre gli stessi.
L’addetto davanti a me si ferma e mi guarda. «Ha
quindici minuti» mi informa.
Annuisco e mi preparo a entrare, stringendo con forza
maggiore il taccuino e il tablet che ho fra le mani all’altezza del grembo.
Inspiro a fondo una nuova volta. Solo ieri sera era sotto al palco dei Bastille, a seguire il concerto e a cantare ogni parola
come tutti gli altri fan presenti all’evento; ora, invece, sto per incontrare i
quattro di persona per una semplice intervista – come ne ho già fatte diverse,
d’altronde – ma alla vista di Dan so che tutto si farà più complicato.
La porta viene aperta. Mi faccio coraggio ed
entro.
La stanza è grande, le tende sono tirate sulle ampie
finestre e donano un’atmosfera piacevole. I quattro componenti dei Bastille sono seduti quasi al centro della sala; si stanno
scambiando qualche veloce battuta, senza prestare attenzione a me. Accanto a
loro ci sono un paio di tavolini, con acqua e caffè e, proprio di fronte, la
sedia libera su cui andrò a prendere posto. Quando l’addetto mi chiude la porta
alle spalle, il rumore fa voltare i quattro verso di me e subito incrocio lo
sguardo di Dan. Da quanto tempo non lo guardavo negli occhi? Da quanto non incontravo
le sue iridi azzurre, così luminose? Mi sembra passata un’eternità.
Mentre avanzo verso di loro, sempre concentrata su
Dan, noto che lui solleva le sopracciglia; il suo sguardo si fa più vivace e il
volto gli si distende in un sorriso, uno di quelli che mi regalava spesso
quando studiavamo a Leeds, uno di quelli così puri e contagiosi da essere in
grado di stravolgerti al meglio la giornata.
«Alice?» dice.
Il mio cuore si ferma per un lungo istante. Mi ha
riconosciuta; mi ha davvero riconosciuta. Non so bene cosa dire, sento gli
occhi di tutti i presenti su di me e il sorriso di Dan, quello, è ancora ben
impresso sul suo volto. Sorrido a mia volta e faccio un cenno di assenso con il
capo, lo stesso che facevo quando uscivo da un esame difficile andato bene e lui,
oltre la porta, mi chiedeva l’esito.
Il cantante si alza dalla sedia e mi viene incontro,
stringendolo subito in un abbraccio. Nemmeno il suo profumo sono riuscita a
dimenticare. Tutto, di questo ragazzo, è ancora perfettamente impresso nella
mia mente.
«Non ci posso credere» esclama. Sta ancora sorridendo,
lo capisco bene dal tono della sua voce. «Sono anni che non ci vediamo.»
Quando si separa da me e mi guarda è come tornare
indietro nel tempo. È sempre lo stesso, vivace e premuroso e so che se
iniziassimo a parlare saremmo in grado di andare avanti per ore. Vorrei dirgli
che mi è mancato moltissimo, ma mi trattengo dal farlo.
«Come stai?» mi chiede. «Ti trovo davvero in gran
forma. Stai bene con i capelli rossi.»
Troppi complimenti in poco tempo. Sto pensando a come
rispondere senza smascherare troppo l’emozione che mi provoca il fatto di
rivederlo quando qualcuno dice: «Se ti mette in imbarazzo possiamo
imbavagliarlo. Non è il nostro portavoce.»
Io e Dan ci voltiano. A parlare è stato Kyle, ma dalla
sua espressione – e anche da quella di Will e Woody – è chiaro che ci ha
interrotti per qualche altro motivo. Il cantante, che conosce i suoi amici, si
mette a ridere. «Scusate. Vi presento Alice, era una mia compagna di studi al
college. Non ci vediamo da anni.»
I tre si lasciano sfuggire un sonoro “ah” ben
allungato all’unisono e Dan torna a concentrarsi su di me. «Allora, che mi
racconti?»
Ne avrei a centinaia di cose da raccontargli, ma so
che non è questa la sede. Purtroppo per me devo svolgere il mio lavoro e il
tempo che ho a disposizione è limitato.
«Beh, io sto bene e per mia fortuna sto facendo il
lavoro dei miei sogni, come puoi vedere. Il problema è che abbiamo solo
quindici minuti e io ho tipo un centinaio di domande da farvi.»
Come se si fosse ricordato solo in quel momento perché
sono lì, Dan spalanca gli occhi. «Cavolo, hai ragione» si scusa. Si mette a
sedere al suo posto in gran fretta e fa un cenno con la mano. «Cominciamo pure,
allora.»
È una strana sensazione quella che si prova a
intervistare un vecchio amico. Di ogni domanda so già la risposta e anche tutti
i dettagli che voglio sempre catturare, nella persona di Dan Smith, mi sono
noti. Tuttavia, non per questo risulta semplice, al contrario. I quattro
ragazzi rispondono a ogni mia domanda; le loro parole vengono registrate e
segno qualche appunto sul taccuino. I miei occhi si posano più del dovuto su
Dan, di cui non mi sfugge nessuna sfumatura. Lascia spesso la parola ai
compagni, dimostrando che nel tempo non è cambiato poi molto. Non gli era mai
piaciuto stare al centro dell’attenzione, al punto che quando ho scoperto che
proprio lui era il cantante della band mi sono chiesta come ci sarebbe
riuscito. Tuttavia anche il resto dei componenti sembra essere in linea con il
non voler emergere caratteristico di Daniel. Sono umili, si lanciano
frecciatine fra loro e si vengono in supporto per certe risposte. Sono il
gruppo di amici ideale per Dan, che ha sempre dimostrato una certa maturità,
pur nascondendola a dovere dietro a una smisurata capacità di meravigliarsi che
solo lui e i bambini sembrano possedere.
Quando il tempo a nostra disposizione finisce è l’addetto
che mi ha accompagnata qui a ricordarmelo. Si affaccia alla sala, dicendo che
il mio quarto d’ora è scaduto. Acconsento e, dopo aver spento il registratore,
sistemo in ordine le mie poche cose. Dan, per tutto il tempo, non smette di
guardarmi e quando mi alzo, lui fa lo stesso.
«È stato un piacere. Grazie ragazzi» dico, tendendo la
mano. Woody è il primo a stringerla ed è subito imitato da Kyle e Will, che mi
salutano. Quando è il turno di Dan, però, lui sembra indeciso su cosa
fare.
Non vorrei dovermi separare dal ragazzo. Vorrei
chiedergli di vederci ancora, magari più tardi, ma non so quanto possa essere
una buona idea. Tornare a trascorrere del tempo con lui potrebbe aiutarmi o
peggiorare solo le cose?
Tuttavia è lui a prendere l’iniziativa. «Che fai ora?»
mi chiede.
«Di solito mi rintano al bar dell’albergo e inizio a
buttare giù l’articolo» rispondo, stringendomi nelle spalle.
Il ragazzo pare rassicurato dalla notizia. «Che ne
dici se dopo ti raggiungo?»
«Molto volentieri.»
Rimane soddisfatto della risposta. Mi stringe in un
nuovo abbraccio e dopo sono costretta a salutarlo per davvero, per niente
sicura del fatto che lo rivedrò di nuovo.
*
Il lato destro del bancone del bar è il punto dove,
indipendentemente dall’albergo, mi siedo sempre per scrivere la prima bozza
dell’articolo sulla band che ho appena intervistato. Anche nella mia intervista
post-Bastille è proprio qui che mi sistemo. Di solito
è la metà in cui vengono tenuti i liquori e la cosa mi fa sentire di avere
quasi un certo controllo; della serie: “so cosa bevete”.
Dopo aver scritto una pagina digitale con parole sui Bastille, torno a scorrere qualche sporadica riga,
rileggendo i miei pensieri. Stando alle parole che ho usato – prettamente professionali
– Dan appare come un estraneo con cui è piacevole parlare. Invece avrei voluto
scrivere cose molto diverse su di lui, come il fatto che la t-shirt della NASA
è solo una di quelle che ha sempre portato fin dai tempi del college, o che la
sua risata non è affatto cambiata in questi anni e continua a essere una delle
più belle e sincere che io conosca. Vorrei sbandierare al mondo che conoscevo
Dan Smith da prima che diventasse il leader dei Bastille,
solo che non posso. E non voglio nemmeno, quasi fosse il mio segreto.
«Che ne hai fatto degli occhiali?»
Dan mi compare accanto, nel bar semivuoto del sabato
pomeriggio. Si siede nel posto libero, voltato verso di me. Si è messo gli
occhiali, quelli dalla montatura spessa e tartarugata che porta ultimamente.
Trovo che gli donino, ma ai tempi degli studi non li portava.
«Sono passata alle lenti» rispondo disinvolta, salvo
il file sul tablet e blocco lo schermo perché lui non possa vedere niente.
Se ne accorge. «Posso sbirciare?» Sorride. Ancora quel
gesto all’apparenza banale eppure così ricco di bellezza da lasciarmi senza
fiato ogni volta. Già a Leeds quel sorriso mi sembrava unico nel suo genere. Se
possibile, ora mi fa nascere dentro sensazioni che non mi aveva ancora fatto
provare.
«Tecnicamente non potresti» lo informo, sollevando un
sopracciglio come indispettita. Lui scoppia a ridere e si passa una mano fra i
capelli; osservo le sue dita scorrere fra le ciocche scure con il modo
disinvolto che ha sempre dedicato a quel gesto. Perfino le sue mani mi piacciono,
sembrano fatte apposta per suonare il pianoforte che, in fin dei conti, è il
suo strumento, oltre alla voce.
Avendolo qui davanti mi rendo conto che mi manca
moltissimo, che quello che provo per lui non se ne andrà. Non voglio sprecare
questa occasione senza dirglielo, senza fargli sapere che averlo perso è una
delle cose più tristi che mi sia capitata. Sono seria quando torna a guardarmi,
lo capisco perché anche il suo viso cambia espressione e il sorriso gli si attenua.
«Mi dispiace per come sono andate le cose fra noi»
dico.
Si blocca. Immagino non si aspettasse un’affermazione
del genere. «Anche a me» ammette poi, piano.
«L’avresti mai detto che sarebbe finita così?»
«Così come? Con te che mi intervisti riguardo il mio
concerto della sera prima?»
Il suo tono mi strappa una risata, ma torno seria
immediatamente. «No. Intendo, se avresti mai detto che avremmo smesso di
sentirci.»
Non sono arrabbiata con lui, neanche un po’. In fin
dei conti è anche colpa mia se il nostro rapporto è scivolato via. Non avrei
dovuto smettere di scrivergli solo perché era diventato il cantante dei Bastille. Dietro quel ragazzo tutto musica e percussioni
continua a esserci il mio amico. C’è sempre stato e io sono stata una stupida a
non capirlo e a permettergli di allontanarsi da me.
«In verità no, lo ammetto» dice, smascherando appena
una punta di imbarazzo. È quasi invisibile, ma non sfugge a me che lo conosco
bene. «Avrei dovuto scriverti, cercarti. Quando ti ho vista, prima, mi sono
sentito in colpa per non aver fatto nessuna di queste cose.»
«E io allora?» scatto, con un evidente moto di stizza
verso me stessa. «È praticamente dall’uscita di Pomepeii
che non mi faccio viva. Non ho nemmeno potuto dirti che siete la mia band
preferita» sbotto.
«Davvero?» chiede. In quella sola parola c’è tutta l’ingenua
curiosità di cui il ragazzo è in possesso. È di una tale dolcezza. «Siamo
davvero il tuo gruppo preferito?» mi incalza, sorridendo.
«Ovvio che lo siete» dico, stringendomi nelle spalle. «Sei
sempre stato il mio paroliere preferito, te ne sei dimenticato?»
Abbassa lo sguardo, sorridendo. «Beh grazie» dice alla
fine, prima di tornare a guardarmi. Restiamo in silenzio per un lungo momento,
come se entrambi stessimo cercando le parole giuste da dire. Alla fine è lui il
primo a ricominciare a parlare: «A ogni modo, direi che non c’è motivo di
perderci di vista un’altra volta. Prometto che farò il possibile per farmi
sentire ogni tanto.» Fa una smorfia. «È solo che» prosegue, allungando l’ultima
e, «non ho più il tuo numero. Avrò
perso il telefono un centinaio di volte» conclude. Si gratta il collo con fare
imbarazzato, un sorriso abbozzato sul viso.
Io rimango a guardarlo, poi scoppio a ridere. «Non sei
cambiato affatto, Smith» dico, con lo stesso tono che usavo al tempo del
college per richiamarlo quando mi fingevo offesa per qualcosa. Lui lo
riconosce, perché il suo viso si illumina.
Strappo un pezzo di carta da una pagina del mio
taccuino e annoto in fretta il numero di cellulare, sempre lo stesso dai tempi
dell’università. Lo allungo a Dan, che lo legge e torna a guardarmi.
«Non è cambiato» lo informo, riferendomi al
numero.
Lui annuisce, dopodiché dice: «Nemmeno il mio.»
Capisco che quello che ho salvato in rubrica è ancora
il suo numero e la cosa mi fa piacere. Al tempo stesso, però, mi fa provare una
sensazione amara; per tutto questo tempo mi sarebbe bastato mandargli un
messaggio, o premere il tasto verde di chiamata e farmi forza, ma non ho mai
fatto nulla del genere. Quasi cinque anni di silenzio fra noi solo per colpa
mia. Chissà come sarebbero andate le cose, se solo avessi avuto il coraggio di
cercarlo e, magari, dirgli quello che ho capito di provare per lui.
«Abbiamo un sacco di cose da dirci» esclama di punto
in bianco, risvegliandomi dai miei pensieri. «Bevi qualcosa?»
Riecco comparire il Dan Smith che conosco io, quello
che mi ha conquistata e a cui sono ancora sorprendentemente affezionata.
«Naturale» rispondo e il sorriso che mi regala mi fa
capire che anche lui ha ritrovato in me la Alice della Leeds University.
È bello poter tornare a trascorrere del tempo con Dan,
rendermi conto che abbiamo ancora tanto di cui parlare nonostante il tempo e la
distanza. Davanti al mio drink analcolico e alla sua cola – abbiamo riso
entrambi all’ordinazione dell’altro quando abbiamo notato che era priva di
alcol – ci raccontiamo tutto quello che ci viene in mente dal momento in cui ci
siamo separati. Mi parla dell’ascesa dei Bastille,
delle lunghe tournée, dei luoghi visitati e di quanto si senta ancora
spaventato all’idea di salire su un palco. Mi racconta di alcuni dei momenti
più incredibili e speciali, degli incontri con i fan, di quanto si sorprenda
nel vedere tanta gente apprezzare così la loro musica. È raggiante quando parla
di tutto ciò e capisco che sta facendo qualcosa che lo rende felice. Sapevo che
ce l’avrebbe fatta: o in ambiente musicale o cinematografico, Dan sarebbe
diventato qualcuno e così è stato.
Dal canto mio, invece, gli racconto di come sono
riuscita a diventare giornalista per NME, delle centinaia – se non migliaia –
di articoli spediti ovunque per poter essere in qualche modo notata. Sorride al
resoconto della mia prima intervista ufficiale, un insieme di imprevisti
culminata nel mio incontro con i Kodaline – che, guarda caso, lui conosce.
Non so da quanto tempo stiamo parlando. Una delle cose
migliori fra noi è sempre stato il fatto che riusciamo a parlare per ore senza
quasi rendercene conto, anche se l’argomento dovesse essere lo stesso. Non è
semplice instaurare un rapporto così con qualcuno e quando mi rendo conto che
stiamo parlando da quasi un’ora e mezza, capisco che la distanza non è riuscita
a rompere il nostro legame.
D’un tratto il telefono del ragazzo squilla. Risponde,
dopo essersi scusato, mentre io aspetto che si liberi dalla chiamata. Tuttavia
quando riattacca e mi guarda, capisco che non possiamo più stare insieme.
«Era Woody» inizia. «Devo andare.»
«Non c’è mai un attimo di pace, eh?» Sto scherzando,
ma non posso negare che vederlo andare via mi fa stare male. Mi illuderei e
basta a convincermi che le cose torneranno come una volta solo perché, ora che
ci siamo ritrovati, abbiamo realizzato che la nostra amicizia è ancora salda. C’è
distanza fra noi, ci sarà sempre perché apparteniamo a due mondi diversi ora.
So solo che non voglio vederlo andare via senza avere il tempo di dirgli quello
che sento e non voglio neanche che accada se posso impedirlo.
«Grazie per questo, farò il possibile per non perdere
di nuovo il cellulare» dice, prendendo in mano il foglietto su cui ho appuntato
il mio numero di telefono. «Per qualsiasi cosa, comunque, tu il mio lo hai,
vero?»
Annuisco, abbozzando un sorriso. Il cuore mi martella
nel petto ora che ho preso la mia decisione, ma sento che se non faccio
qualcosa me ne pentirò per il resto dei miei giorni. So che, con tutta
probabilità, incrinerò in modo irreparabile le cose fra di noi, ma lo voglio
fare.
Inspiro una lunga boccata d’aria per farmi forza, perché
non è semplice, affatto.
«Sei davvero sicuro che ci riusciremo questa volta? A
non perderci di vista, intendo» aggiungo, davanti alla sua espressione. Il
sorriso gli si spegne, so che ha capito cosa intendo e so anche che, pur non
avendolo ancora detto, lui è d’accordo con me. Dan non è stupido, è fiducioso e
crede negli altri, ma anche lui sa che non è possibile recuperare il rapporto
che avevamo a Leeds. Potranno solo esserci altre giornate come quella di oggi,
con discordi di un paio di ore a ricordarci perché siamo diventati amici.
«Potremmo» mormora. «Dovremo impegnarci, d’accordo, ma
possiamo ugualmente riuscire a trovare un po’ di tempo per noi, come ai vecchi
tempi» conclude, tornando a sorridere.
I vecchi tempi sono morti, lo so. L’idea di dover
accettare questa realtà, però, mi fa schifo.
«Sappiamo entrambi che non sarà così. Ci perderemo di
vista ancora una volta. Non ha senso mentirci, non fra di noi.»
Non è affatto semplice dirgli tutto ciò. La cosa che
mi fa stare peggio è che capisco dal suo volto che condivide il mio pensiero,
ma sembra quasi che sentirlo dire da me gli spezzi il cuore. Rimane in silenzio
e guarda altrove. So che questo è il momento e decido di giocarmi tutto. Mi
avvicino a Dan senza aggiungere altro; lui se ne accorge e si volta un attimo
prima che le mie labbra si posino sulle sue. Non so se ha realizzato quanto ho
appena fatto, se si è reso conto che si tratta di me, di Alice, fatto sta che
non fa nulla per interrompere il lieve bacio che gli sto dando.
È impossibile racchiudere anni di silenzi e sentimenti
non esternati nel solo, sfuggente, contatto fra le nostre labbra, ma penso sia
evidente che il mio non è un saluto che si riserva a chiunque.
Quando mi allontano, Dan mi guarda sorpreso, gli occhi
azzurri spalancati. È bello, bellissimo e fa male dovermi allontanare da lui
ora che ho il suo sapore sulla bocca.
«Vorrei che sapessi che per me rappresenti più di un
amico. Ma non so che altro fare» gli dico in un sussurro. «Mi dispiace.»
Non aspetto neanche una risposta. L’ho colto
impreparato, in tutto. Conosco troppo bene il ragazzo per non sapere che
ho ragione. Forse a breve gli verrà in mente cosa dirmi, ma per allora me ne
sarò già andata. Gli sorrido un’ultima volta, recupero taccuino e tablet e
mi avvio verso l’uscita del bar.
Il mio numero è ancora appuntato sul foglietto
adagiato al bancone, vicino alla sua mano. Vorrei voltarmi, vedere se afferra
quel semplice pezzo di carta, se lo porta con sé. Vorrei sapere se c’è ancora
un futuro per noi due, nonostante ciò che ho appena fatto e tutto quello che
abbiamo detto e compreso con questa nostra ultima conversazione.
Vorrei, certo, ma non faccio alcunché. Posso solo
limitarmi a sperare che, in qualche modo, lui trovi la voglia di chiamarmi.
_________________
Ciao a tutti, fan dei Bastille
(immagino).
Spero che questa storia possa esservi piaciuta. Sono momentaneamente
precipitata in un vortice musicale in cui ascolto ossessivamente i Bastille e bramo per rivederli live. Di conseguenza mi è
venuta voglia di scrivere qualcosa a riguardo e mi è balenata in mente questa idea,
che spero che almeno qualcuno di voi possa aver gradito.
Grazie per aver letto fino a qui!
MadAka