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Autore: Mel_deluxe    31/03/2018    0 recensioni
Questa è una one-shot dedicata ai personaggi della mia storia La Ragazza dai Capelli Rossi (link all'interno)
Marc Richardson ha tutto ciò che si potrebbe desiderare nella vita: una famiglia perfetta, bellezza, intelligenza, una montagna di soldi e una villa a quattro piani a Bristol. L'unica cosa che potrebbe mancare nella sua vita è una stramba ragazza irlandese dai capelli rossi, che indossa magliette di seconda mano degli U2 e adora gettarsi nelle torte di compleanno di faccia...
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'La Ragazza dai capelli rossi'
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ANGOLO AUTRICE
Cari lettori e lettrici, questa è una one-shot dedicata ai miei due protagonisti della storia La Ragazza dai Capelli Rossi, qui il link se volete passare a leggerla: 
https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2521530&i=1
È un breve racconto che ho deciso di scrivere a conclusione storia, che parla della storia raccontata da Marc alla fine del capitolo 21 della storia principale, ovvero del fatidico compleanno dei dieci anni di Lea.
Spero vi piaccia :)
 
 
 
 
 
IT’S JUST A LEA THING
 
 
Ho pochi ricordi legati alla mia infanzia, ma uno in particolare lo ricordo con chiarezza. Non so di preciso a quando ricollegarlo, forse dovevo avere cinque o sei anni, o giù di lì. Ricordo solo i miei genitori, seduti sulle poltrone della sala nella nostra casa a Bristol, mentre io restavo seduto sul pavimento a osservarli annoiato mentre loro due ridevano e parlavano di inutili cose da adulti. Mia madre aveva in braccio mio fratello Jeremy, che allora aveva circa tre anni. Non ricordo esattamente come arrivammo a quel discorso, ma mi ricordo una frase precisa, pronunciata da mia madre: “Markie, quando sarai grande, non innamorarti di una ragazza irlandese. Portano solo guai.”
Cosa scaturì quel discorso, perché mia madre mi disse quella frase, non lo rammento affatto. Di per sé non è che i miei genitori avessero mai avuto un granché a che fare con l’Irlanda. Io ero inglese al 100%, un purosangue coi fiocchi, come mi diceva sempre la nonna.
Mia madre aveva un’amica che si era sposata un irlandese, però. Si chiamava Heidi ed era tedesca, ma aveva conosciuto mia madre quando entrambe vivevano a Bristol. Heidi e la mamma si sentivano spesso, come constatavo dalle numerose volte che la sentivo ridere al piano di sotto, e arrivò presto il momento in cui la conobbi, insieme alla sua stravagante famiglia.
Heidi, come ho già detto, aveva sposato un irlandese e insieme avevano formato una famiglia di ben otto figli.  La prima volta che li vidi tutti insieme fu piuttosto sconvolgente. I McEwitch erano una famiglia di dieci persone, otto fratelli del tutto identici e incontrollabili. Erano appariscenti, ed erano riconoscibili, con i loro capelli folti, rossi e riccioluti e il loro comportamento così euforico.
Mi rendo conto solo ora che, con ogni probabilità ero invidioso di loro. Ero invidioso, perché volevo essere come loro, volevo far parte del loro mondo così distinguibile e fuori dalle regole, un mondo che non mi era mai appartenuto veramente.
I McEwitch furono per quasi tutto l’intero corso della mia vita, il mio unico contatto diretto con l’Irlanda. A partire da quando io e Jeremy eravamo piccoli, non ricordo un’estate, non un compleanno che noi non passammo a Galway nella loro adorabile villetta. Vennero a trovarci a Bristol solo una volta, ma il volo spaventò così tanto la figlia più grande che decisero che non sarebbero più ritornati.
La figlia più grande dei McEwitch si chiamava Lea ed era l’unica degli otto fratelli ad avere la mia età. Io ero di febbraio, lei era di giugno e per un breve periodo posso dire che fummo anche  amici. La trovavo divertente e mi piaceva passare del tempo con lei, ma fu quando iniziammo a crescere che la frase di mia madre cominciò a risuonarmi nella mente: “Non innamorarti di una ragazza irlandese. Portano solo guai.” E si ripeteva, ogni giorno, senza interruzioni.
Non è che fossi innamorato di Lea, sia chiaro, avevamo solo sette anni dopotutto, però ogni volta che pensavo a lei, anche solo come un’amica, mi ritornava quella frase in mente e mi sentivo in colpa.
Perché qualunque cosa sarebbe successa, io non sarei mai e poi mai potuto innamorare di lei. Era la legge, una moralità che nessun inglese poteva rompere.
Ora come ora, se ci penso, è del tutto probabile che quella frase pronunciata da mia madre fosse stata frutto di una battuta tra me e mio padre o, ancora più probabile, che in realtà lo avesse detto solo per prendermi in giro.
Ma d’altronde avevo sette anni, mi bevevo qualsiasi stronzata mi dicessero.
 
 
Avevo dieci anni, un regalo in mano e una voglia matta di andarmene via da quel posto infernale. Mia madre mi teneva per mano, mentre mi trascinava a malavoglia verso il giardino di casa McEwitch.
Mi sentivo così ridicolo. Mia madre mi aveva acconciato i capelli all’indietro con il gel, perché diceva che così assomigliavo a un giovane Leonardo di Caprio, nonostante a dieci anni io non avessi la minima idea di chi fosse Leonardo di Caprio. Poi indossavo una camicia bianca, un papillon scuro e delle bretelle. La mia faccia si faceva sempre più rossa, consapevole che tutti gli invitati della festa mi avrebbero preso in giro.
Arrivammo nel giardino, dove una mandria di bambine in gonne lunghe piene di foga strillavano e rincorrevano bolle di sapone in mezzo al prato.
«Aspettami qui» disse mia madre. «Vado a chiamare Lea.»
Mi lasciò nel giardino da solo mentre io mi guardavo intorno dall’imbarazzo e tenevo immobile il regalo con la carta rossa e blu in mano.
Mi rigiravo i piedi, guardavo le bambine giocare, finché vidi finalmente la mia salvezza arrivare dalla porta di ingresso. Vidi mia madre uscire, in compagnia di Heidi McEwitch e tra loro due, Lea McEwitch, la festeggiata del giorno, che non vedevo da più di un anno.
Sebbene Lea fosse trenta centimetri più bassa di mia madre e di Heidi, la sua presenza fu quella che mi colpì maggiormente. Aveva ancora gli stessi bellissimi capelli rossi e ricci, un po’ più corti rispetto all’anno scorso, ma comunque in enorme quantità rispetto alla minutezza del suo corpo.
Nonostante tutte le bambine alla sua festa fossero vestite elegantemente, con le loro gonne colorate e le loro maniche a sbuffo, Lea era tutt’altro che graziosa. Portava una maglietta nera larga, dei jeans scuri e un’espressione irritata stampata sul viso.
Lea mi si avvicinò e io cercai di sorridere, cercando di nascondere il mio evidente imbarazzo nel ritrovarmi ad una festa, costretto da mia madre, in cui non erano minimamente presenti esseri di sesso maschile.
«Ciao, Marc» disse lei, quando mi fu davanti. Era evidentemente scocciata dalla mia presenza, probabilmente perché era stata costretta anche lei da sua madre ad avermi lì.
Mi abbracciò e mi diede un bacio sulla guancia, di quei baci imbarazzati che le bambine sono costrette a dare per fare bella figura davanti alle proprie madri.
«Buon compleanno, Lea» provai a dire io, senza balbettare. «Questo è per te».
Le consegnai il regalo e lei mi disse di inserirlo tra la pila di altri regali su un tavolo.
Passai l’intera festa a guardare le bambine giocare, senza avere la minima idea di cosa fare né di come superare quelle atroci ore di agonia più totale.
(Un breve consiglio per le madri: se avete un figlio maschio di dieci anni, non portatelo a una festa di sole bambine. Non fategli patire questa sofferenza, vi prego.)
Con mia sorpresa fu Lea l’unica persona a venirmi a parlare. Arrivò mangiando un pasticcino alla crema, con le mani ricoperte di zucchero a velo.
«Ti piacciono gli U2?» domandò.
Io le risposi che non sapevo cosa fossero gli U2.
«Sono una band, fanno musica. Sono forti». Poi indicò la maglietta che indossava, nera con un uomo con gli occhiali arancioni che cantava davanti a un microfono. «Vedi? Lui è Bono. Papà dice che è il cantante migliore del mondo».
Io e Lea eravamo in quel momento della crescita in cui stava per finire la nostra occasione per essere amici. Ci eravamo divertiti da piccoli, ma ora che si andava sempre di più avvicinandosi nel baratro della pre-adolescenza, ed eravamo consapevoli che maschi e femmine in quel mondo non sarebbero mai potuti essere amici. Ci stavamo godendo i nostri ultimi anni di gloria.
«Mio papà dice che è Paul McCartney il cantante migliore del mondo...» provai a ribadire io.
«No, non è possibile. Paul Carthy sarà anche bravo, ma Bono è il migliore» fece una piccola pausa, poi vide che sua madre le stava facendo cenno di avvicinarsi. «Dai vieni. È il momento della torta».
Mi prese per la manica della camicia e mi trascinò verso un tavolo dove sua madre stava appoggiando la torta e intorno al quale erano già addossate centinaia di bambine strillanti.
Lea salì in piedi su una sedia e osservò la sua torta con un’espressione innamorata, mentre tutte le mamme e le bambine iniziavano a cantare la canzone dei tanti auguri. Io non cantavo, sia perché non ero affatto a mio agio nel farlo, sia perché ero troppo preso a guardare Lea, così in alto, così maestosa, proprio come una dea.
Il canto finì.
Lea McEwitch soffiò sulle dieci candeline e non attese un secondo di più. Si appoggiò con entrambe le mani al tavolo e gettò letteralmente la faccia nella torta.
Mentre le bambine e le mamme ridevano a squarciagola, la madre di Lea la sgridava infuriata, ma a Lea non importava di nessun altro intorno a lei.
La ammirai ammaliato, mentre rialzava il viso dalla torta e iniziava a mangiare la panna prendendola direttamente dal suo viso.
“Non innamorarti di un’irlandese” continuava a risuonare, imperterrita, la frase.
“Non innamorarti di un...”
Lea McEwitch scese dalla sedia e con le mani si staccava litri di panna e se li infilava in bocca, mentre centinaia di mamme prendevano foto con i loro cellulari.
Arrivò il momento in cui sua madre riuscì a convincerla ad andare a lavarsi la faccia. Lea si allontanò dal suo gruppetto sbuffando e passò per un attimo davanti a me, che ero immobile a guardarla con occhi spalancati.
«Beh?» disse in modo cagnesco, mentre la panna colava lentamente dalle sue guance. «Che hai da guardare, Richardson?»
Lea se ne andò e io rimasi a fissarla in silenzio da lontano.
In un attimo la frase nella mia testa era scomparsa. Non mi interessava un accidente se Lea era irlandese, quello che era appena successo era magnifico. Lei era magnifica, tutto di lei era magnifico.
E in quel preciso momento mi ritrovai con la convinzione più che certa che Lea McEwitch era, senza ombra di dubbio, l’amore della mia vita.
  
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