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Autore: Terre_del_Nord    02/07/2009    20 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Mirzam - MS.002 - Malleus Maleficarum

MS.002


Mirzam Sherton
Castello di Hogwarts, Highlands - maggio 1964

    “Guarda, Sherton! Guarda e impara!”

Mi voltai, in tempo per vedere un tripudio di farfalle variopinte levarsi dal Lago Oscuro e dirigersi quasi danzando verso di noi. Bella era seduta scalza sull’erba ancora umida del mattino, con la bacchetta muoveva leggiadra le farfalle, al suo comando: era l’unica ragazzina che conoscessi che avesse una notevole abilità, già a tredici anni, con arti non propriamente legali, almeno per il Ministero, e che le applicasse alla ricerca di soddisfazione, per il momento, del suo innato senso estetico. In quei quasi due anni avevo imparato a conoscerla: era come l’avevo sempre immaginata, una delle ragazze più vitali, cariche di energia e d’inventiva che avessi mai incontrato. Pur mostrandomi sempre distaccato e impeccabile, com’era richiesto dall’etichetta e dal nostro rango, sapevo bene di essere perdutamente cotto di lei, e avevo l’intima convinzione che, pur trattandomi con la stessa ruvidezza con cui trattava tutti quelli che le si avvicinavano, soprattutto per ribadire la sua indipendenza e la sua unicità, io avessi un posto particolare nel suo cuore. Nel giro di un paio di anni, fantasticavo con una certa regolarità e con un notevole compiacimento, non sarebbe stato sconveniente dire a mio padre cosa avevo per la testa ed ero convinto che la proposta con cui mi sarei presentato a Cygnus Black, secondo le regole dell’alta società magica, avrebbe reso particolarmente felici e soddisfatte entrambe le nostre famiglie. E la stessa Bella.
Sile, seduta sul plaid dietro di me, si mise ad applaudire, non appena le farfalle si disposero in un disegno geometrico tutte intorno a noi. Erano molto amiche, lo erano dal primo giorno, dal primo viaggio in treno fatto oltre un anno prima, tutti insieme nello stesso scompartimento: oltre a noi tre c’erano Warrington, mio fedele compagno di avventure, Amycus Carrow e Augustus Rookwood, entrati a Serpeverde il mio stesso anno e miei compagni di stanza. Bella, pur più piccola di un anno, si era integrata facilmente, mostrando una certa complicità, da subito, con Sile: dal tipo di occhiata ammirata e maliziosa che spesso mi rivolgevano, ero più che convinto che buona parte delle loro confidenze riguardassero me. Mi alzai, dopo essermi complimentato con Bella, intenzionato a correre dietro Rodolphus apparso lungo il sentiero, con il resto della squadra, diretto allo stadio per i provini per il nuovo cercatore: la successiva domenica ci sarebbe stata l’ultima partita con Teddy Lammark, tanto valeva iniziare ad avere le idee chiare sul prossimo futuro. Io giocavo già dal secondo anno nel ruolo di cacciatore, con notevole profitto, ma sapevo di essere nato per essere un cercatore, e non ero l’unico a pensarla così…

    “Vai, Sherton, fatti onore!”

Sile si avvicinò, stampandomi un bacio sulla guancia, era molto bella e aveva molto successo presso i miei compagni, ma io non la notavo quasi per niente, avevo occhi solo per Bellatrix.

    “E se vedi un nemico particolarmente ostico, fammi un fischio…”

L’espressione maliziosa di Bella non prometteva nulla di buono, come il colpo di bacchetta che voleva simulare una bella “Imperius”.

    “Cercherò di riuscirci anche senza il tuo aiuto, Black, ma ti terrò presente…”

Le sorrisi, canzonatorio, ma quando mi stampò a sua volta un bacio sulla guancia, e odorai il suo profumo di fiori primaverili, per un attimo persi completamente di vista il motivo per cui dovevo andarmene da lì e salire su uno stupido bastone invece di restare su quel prato a farmi baciare da lei…

    “Insomma ti muovi!?”

Rodolphus e il suo ghigno mi riportarono con i piedi per terra, non era la prima volta che mi derideva per la mia capacità di scordarmi del Quidditch, se c’era di mezzo Bellatrix Black… Secondo lui, però, se avevo davvero un qualche genere d’interesse per Bella, dovevo lasciar perdere regole ed etichette, e farmi avanti, perché quella non era il tipo di ragazza che pensava solo a compiacere la famiglia, ma piuttosto ricercava il piacere per se stessa. Io non capivo ancora cosa intendesse dire, ma guardavo con una certa apprensione al suo ghigno poco rassicurante, ogni volta che le posava gli occhi addosso. Scacciai quei pensieri fumosi e sorrisi alle mie ammiratrici, vidi un incoraggiante sguardo malizioso sul loro viso, io, impeccabile e galante come sempre, feci un rapido inchino, presi al volo la mia giacca abbandonata sul plaid e raggiunsi i miei amici, sicuro che quel pomeriggio avrei fatto un incontro definitivo col mio unico e vero destino.

***

Mirzam Sherton
Herrengton Hill, Highlands - luglio 1964

    Meowwwww…fzzzz…
    “Mirzam!”

Lasciai immediatamente Sabia, il vecchio gatto di famiglia, e rientrai di corsa in casa. Mio padre era nello studio del nonno, alla scrivania, il naso affondato in una marea di documenti, l’espressione un po’ corrucciata: detestava qualsiasi cosa gli impedisse di stare all’aperto e, soprattutto, odiava con tutta l’anima quel genere d’incombenze. Vestiva alla babbana, con una camicia chiara, semi aperta, e dei jeans scuri, non in una delle sue stanze, ma in quello che da secoli era uno dei “Sancta Sanctorum” della nostra famiglia, circondato da immagini dei nostri avi sobriamente abbigliati con toghe da mago e da strega, che lo guardavano con disappunto.

    “Avevo detto niente dispetti a gatti, elfi e fratelli, o sbaglio?”
    “Ma padre… mi stavo annoiando…”
    “Ti annoi a Herregton? Vuoi dirmi che hai già visto tutto il castello e scoperto tutti i suoi segreti? Ammirevole: io, in trentatré anni, ancora non ho nemmeno capito quante stanze ci sono…”

Mi stampò il suo sguardo d’acciaio addosso, ma subito l’espressione burbera si dissolse in un sorriso, sembrava che avesse già perso la voglia di farmi la ramanzina.
 
    “No, è che… mi sarebbe piaciuto giocare a Quidditch… ma…”

Sapevo che era ingiusto che mi lamentassi perché in quei giorni mi stava ignorando, se avesse potuto, sarebbe stato con me la maggior parte del tempo. Mi guardò, complice e colpevole.

    “Lo so, Mirzam, lo so, lo preferirei anch’io, ma porta pazienza ancora per un paio di giorni, questi documenti vanno sistemati per domani. Appena mi sarò tolto il Ministero da dosso per un po’, sarò tutto tuo… promesso…”

Mi fece il segno di accomodarmi sul divano di fronte a lui e chiese a Kreya di portarci qualcosa da bere, amichevole come suo solito: Alshain Sherton, però, restava sempre mio padre e quel pomeriggio mi aveva chiamato lì perché doveva riprendermi. Era arrivato il momento.

    “Lo sai, non voglio che tu faccia stupidi scherzi e infastidisca chi non può difendersi…”
    “Ma padre… Ho solo provato un incantesimo nuovo sulla coda di Sabia, lo fanno tutti a scuola…”
    “Non m’interessa cosa fanno gli altri: tu sei mio figlio, nei diritti come nei doveri… Ti permetto di fare cose che i tuoi amici neppure si sognano, di contro pretendo che tu non ne faccia altre, anche se per loro sono normali… Sul divieto di non infastidire chi è indifeso, io non transigo…”
    “Ma …”
    “Se questa regola non ti piace, puoi andare a vivere con chi permette ai figli di torturare il prossimo, ma poi usa la frusta su di loro anche per le sciocchezze…”

Stavolta il suo sguardo era severo e mi costrinse ad abbassare gli occhi. Era vero. A Rodolphus era permesso fare tante cose che i miei genitori non volevano facessi, però pagava quella maggiore libertà con le sfuriate ingiustificate di suo padre. L’ultima volta era successo in primavera: Rodolphus era stato frustato a sangue perché, secondo il suo vecchio, non onorava la famiglia come ci si aspettava da lui; in realtà, non aveva fatto niente di male, solo che, quand’era sbronzo, suo padre perdeva il controllo. E questo accadeva spesso. Mio padre, invece, in teoria molto più severo, anche quando sbagliavo, non alzava mai le mani su di me, e su tanti argomenti, invece di dirmi solo “NO”, mi spiegava il perché dei suoi NO, mi faceva capire a quali conseguenze portavano certe scelte, poi mi lasciava libero di decidere da me, ed io rinunciavo volontariamente, ormai consapevole della stupidità di quanto avrei voluto fare.

    “Scusami…”
    “Non è necessario, l’importante è che tu capisca l’idea di rispetto: in questa casa sei amato e rispettato perché per noi vali come persona, non come proprietà del casato… Capisci cosa intendo dire?”

Annuii, bastava confrontarmi con Rodolphus per capire che non eravamo come gli altri e col passare del tempo notavo che questa nostra diversità comportava vantaggi non indifferenti.

    “Molto bene, vorrei che imparassi a rispettare le altre persone e le altre creature non per l’importanza sociale che hanno, ma per se stesse …”
    “Ma padre…”

Mi guardò e sorrise, questa era un’idea così poco Slytherins, questo era quel genere di discorso su cui spesso ci scontravamo: era riuscito a smuovere la mia curiosità e la mia confusione ancora una volta, perché sapevo che dietro a tutto quello che diceva c’era sempre un significato importante e nascosto.

    “So bene cosa si dice nei sotterranei di Serpeverde, sulla superiorità dei maghi Slytherins e Purosangue, e non sarò certo io a negare un’evidenza, ma posso e voglio dimostrarti che ci guadagni anche tu, portando rispetto al prossimo. Rifletti: cosa ottieni agendo con insolenza o violenza? Solo paura e, in chi può permetterselo, odio: questi sono sentimenti che innalzano l’ego di chi non ha reale autorità, al contrario, chi il potere ce l’ha, per sentirsi forte non ha  bisogno della paura di chi lo circonda; rispettare gli altri invece può diventare conveniente per noi stessi: ottieni rispetto e devozione, e questo porta a fedeltà assoluta: soprattutto con gli elfi domestici, ti consiglio di non dimenticarlo mai…”
    “Parli come se dovessimo temere per il futuro…”
    “E’ sempre bene mettere solide basi per tempo, Mirzam, la nostra storia ci insegna a non abbassare mai la guardia: sarebbe un problema se un giorno fossimo in pericolo e ci fosse dinanzi a noi solo una creatura “inferiore” di cui non possiamo fidarci perché l’abbiamo sempre maltrattata, magari proprio un babbano…”
    “No quello mai… chiedere aiuto a un babbano… Mai! Preferirei la morte…”

M’infervorai subito: su quell’argomento ci scontravamo, spesso e volentieri.

    “Mirzam…”

Mi ero alzato e già mi avviavo alla porta, confuso e preoccupato e anche arrabbiato. Si alzò anche lui e si avvicinò, calmo, lo sguardo sicuro puntato sul mio viso a scrutarmi e capirmi.

    “Ti prometto che lascerò in pace il gatto come vuoi tu e proverò l’incantesimo su qualcosa d’inanimato… e mi comporterò bene con gli elfi, per assicurarmi che mi siano sempre fedeli…”
    “Mirzam…”

Mi voltai verso le scale, poi tornai a guardarlo, incapace di trattenermi eppure incapace di restare. Ogni volta che parlavamo di quei sudici esseri, mi andava il sangue al cervello… Credevo che mio padre avesse dimenticato tutto. E al tempo stesso sentivo che i suoi insegnamenti e il suo atteggiamento erano giusti. Ero confuso e spaventato… Ora che io ero a scuola e i miei fratelli così piccoli da non restare turbati, mio padre spesso si lasciava andare di nuovo ai suoi “hobby” babbani, nelle sue stanze, lì a Herrengton: io, a volte, avevo protestato con lui, chiedendo come fosse possibile, ricordandogli che noi eravamo Sherton, che il nostro stemma diceva “Les Bien-Aimés”, i prediletti di Salazar… Mio padre mi ascoltava senza fare una piega, il viso che non tradiva emozioni, poi m’invitava a sedermi accanto a lui, accendeva il mangiadischi babbano o mi leggeva un libro e iniziava a spiegarmi: erano delle storie meravigliose, fatte di amore e odio, passione e sacrificio, avevano in sé degli importanti insegnamenti ed io rimanevo affascinato ad ascoltarlo. E pur per brevi attimi, le parole d’odio di Salazar lasciavano spazio a un sentimento che non comprendevo appieno, ma che ricordavo di aver provato tanti anni prima, prima di quell’orrendo giorno di sangue. Accanto a mio padre, tornavo indietro nel tempo, alla mia prima infanzia, quando non avevo paura dei babbani e riuscivo a capire dentro di me, seppur non in modo razionale, cosa ci trovasse mio padre in quel mondo a me incomprensibile.

    “Io non capisco: perché devi sempre tirarli fuori, perché?”
    “Perché ti devo insegnare cose più importanti di quelle che ti spiegano a scuola… perché per il tuo futuro non basta sapersela cavare col calderone o essere più rapidi con la bacchetta… perché per farti diventare un uomo non bastano queste Rune sulla pelle… non sarei tuo padre se non agissi così…”

Era vicino a me, la sua mano calda sulla spalla e il suo sguardo fisso nel mio: mi rilassai all’istante, volevo solo stargli accanto. Mi guidò fuori, su una delle panchine del cortile delle rose, era una bella giornata di luglio, calda e appena ventilata, senza nemmeno una nuvola: sotto di noi spaziava fino all’infinito l’oceano, placido, nel suo color mercurio appena increspato dalla brezza.

    “La vita non è semplice, Mirzam, il Bene e il Male non si dividono perfettamente a metà il mondo. La bontà e la cattiveria sono insiti nel cuore degli esseri viventi, di tutti gli esseri viventi, non c’è relazione tra onestà, giustizia e Purezza di Sangue… Altri maghi Purosangue educano diversamente i figli, lo so, e inorridirebbero a sentirmi parlare così, ma la nostra prima regola è sopravvivere e non puoi farlo se non riconosci quello che hai intorno. Per questo vorrei farti conoscere tutto, come mia madre ha fatto con me, in questo modo imparerai a ragionare con la tua testa, e sviluppare il tuo senso critico: a fare le tue scelte in maniera consapevole e soprattutto indipendente dal volere degli altri…”
    “La prima regola è sopravvivere, ma la seconda è vendicarsi… non puoi negare quello che ci hanno fatto per secoli… E quello che hanno fatto alla mamma, a te e a me, pochi anni fa…”

Sospirò…

    “Molti babbani sono malvagi, Mirzam, inutile negarlo, molti di loro non meritano la nostra fiducia, ma questo vale non solo per loro, vale anche per gli altri maghi: in nome della seconda regola dovremmo uccidere metà delle famiglie che conosciamo, lo capisci Mirzam? O credi davvero che nella nostra storia abbiamo subito solo gli attacchi dei babbani? E che le famiglie magiche che si dichiarano nostre amiche oggi, nel corso dei secoli non abbiano mai guardato a Herrengton con bramosia? Molti di loro hanno fatto qualcosa per distruggerci, anche in tempi recenti… Dobbiamo usare senso critico, Mirzam, per fare distinzioni, sia guardando ai maghi sia guardando ai babbani… Non serve a niente vendicarsi in maniera indiscriminata, approfittando della debolezza di chi ci sta di fronte… Si deve pagare per le proprie azioni, non per quello che ereditiamo dal passato, o per quello che fanno i nostri simili… Anche tra i nostri avi ci son stati uomini malvagi, perché dovresti essere tu o uno dei tuoi fratelli a pagare per loro?”
    “Vuoi dire che non dovremmo più vendicarci, perché non esiste più chi ci ha fatto materialmente del male e dovremmo conoscere e apprezzare il loro mondo? No… No… Io… D’accordo, è ingiusto toccarli per colpe del passato, ma perché non dovrei almeno fingere che non esistano? Perché leggere di loro, sentire di loro, usare le loro cose? Perché? Perché accettare di essere loro amico? Noi siamo Sherton, padre, non Grifondoro rinnegati! Possiamo vivere anche senza di loro… Tu dovresti vivere senza di loro!”

Lo guardai, quasi con le lacrime agli occhi: era la prima volta che quasi lo supplicavo di smettere di essere com’era…

    “E’ questo che ti sconvolge, Mirzam? Hai paura per me? O addirittura di me? Temi per la mia fedeltà a Serpeverde? Hai paura che io sia un babbanofilo?”

Feci di no con la testa, ma non avevo il coraggio di alzare gli occhi sul suo viso. Mi prese la mano e seguì con l’indice le Rune sul palmo, testimonianza del fatto che suo padre aveva preferito affidare a me Meissa: non avevamo mai parlato di quel giorno, ma qualcosa nel suo modo di guardarmi mi diceva che avesse un’idea chiara di quanto c’eravamo detti io e il nonno. Forse riconosceva nelle mie parole quelle di suo padre.

    “Anche questo, per me, è un segno di forza, Mirzam: io sono sicuro di ciò che sono, per questo non li temo e non li odio, anzi, riesco a essere persino amico di alcuni di loro… Si può vivere senza di loro, hai ragione, ma perché dovrei limitarmi? Se non leggo una poesia o non sento una musica, o non bevo un vino, perché l’hanno fatta loro, li privo di qualcosa, o piuttosto lo nego a me stesso? Rifletti… E chiediti quando e in che modo questi fatti banali hanno intaccato la mia natura profonda, la mia natura di Slytherin e di Purosangue…”

Mi fissava, sereno. Mio padre era chiaramente uno Slytherin, bastava pensare con quanto ardore combatteva Dumbledore nelle riunioni del Consiglio ed era molto fermo in certi insegnamenti: diceva sempre che potevamo essere amici, solo amici, di babbani, Mezzosangue e SangueSporco, ma che il nostro sangue doveva legarsi solo ed esclusivamente a chi era come noi. Eppure non era come gli altri, nessuno di noi era come gli altri.

    “E’ tutto così difficile, ed io a volte non capisco: perché siamo così diversi dagli altri?”
    “Vorresti davvero essere come gli altri? Magari come i Lestrange?”
    “No… no… quello no… tu e la mamma… voi… siete migliori dei genitori di Rodolphus…”
    “Perché non ti picchiamo come fanno i Lestrange con i loro figli?”
    “Beh… certo… ma… non è solo per quello...”
    “Noi ci vogliamo bene Mirzam, siamo una delle poche, se non l’unica famiglia Slyherin formatasi per scelta e non per contratto, e in cui i figli sono nati per amore e non per il bene del casato: è questo, non l’atteggiamento verso i babbani, a farci diversi. Per gli altri ciò che conta è il prestigio, il nome, da perseguire a qualsiasi costo, anche sacrificando la felicità di voi ragazzi… tua madre ed io, invece, vogliamo solo che siate felici, tranquilli e al sicuro…”

Mi abbracciò.

    “Ora vai a cambiarti, tra dieci minuti ti raggiungo nel patio e nuotiamo un po’: credo di aver sprecato anche troppo tempo dietro a quelle dannate carte…”

Sorrisi, avevo l’opportunità di passare il resto della giornata con lui, a raccontargli per filo e per segno, di nuovo, com’era stato bello agguantare il boccino in nemmeno due minuti, durante la selezione per il nuovo cercatore, a maggio: in autunno sarei stato il nuovo cercatore di Serpeverde. Avrei rivisto la fiducia e l’orgoglio nei suoi occhi, e questo bastava a cancellare i babbani, i maghi traditori, le parole del nonno e tutto il resto… Bastava questo per renderlo orgoglioso di me, la mia felicità e il mio entusiasmo, mio padre non mi chiedeva gesti d’odio e prepotenza, non dovevo dimostrare niente a nessuno… Dovevo solo essere me stesso.

***

Mirzam Sherton
Londra - 1 settembre 1964

    “Lei è Meda, forse te la ricordi!”

Mi ero separato dai miei genitori davanti al treno, a King’s Cross, per correre dai miei amici, avevo raggiunto prima Warrington poi, con lui, mi ero diretto verso Rodolphus e Augustus, quando a un tratto mi ero sentito tirare per una manica e voltandomi avevo visto Bella, assolutamente meravigliosa come suo solito, insieme a un’altra ragazzina, in tutto simile a lei, solo più piccola: Andromeda Black. Dopo la morte del nonno, avevamo lasciato Londra per vivere a Herrengton, soprattutto per gli impegni di mio padre con la Confraternita del Nord e per la mia preparazione alle Rune, pertanto non eravamo ritornati dai nostri amici nemmeno durante l’estate. Non vedevo Meda da circa due anni, da quando l’avevo scambiata per sua sorella, proprio davanti al treno per Hogwarts: era una ragazzina minuta dai lunghi capelli castani raccolti in un’alta coda, i lineamenti fieri tipici di quella famiglia, dei meravigliosi occhi chiari, che al contrario di quelli di Bella, rivelavano un animo dolce e gentile. Come tutti i Black, benché fosse solo una ragazzina di appena undici anni, vestiva già con una seriosa toga da strega, verde smeraldo, così che fosse chiaro a tutti, a un semplice sguardo, quanto profondamente nel loro animo fosse incisa la parola di Salazar.

    “Ciao Andromeda Black, finalmente a Hogwarts anche tu…”

Le diedi la mano e appena lei mi diede la sua, mi chinai a baciarla, come si conveniva alle nostre famiglie: all’inizio non notai che il sangue mi stava scorrendo più veloce, quando sentii il suo calore e il suo profumo, passò parecchio tempo, da quel giorno, prima che me ne rendessi conto, ma era già tutto scritto in quell’istante, in quel rapido sguardo, in quel bacio, in quell’abbraccio tra amici che ci scambiammo dopo tanto tempo. E c’era già qualcosa anche nello sguardo di Bella, qualcosa che imparai a riconoscere, a mie spese, solo molto tempo dopo.

    “Vostro zio come sta?”
    “Credevo che lo sapessi tu, Sherton, ultimamente gli unici ad averlo visto vivo sono zia Walburga e tuo padre… C’è qualcosa di strano in questa storia…”

Vidi Meda gettare un’occhiataccia a sua sorella, probabilmente non pensava fosse educato parlare in quel modo dei loro parenti davanti a tutti quegli estranei.

    “A casa mia ho sentito dire soltanto che è uscito dal Vaiolo di Drago per il rotto della cuffia, ma questo ormai quasi un mese fa, non ho notizie più recenti…”
    “Sì, ha avuto il Vaiolo di Drago, per questo hanno mandato da noi per l’estate i due marmocchi…”
    “Bella!”

Meda ci interruppe di nuovo, pronta a difendere i cugini dalle insolenze della sorella. Sorrisi.

    “… volevo dire i “principini”…”

Bella ghignò, seguita a ruota dagli ululati derisori di Rodolphus, che non perdeva occasione per darle spago e sostenerla, pur di farsi notare da lei: lo consideravo il mio migliore amico, anche più di Warrington, ma quando si comportava in quel modo con Bellatrix, lo trovavo viscido e odioso, e gli avrei dato volentieri un bel pugno sul naso, anche se faceva tanto babbano. Per mia fortuna, Bella lo metteva sempre in riga da sola, facendogli rapidamente capire che non provava alcun interesse per lui ed io godevo nel vederlo ridotto a zerbino e umiliato. No, i miei sentimenti per Lestrange non erano uguali a quelli che mio padre provava per Orion Black, forse la nostra amicizia non era poi tanto profonda come mi ero immaginato i primi tempi. Forse, se avessi messo in chiaro che m’interessava davvero Bella, lui si sarebbe comportato in maniera diversa, ma in cuor mio sapevo che la preoccupazione, che mio padre provava vedendomi tanto legato a quel ragazzo, era in qualche modo fondata.

    “Il Vaiolo non è uno scherzo, hanno fatto bene i tuoi zii ad allontanare i figli… per voi Black e per l’intero mondo magico quei due ragazzini sono troppo importanti: ci sono già troppe famiglie Purosangue sull’orlo dell’estinzione!”

Augustus era sempre dannatamente serio e a me non piacevano quei discorsi, perché mi riportavano a ricordi che non riuscivo a gestire e spesso si finiva col parlare di argomenti e di progetti che andavano nella direzione opposta a quanto m’insegnava mio padre. Perciò colsi l’occasione di allontanarmi da tutti loro, quando Meda disse di voler tornare dalla sua famiglia e Bella, come suo solito, si disinteressò a lei, precisando subito di non volerla accompagnare: per una volta, allontanarmi volontariamente da Bella non mi fu difficile.

    “Emozionata?”
    “Un po’… spaventata più che altro…”
    “E di cosa? Tutti i Black, da sempre, finiscono a Serpeverde, e lì hai una sorella e molti amici che ti attendono…”
    “Speriamo…”
    “Beh, se vuoi, puoi già considerarmi tuo amico… Gli altri… non penso avrai difficoltà a fartene, gentile e carina come sei…”

Le sorrisi e lei mi guardò imbarazzata ma anche più serena, come già spesso era accaduto, da piccoli, a Grimmauld Place, quando riuscivo in tempo a salvarla da una caduta o quando, per farmi notare da Bellatrix, intervenivo nelle loro scaramucce, salvando un giocattolo di Meda o dirottando su di me i dispetti di Bella. Sì, avevo dei ricordi molto belli dei nostri pomeriggi insieme e sapevo che, se solo l’avesse voluto anche lei, non sarebbe stato difficile per noi essere buoni amici. Quei pensieri carichi di aspettative non dovevano essere solo miei. Raggiunti i nostri genitori, infatti, fummo accolti da sguardi particolarmente interessati, soprattutto di sua madre, Druella Rosier Black.

    “Ecco i nostri ragazzi…. Ma Bellatrix che fine ha fatto?”
    “E’ rimasta a parlare con Lestrange e gli altri, Mirzam si è offerto di accompagnarmi…”
    “Dovete essere proprio orgogliosi di vostro figlio: è un vero cavaliere, se ha lasciato gli amici solo per occuparsi di una bambina…”

Diventai un po’ rosso in viso, tra l’altro a me Meda non sembrava esattamente una bambina… Non riflettei ancora a lungo su Meda, però, perché i complimenti di Cygnus Black mi fecero particolarmente piacere: immaginavo e speravo che anche quel gesto, che mi era nato spontaneo, un giorno mi sarebbe tornato utile per fare buona impressione su di lui, così che avrebbe accolto bonariamente quel certo discorso che gli avrei fatto su Bellatrix. Sempre con l’intenzione di farmi notare, salutai galantemente Cissa, un angelo biondo che aveva raccolto su di sé tutta l’attenzione di mio fratello, mentre Meissa, non abituata a tutta la confusione che avevamo intorno, stava attaccata alle gonne della mamma, sottraendosi come meglio poteva alle attenzioni asfissianti di Druella. Tutto questo non faceva che inorgoglire i miei, anche se non era facile per un estraneo accorgersene: avevano entrambi un’assoluta venerazione per mia sorella, e anch’io la adoravo, non ero mai stato geloso di Mei, al contrario di Rigel, forse perché sentivo la responsabilità che avevo nei suoi confronti.

    “Perché non venite da noi stasera al Manor? Ci saranno anche Walburga e i ragazzi… è tanto tempo che non passiamo una bella serata, tutti insieme…”
    “Mi spiace, Cygnus, ma appena il treno sarà partito, noi torneremo a Herrengton, ho numerosi impegni con la Confraternita. Magari avremo l’occasione di stare insieme durante le vacanze di Natale…”
    “Lo spero, Alshain, ci mancate molto… dico davvero…”

Notai l’espressione seriamente delusa di Druella posarsi su Cissa e Rigel, che nonostante la differenza di età, sembravano già andare molto d’accordo: mi bastò quello sguardo carico di aspettative per capire quanto i miei progetti su Bella avrebbero trovato buona accoglienza presso Black.

***

Mirzam Sherton
Herrengton Hill, Highlands - dicembre 1964

    “Lo faccio per Orion… Solo per Orion…”
    “Orion... Orion… Salazar… Ma dove ha la testa quell’uomo? E tu… Perché…”
    “Per favore… E’ una brutta storia, lo sai…”
    “Qui ci sono i tuoi figli, Alshain… E se lo sapessero al Ministero? E se lo sapessero quegli altri? Quanto sei coinvolto stavolta?”
    “Io? No… Io… Io non ho fatto nulla…”
    “Quello che hai fatto è nulla?”
    “Ti prego… Ti chiedo solo di prenderti cura di lei per questa notte… Per favore… Solo una notte…”

Avevo sentito dei rumori per le scale, avevo riconosciuto la voce di mio padre, ero sceso… Mancavano pochi giorni a Hogmanay: dopo Yule, mio padre era stato continuamente nervoso, e quella sera, quando era arrivato il gufo di Orion Black, era saltato su come una furia ed era sparito all’improvviso, lasciando mia madre piuttosto inquieta. Per questo ero rimasto in allerta: avevo finto di essere andato a dormire, ma avevo atteso in piedi in fondo al letto. Questa volta dovevo capire. Quando avevo sentito la sua voce per le scale, ero sgattaiolato nel buio della torre e avevo spiato la scena dietro alla porta socchiusa: mia madre era in vestaglia nel salone, ancora più sconvolta di prima, mio padre aveva indosso un mantello nero, il cappuccio ancora calato sul viso, a dargli un aspetto inquietante. La mamma si torturava le mani e andava avanti indietro, il fuoco del caminetto sul viso rivelava l’espressione corrucciata: era preoccupata e al tempo stesso adirata. Era strano che si arrabbiasse con mio padre per qualcosa. Papà sembrava spaventato e stanco, lo vidi sedersi con le mani nei capelli, il cappuccio e il mantello alla fine gettati su una poltrona, distrattamente. Non capivo che cosa stesse accadendo, non avevo mai visto mia madre tanto turbata per qualcosa in cui c’entrassero mio padre e Orion: di solito quell’uomo, amico di entrambi e mio padrino, non provocava tra i miei genitori quel genere di reazioni… Poi quell’estate era stato male e tutti dicevano che era successo qualcosa di strano. Nessuno però aveva capito di che cosa si trattasse.

    “Dove si trova adesso?”
    “E’ nel capanno, giù alla radura dei Thestral: c’è un incantesimo di disillusione a porte e finestre, se si svegliasse, penserebbe di essere nella sua stanza, che sia stato solo un brutto sogno…”
    “Salazar... E poi che cosa ne sarà di lei? Pensa di farle fare la fine della madre? Mezzosangue o babbana che sia, è solo una bambina… ed io non ve lo permetterò!”
    “Dei…”
    “No, Alshain, ascoltami… se vuoi il mio aiuto, è a questa condizione: lui e sua moglie non le torceranno un capello… e nemmeno tu…”
    “E’ davvero questo che pensi di me? Che sarei capace di una cosa simile? Se si trova qui, è proprio per essere sottratta ai Black… ma dovranno credere, soprattutto Walburga, che la questione sia stata chiusa stanotte, o quella ragazzina non avrà pace… e nemmeno noi... Vieni qua…”

L’abbracciò. Mia madre si nascose tra le sue braccia, mio padre le accarezzava i capelli, il volto triste…

    “Salazar, ti ringrazio… Ho temuto che fossi impazzito anche tu…”
    “Te lo prometto, Dei… Ti prometto che alla fine sarà una buona azione…”

Mia madre si scostò da lui e lo guardò a lungo, poi rise. Rise di una risata isterica: il fuoco del caminetto rivelò che aveva le lacrime agli occhi… Di chi diavolo stavano parlando? Perché Walburga Black doveva avercela con una ragazzina e che fine aveva fatto sua madre?

    “Buona azione? Tu la chiami buona azione, Alshain? Hai lasciato che le uccidesse la madre, l’hai rapita e ora… Come fai a parlare di buona azione? Che cosa diavolo pensi di fare con lei?”

Gemetti, non poteva essere vero! Entrambi si voltarono verso la porta dietro la quale ero nascosto, allarmati; mio padre si avvicinò, io mi ritrassi nel buio profondo del sottoscala. Si affacciò, si guardò attorno ma non mi vide, tornò indietro e riprese a rassicurarla. Non poteva aver detto quello che avevo sentito… Non poteva essere vero… Non poteva averlo fatto davvero…

    “Non c’è nessuno, oltre a noi, Dei… Forza, vestiti e andiamo!”
    “Dovremmo tenerla con noi… Alshain … qui non la troverebbero mai…”
    “Se fosse possibile, lo farei, Dei… ma è una Mezzosangue, in pochi giorni qui a Herrengton si ammalerebbe fino a morire… Devo portarla all’isola… lì si prenderanno cura di lei…”
    “E quando avrà undici anni? Quando manifesterà i suoi poteri? Come pensi di farla sotto il naso a quei babbani? E come pensi di nasconderla al Ministero nel frattempo?”
    “Non manifesterà più niente, Dei… Lo sai… se è qui, è proprio perché non deve avere più poteri da manifestare…”
    “Tu non puoi parlare sul serio… Sarà anche Mezzosangue, ma resta sempre una strega!”

Vidi la mamma pronta a ribattere, ma mio padre le diede le spalle, dirigendosi alla porta e chiudendo bruscamente la conversazione; io corsi veloce su per le scale, fino alla mia stanza, dopo poco sentii che bisbigliavano litigiosi nella loro camera, il piano sotto al mio… Poi il silenzio: dovevano essersene andati. Non avevo capito niente di quel discorso: si erano detti tante cose assurde, talmente assurde che probabilmente avevo solo sognato… Era folle pensare che qualcuno, solo restando a Herrengton, potesse perdere i propri poteri o addirittura morire: era anche vero che avevano parlato di un Mezzosangue, ma… No, non poteva essere vero… Andai alla finestra, la notte era completamente oscura, senza luna e senza stelle, celate alla vista da un folto tappeto di nuvole cariche di tempesta: ancora non capivo molto di quello che accadeva a Herrenton, e questo spesso mi lasciava interdetto ed esasperato. Dovevo avere pazienza: questo mi diceva mio padre, avrei compreso tutto con il tempo, con il Cammino del Nord e le Rune che avrei preso di lì a qualche anno.  E allora sarei stato capace anche di indirizzare la mia magia in modo più consapevole, cosa che spesso, senza bacchetta, ancora non mi riusciva troppo bene. Ma sapevo che non era quello che mi agitava i sogni. C’erano altri enigmi, e il più grande di tutti era come sempre mio padre. Era impossibile che avesse partecipato a un crimine, lui non faceva male mai nemmeno alle mosche.
Lui mi aveva parlato di rispetto… Lui mi aveva parlato di giustizia… Lui aveva detto che la seconda regola era inapplicabile. Com’era possibile che avesse fatto quello che avevo sentito? Come aveva fatto a uccidere una donna innocente? A meno che anche lui, non fosse altro che un bugiardo… e che fosse il nonno, da sempre, ad avere ragione…

    ... Tuo padre è anche un debole dalle convinzioni deboli...

Possibile che mio padre cambiasse il suo credo secondo le sue necessità? Che piegasse i dettami del Nord e di Salazar in nome di una morale superiore, la sua, ma che però lui stesso disattendeva alla prima occasione?

    … Con la sua curiosità, la sua indecisione, la sua insofferenza, ha messo in pericolo te, tua madre…

Ed era vero che di nuovo, per i suoi giochi e per Orion Black, aveva messo in secondo piano la sicurezza di mia madre e dei miei fratelli? No, non poteva essere vero… Non poteva essere vero… Non poteva…

***

Mirzam Sherton
Emerson Manor, Inverness, Highlands - 31 dicembre 1964

Odiavo già il pensiero di quella giornata. La odiavo. E odiavo lui… Mio padre…
Non gli avevo detto nulla, non gli avevo chiesto nulla. Perché tanto ero sicuro che mi avrebbe imbambolato con uno dei suoi meravigliosi discorsi. Falsi quanto lui. Era capace di rigirarmi come voleva, di rigirarci tutti come voleva, quell’uomo maledetto. Sì, proprio lui, mio padre, l’uomo che ammiravo e difendevo da una vita. Ormai però era finita, non ci sarebbe più riuscito, gli sarei sfuggito, con tutti i mezzi possibili. Fingevo che nulla fosse successo, non doveva accorgersi di niente, ma non riuscivo a guardarlo in faccia: in questo modo, negli ultimi giorni, avevo inventato dei malesseri, per stargli il più lontano possibile, ma Hogmanay alla fine era arrivata e sapevo che, a casa degli Emerson, ci sarei dovuto andare e, come suo figlio, sarei dovuto restare al suo fianco. Hogmenay, festa dell’ultimo dell’anno, doveva essere celebrata, come Yule, insieme a tutta la Confraternita secondo gli antichi Riti e, quell’anno, toccava agli Emerson ospitarci e officiare. Sospirai e assunsi l’atteggiamento più irreprensibile possibile, anche se, dentro di me, ormai da giorni, era in atto una tempesta che non riuscivo a domare. Era come se, quella notte, di colpo, si fossero sciolti tutti i veli che negli anni mio padre mi aveva messo davanti agli occhi, per ingannarmi. Eppure, nel profondo, imbavagliata, perché non riuscisse ad arrivarmi al cuore, c’era una singola voce che sussurrava:

    “Stai sbagliando, c’è una spiegazione, non è come immagini tu…”

Io non volevo più ascoltarla. Gli Emerson erano, come noi, maghi del Nord, ma di tradizione Corvonero, anche se l’ultimo matrimonio aveva visto l’amico di mio padre, Donovan Kenneth Emerson, sposare una Pucey, della nota e straricca famiglia Serpeverde di Manchester. Avevano procreato un paio di figli prima di separarsi: William, dell’età di Rigel, e Janine, di un anno più piccola, entrambi a mio avviso completamente insignificanti. Me ne andai in giro per la casa, come mio solito, a Emerson Manor ero considerato di famiglia, lasciando mio padre impegnato con i suoi amici e mia madre a chiacchierare con le altre mogli, tutte ammirate da Rigel e Meissa. Giorno per giorno mia sorella assomigliava sempre di più a nostra nonna, Ryanna Meyer, ma io speravo, in cuor mio, che la somiglianza fosse solo esteriore, perché ero convinto che fosse dovuto a quella donna il germe che aveva reso debole mio padre e quindi la nostra famiglia. Odiavo sentirmi debole. Nonostante questi turbamenti, quando guardavo mia madre e mia sorella, trovavo sempre quel senso di serenità e pace che nient’altro sembrava più riuscire a darmi; al contrario, ogni volta che posavo gli occhi su quella piccola peste di mio fratello, mi prendeva l’orticaria. Forse ci vedevo già tanto di mio padre, in quel "soldo di cacio", perciò cercavo di stargli alla larga il più possibile, sicuro che, prima o poi, nonostante fosse così piccolo, non sarei riuscito a trattenermi e sarei stato capace di affatturargli la “coda”. Senza accorgermene, preso dalle mie riflessioni, avevo percorso il bel corridoio fino ad arrivare alla biblioteca al primo piano, aperta al pubblico: Emerson Manor era una casa bellissima, ottocentesca, piena di fregi che mi ricordavano tanto la casa di Essex Street in cui ero nato, a Londra, piena di decorazioni Corvonero, che all’epoca ammiravo tanto, ma che ora, riflettendo, mi gettavano in uno stato di profondo sgomento. Potevo definirmi un vero Serpeverde? Il sangue che mi scorreva nelle vene era ancora all’altezza della volontà di Salazar? O gli strani precetti di mio padre mi avevano in qualche modo rammollito?
Intercettai Lavinius, il piccolo elfo domestico degli Emerson, che si premurò di portarmi una spremuta di arancia e una fetta di torta lì nella biblioteca, in attesa che tutti gli ospiti arrivassero e che finalmente fosse tempo di celebrare i riti. Era uno dei posti più affascinanti della casa, profumava di tabacco buono e di legno pregiato, era una stanza contenuta, alle cui pareti erano addossate delle incisioni e quattro librerie contenenti libri antichi e preziosi, e non tutti completamente legali: mi avvicinai e feci scorrere l’indice su quei dorsi di pelle ricamata, su cui campeggiavano altisonanti scritte latine in caratteri gotici, impresse in oro, contenenti manoscritti antichissimi, illustrati da meravigliosi disegni e incisioni. Come tutte le altre volte, però, ignorai la maggior parte di loro, libri contenenti incantesimi leggendari e formule per pozioni potentissime, per lasciarmi calamitare da lui, il libercolo che riluceva tra gli altri per il suo sulfureo odore di sangue:

Malleus Maleficarum, 1486 di Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer.
La bibbia degli inquisitori.

Individuato, mi avvicinai, lo presi in mano e mi lasciai sopraffare da orrore e dolore e rabbia e odio che fuoriuscivano da pagine, righe e parole. Poi lo riposi con cautela, senza fermarmi a leggere altro che alcuni titoli e mi voltai, verso la parete che ospitava la porta d’ingresso, facendomi travolgere dalle emozioni che sgorgavano in me quando lasciavo scorrere lo sguardo sulle incisioni che vi erano appese. Sapevo che Emerson le considerava una specie di promemoria e impegnava una buona parte del suo tempo e delle sue risorse per scovarle e impossessarsene, andando incontro alla perplessità e alla disapprovazione di mio padre. Mi avvicinai alla parete e iniziai a osservarle una dopo l’altra, erano una litania di metallo, che si sviluppava dall’alto verso il basso. In una c’era una giovane donna vestita con una specie di tonaca e una cuffia sulla testa: era issata su un palo e data alle fiamme. In un’altra, una vecchia dalle chiome scarmigliate era legata con una corda, sospesa a qualche piede da terra e fustigata. In un’altra ancora, il corpo straziato di una giovane era legato a una strana ruota, e tirata all’indietro da un uomo dal ghigno feroce e lascivo: quel ghigno aveva qualcosa di familiare. Era lo stesso di uno degli uomini che ci avevano aggredito. In tutte quelle immagini ricorrevano sempre dei particolari che mi facevano contorcere dentro: c’era sempre almeno una donna indifesa, sottoposta ad atroci sofferenze, derisa e giudicata, e umiliata; c’erano uomini dall’aspetto turpe, dagli occhi feroci e lascivi, che godevano delle sue lacrime, e della sua umiliazione. Infine c’era il soggetto che odiavo più di tutti, un giovane dal capo in parte rasato, la tonaca lunga, il crocefisso in mano, l’aria estatica e invasata, privo di quella pietà cristiana con cui si riempiva la bocca. E osservando con attenzione, c’era sempre qualche bambino, in quelle scene di violenza estrema: quei quadretti ormai li conoscevo a memoria, di solito i ragazzini facevano parte del gruppo degli aggressori, dileggiavano la donna e contribuivano a umiliarla, ma osservando con attenzione, era sempre possibile scovare un bambino in disparte, con gli occhi sbarrati, che piangeva, conscio della propria incapacità di aiutare la donna.
Ero convinto che quello fosse il figlio della strega. E in lui non potevo fare a meno di identificarmi.

***

Mirzam Sherton
Hogsmeade, Highlands - maggio 1965

    “Dagliele, Mirzam! Dagliele!”

Eravamo su un viottolo secondario della strada per Hogsmeade, lontano da sguardi indiscreti, serravo la bacchetta con la sinistra e guardavo con un ghigno sulfureo all’indirizzo di Justin Matheson, SangueSporco, quinto anno, Tassorosso. Rodolphus, Bella e Sile, come al solito, erano con me, a far da spettatori e a incitarmi. Non era la prima volta che facevo a botte. Dall’inverno precedente, a volte, per me era quasi più urgente che salire sulla scopa. In genere, Jarvis, l’unico tra noi ad avere un po’ di sale in zucca, mi fermava in tempo prima che riuscissi a fare del male sul serio a qualcuno o che me ne facessi io, ma quel giorno non c’era. Era in parte merito suo se, di questa storia, ancora non ne era venuto a conoscenza né il corpo docente, né tantomeno mio padre. Anche se le mie vittime preferite, placidi Tassorosso e qualche Grifone particolarmente impressionabile, ben si guardavano dal denunciarmi, spesso grazie anche all’intervento provvidenziale e risolutore degli “Oblivion” di Lestrange. Lanciai l’ennesimo “Stupeficium”, Justin riuscì a salvarsi nascondendosi dietro un albero, ma sapevo che ormai non aveva più molta resistenza, era una mezzora buona che lo braccavo. E tutto questo solo perché non ci aveva dato la precedenza all’uscita da Madama Hockbilden: ero stanco dell’insolenza e dell’inutilità di quella feccia… O almeno, a me sembrava insolenza.

    “Dai, Mirzam, dai! Che stavolta impara a stare al suo posto!”

Bella era tutta emozionata, sicura che lo scontro non sarebbe finito prima che Matheson fosse stato costretto a chiedere pietà; quel giorno, accanto a lei, non c’era nemmeno la piccola Meda: era l’unica presenza che riuscisse a farmi desistere dal commettere qualcuna delle mie bravate, anche se ancora non ne capivo la ragione. Avanzai lentamente verso gli alberi, cantilenando una nenia degna dei racconti terrificanti di Lestrange, intenzionato a scovare la mia preda e finirla una volta per tutte. Dietro di me, si levavano alte le risate di scherno e le incitazioni dei miei amici. Potevo mettere fine a quella sceneggiata con un paio di colpi a tradimento, come facevo spesso quando sentivo l’incoraggiamento del mio pubblico. Era ciò che Bella si aspettava da me, ciò che mi aveva permesso di entrarle ancor più nel sangue. Ora ne ero certo, i suoi occhi brillavano per me di una luce ancora più intensa, da quando avevo messo da parte la mia natura fredda e distaccata e avevo preso a fare giustizia contro Mezzosangue e SangueSporco. Quando però trovai Justin, terrorizzato, dietro l’albero, mi risuonarono in testa le parole di mio padre, sul rispetto e la giustizia e sul non prendersela con chi è indifeso. Mi maledii per la mia dabbenaggine, inghiottii le maledizioni che mi salivano alle labbra contro il mio vecchio e abbassai la bacchetta: anche se provavo un odio cieco per lui e le sue teorie e le sue bugie, mio padre continuava a infiltrarsi nella mia mente quando meno me l’aspettavo, portandomi a compiere azioni che non riconoscevo come mie, così piene di debolezza e misericordia, tanto da darmi il voltastomaco. Fu così anche in quell’occasione.

    “Cerca di riconoscere il Valore del Sangue, Matheson, finché sei ancora tempo… Spero che tu riesca a impararlo da questa lezione…”

Lo lasciai scappare davanti a me, rimisi la bacchetta alla cintola, mi pettinai con le dita e mi sistemai camicia e cravattino, tra le risate dei miei compagni. Tranne di una di loro.

    “Ma come? Lo lasci andare così? È un SangueSporco!”

Bella era infuriata, io la fissai risoluto, poi iniziai a incamminarmi: non dovevo dare spiegazioni a nessuno, avevo già una ferocia assurda che mi urlava nel cervello, non c’era bisogno che ci si mettesse anche lei. Sentivo però il suo sguardo deluso su di me, come se l’avessi tradita, e le sue urla presto m’investirono: a volte mi facevano paura tutto l’odio e la violenza che albergavano in lei.

    “Io non me la prendo con chi non può più difendersi, Black, lo sai, e quello oramai stava per farsela sotto…”
    “Tu e il tuo dannato senso dell’onore! È solo feccia, lo capisci? Non merita rispetto!”
    “Credo di avergli concesso fin troppo onore e attenzione…”
    “NO! Non è vero! È che voi Sherton non siete delle vere Serpi, ecco cos’è… voi… di voi… si dice…”

La fulminai con lo sguardo, ammutolendo lei e gli altri presenti: per la prima volta riuscivo a guardarla senza sentire gli effetti del suo fascino sulla mia mente. In quel momento non era più la ragazza che mi faceva sognare da anni, era un nemico, un nemico che dovevo far tacere, un nemico che non avrei avuto difficoltà a schiacciare. Un nemico da distruggere. Come tutti quelli che mettevano in dubbio la natura della mia famiglia. Estrassi rapidamente la bacchetta e senza toglierle gli occhi da dosso, lanciai per la prima volta nella mia vita una “Cruciatus” colpendo, in piena schiena, Matheson che non aveva fatto in tempo ad allontanarsi a sufficienza: rimase svenuto in mezzo al sentiero, Rod e Sile, increduli e sconvolti, cercarono di far qualcosa per rimetterlo in sesto. Ma non era ancora abbastanza per me.

    “Che cos’è che si dice degli Sherton, Black? Avanti…”

Senza neppure rendermene conto, l’avevo ghermita con una mano e con l’altra le puntavo la bacchetta alla gola, costringendola contro un albero: mi guardava inorridita, incapace di disarmarmi, probabilmente temeva che fossi impazzito. Ghignai e abbassai la bacchetta, continuando però a tenerla stretta a me, arpionandola con forza: sentivo il respiro di Bella mozzarsi nel dolore, i suoi occhi si erano riempiti di lacrime, non sapevo se di sofferenza, di rabbia o di paura. E mi scoprii a godere nel vederla così, Merlino se mi piaceva sentirmi così forte…

    “Che cos’è che si dice degli Sherton, Black? Avanti… E soprattutto... chi è che lo dice?”

Tremava. Soddisfatto, le lasciai il braccio e le diedi le spalle, sicuro, continuando poi per la mia strada, da solo. L’avevo ammutolita, li avevo ammutoliti tutti. Nessuno di loro si aspettava che riuscissi a fare una cosa del genere. Nessuno di loro avrebbe più provato a usare quegli argomenti con me, almeno non in mia presenza. Sapevo anche, però, che non sarei più riuscito a guardare e pensare a Bella senza rivedere la sua espressione mentre le facevo del male: non c’era solo la paura in quello sguardo, come mi aspettavo. C’era anche una strana, assurda, folle, soddisfazione. Lei per prima, molto prima della mia famiglia, dei miei più cari amici e di me stesso, aveva scorto e riconosciuto la vera natura della mia anima. E questo, più di ogni altra cosa, del mio nome, del mio sangue, della mia richezza, l’aveva compiaciuta.


*continua*



NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti, recensito ecc ecc.

Valeria



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