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Autore: Watson_my_head    21/04/2018    4 recensioni
E se in fondo a quel pozzo fossero finiti sia John che Sherlock?
(E niente sorelle psicopatiche e prigioni inespugnabili).
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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  [Disclaimer: se questa storia vi risultasse in qualche modo familiare, vi prego gentilmente di contattarmi in privato.]
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Ottavo errore




 

Il caso era stato archiviato con successo. Il gioco era finito, per il momento. Queste erano state le parole che Sherlock aveva usato per definire la conclusione di quella storia che aveva impegnato lui, John, Lestrade ed una quindicina di poliziotti per tre settimane.

“Ho bisogno di una vacanza”- aveva detto Lestrade allontanandosi verso l'auto della polizia quando finalmente tutto era finito. Sherlock aveva sorriso appena in quel suo modo un po' strafottente. John invece era piuttosto serio, quasi assente. Erano appena usciti dal St Barth e John indossava un vistoso reggibraccio blu a sostegno del braccio destro ingessato e piccoli cerotti che coprivano alcuni punti di sutura sulla fronte. Entrambi avevano un aspetto davvero terribile.

“Voglio solo tornare a casa”- disse strofinando un po' gli occhi con la mano sinistra.

“Hai bisogno di dormire e di mangiare. Credo di averne bisogno anche io.”- le parole di Sherlock suonavano come un ordine alle orecchie allenate di John. Aveva le mani nelle tasche del cappotto che sembrava aver visto giorni migliori, e osservava qualcosa in lontananza, molto probabilmente niente. John, qualche passo dietro di lui, lo guardò per un breve istante prima di essere distratto da un taxi. E quello fu un viaggio davvero silenzioso.

 

Rientrati in casa dovettero driblare Mrs Hudson e le sue mille domande sul dove fossero stati per giorni, sul perché nessuno l'avesse avvertita fino a quella mattina, sul perché fossero conciati “come due barboni” e sul perché John avesse un braccio rotto. Sembrava isterica.

“Per l'amor di Dio.”- fu l'unica cosa che Sherlock le disse sbattendo la porta di casa e lasciandola sola sul pianerottolo. John gli lanciò un'occhiata torva per l'essere stato così scortese, ma era troppo stanco anche solo per tornare indietro di qualche passo, riaprire la porta e dire qualsiasi cosa, quindi si lasciò praticamente cadere sulla sua poltrona chiudendo gli occhi.

“Ti fa male?”

“Mh?”- riaprì gli occhi e si trovò Sherlock in piedi, di fronte a lui.

“Ti fa male, il braccio?”- fissandolo.

“Un po', è normale. Ma mi hanno dato un antidol... e smettila di fissarmi in quel modo.”- rispose John cambiando il tono di voce.

“In che modo?”- si girò per guardarsi allo specchio.

“In quel modo. Quello. Quel modo che hai di fissare le cose.”

“E' il mio sguardo.”- rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

“E' il tuo sguardo. E' la tua faccia, si lo so. Lascia perdere. Comunque, sto bene.”- il tono di voce era leggermente irritato. “Sono solo stanco. E ho bisogno di fare una doccia. E anche tu francamente.” - disse, gettando un occhio alla figura in piedi davanti a lui. Nonostante tutto quello che avevano passato negli ultimi giorni, Sherlock riusciva comunque a mantenere una certa eleganza. Caratteristica comune degli Holmes, evidentemente. Gli dava un po' sui nervi, soprattutto adesso, ma non si poteva di certo dire la stessa cosa del suo vestito, almeno. Chiuse gli occhi un po' rinfrancato, se così si può dire, da quell'ultima osservazione.

Sherlock piegò la testa leggermente di lato, non disse nulla e si sedette sulla sua poltrona. Probabilmente stava ancora pensando a cosa avesse il suo sguardo che non andava, o magari aveva iniziato a pensare ad altro. Fissò di nuovo John per qualche secondo ma non voleva irritarlo ulteriormente quindi decise di fissare le sue scarpe. Fissare le scarpe andava bene, e Dio se erano ridotte male. Completamente ricoperte di fango secco tanto che era quasi impossibile riconoscerne il colore. Muovendo gli occhi condusse lo sguardo fino alla porta di ingresso e solo allora si accorse che entrambi avevano lasciato briciole di terra secca in giro per il soggiorno. Mrs Hudson sarebbe stata davvero felice quando finalmente l'avrebbero fatta entrare. Ma non era ancora il momento.

“Credo che dovremmo parlare di quello che è successo lì dentro.”- disse Sherlock all'improvviso. La testa ancora bassa, ma gli occhi rivolti all'uomo che sedeva di fronte a lui.

John non si aspettava assolutamente quelle parole. E fu preso completamente alla sprovvista. Riaprì gli occhi osservando per qualche istante il soffitto in silenzio. Furono solo pochi secondi.

“Non è successo niente lì dentro”- si alzò, nervoso, facendo qualche passo per allontanarsi. Poi si voltò di scatto. “Non è successo niente. Niente.”- disse, scandendo le parole ad una ad una. Forse se lo dici un'altra volta riesci a crederci. Dai dillo ancora.

“John.”

“Sherlock. Non voglio ascoltarti.”- mandò giù due o tre respiri fissandolo e puntando un dito come per zittirlo. Poi si voltò e aperta la porta salì in camera sua. Non scese per ore.

 

 

***

 

 

Il pozzo in cui si trovavano era buio e decisamente stretto, largo abbastanza da contenere due persone ma non cosi tanto da poter permettere di muoversi agevolmente. L'acqua arrivava alla vita di Sherlock e al petto di John. Era fredda e torbida, tanto che non si poteva scorgere il fondo. John soffriva terribilmente, aveva un braccio rotto e un paio di ferite alla testa che ormai non sanguinavano più. Sherlock era messo un po' meglio, aveva solo qualche taglio sul viso ma era tutto intero. Almeno all'apparenza. Erano entrambi appoggiati al muro di pietra, Sherlock sorreggeva John cingendolo con un braccio e guardando in alto per cercare di capire dove fossero e che ore erano. John, sorretto dal compagno, stringeva il braccio destro con il sinistro per tentare di mantenerlo fermo, ma la cosa era piuttosto difficile. Faceva un male terribile.

“Come stai”- chiese Sherlock, di nuovo. La voce profonda denotava una certa preoccupazione.

“Smettila di chiedermelo ogni cinque secondi”- John era piuttosto nervoso. “Non meglio di un minuto fa. E non peggio. Beh, forse un po' peggio si.” - disse senza riflettere troppo su cosa avrebbe potuto provocare in Sherlock con quelle parole. “Non hai ancora capito dove siamo? Sto aspettando che fai la tua cosa delle deduzioni, per sentirmi meglio.” - aggiunse, seguito da un piccolo rantolo soffocato.

“Non posso sapere tutto, John. Siamo in un pozzo.”- rispose, piuttosto serio abbassando lo sguardo verso di lui.

“Mi aspettavo qualcosa di meglio da Sherlock Holmes.” - John abbozzò un sorriso tirato. “Puoi almeno dedurre se moriremo prima di fame o di freddo?”

“E' molto divertente. Ma noi non moriremo qui dentro. Non lo permetterò”.

John non rispose nulla.

“John? John!”- Sherlock lo scosse leggermente per la spalla.

“Questo posto è troppo piccolo per contenere le cose che dici.” - rispose John con quello che doveva essere una specie di sorriso ma Sherlock non ne era sicuro. Era davvero buio lì dentro.

“Siamo in un pozzo. Più o meno a 60 km a sud di Londra. O almeno è quello che ho calcolato fino a quando non sono stato gentilmente costretto a dormire. E dovrebbe essere notte fuori.”

“E' dannatamente buio qui dentro. Ci sarei arrivato anche io.”

“C'è una copertura sul pozzo. Non è perché vedo il cielo che so che deve essere notte”.

“E allora per...No lascia stare, non voglio saperlo.”- l'ultima parola di John uscì come un lamento dalla sua bocca.

“John, non possiamo fare niente per il tuo braccio? C'è qualcosa che posso fare?”- Sherlock non sopportava l'idea che il suo compagno stesse soffrendo a quel modo, nonostante il dolore di John fosse estremamente composto.

“Beh vediamo, abbiamo pietre e acqua sporca. Direi di no. Non puoi fare niente. Però puoi provare a tirarci fuori di qui. Sto morendo di freddo.”

“E' solo questione di ore. Lestrade era sulle nostre tracce, gentilmente indirizzato da me, ovviamente. E Mycroft a quest'ora saprà anche il più insignificante dettaglio della vita di colui o coloro che ci hanno portato qui. In effetti non mi stupirei se fosse già stato consegnato alla giustizia e processato.”- si fermò per fare qualche considerazione mentale. “Ora non gli resta che trovarci.”

John alzò lo sguardo per osservare in viso il suo compagno, a solo una decina di centimetri dal suo. Nonostante fosse buio poteva scorgerne i lineamenti. Si guardarono. “E non potevi dirmelo prima? Quant'è che siamo qui dentro? Un paio d'ore? Un paio di ore Cristo santo. Pensavo saremmo morti di stenti, o congelati. O di dolore! Sai, mi sono diagnosticato un braccio rotto da caduta in un dannato pozzo!” - il tono della voce era piuttosto alterato. “Ma tu no, no. Non potevi dirmi che erano già sulle nostre tracce. Eh no. Dovevi giocare a vediamo se fuori è GIORNO O NOTTE!”- le ultime parole furono praticamente urlate. Sherlock era impassibile.

“John, ho detto che sono sulle nostre tracce e che probabilmente il nostro salvataggio dovrebbe essere questione di ore. Ma il fatto che trovino un pozzo in mezzo ad una campagna a forse 60 km a sud di Londra, e che sia quello giusto dove siamo al momento noi due non è un dato certo. Soprattutto considerando il fatto che è la polizia che ci sta cercando. Possiamo solo sperare che Mycroft faccia confessare al nostro rapitore il luogo esatto in cui siamo rinchiusi. E conoscendo i suoi metodi siamo già praticamente fuori.” - rispose tanto velocemente che John perse una o due parole. “ E comunque sono 3 ore e 47 minuti. Più o meno.”

L'ultima aggiunta fece innervosire John ancora di più. Tuttavia decise di rimanere in silenzio. Il dolore al braccio iniziava ad essere più forte di tutto e contrariamente a quanto si possa pensare, il freddo non aiutava affatto. Seguirono svariati minuti di silenzio in cui nessuno dei due disse una parola. John tremava, aveva addosso solo una camicia ed un maglione totalmente zuppi. Subito dopo la caduta nel pozzo e la rottura del braccio, Sherlock gli aveva poggiato sulle spalle il suo cappotto, ma era talmente pesante così pieno d'acqua che non faceva altro che trascinarlo ancora più a fondo quindi era stato costretto a toglierlo. Sherlock era immerso fino alla vita, ma aveva addosso solo una camicia ed i suoi capelli, completamente zuppi, ricadevano in riccioli disordinati sulla fronte. Nonostante anche la sua situazione fosse abbastanza seria, continuava a sorreggere l'amico che ormai sembrava non avere più molta forza per restare in piedi. Il silenzio fu rotto da John che all'improvviso accennò una risata sommessa.

“Che c'è da ridere”- chiese Sherlock mentre con la mano libera cercava un appoggio più stabile.

“Pensa se fosse stato dicembre, o gennaio. Saremmo già morti.”

“E' il quattro ottobre.”

“Oggi sei proprio in forma con le deduzioni.” - rispose sarcastico John con un filo di voce.

 

Ormai era passato abbastanza tempo da destare preoccupazione anche in Sherlock. Non diceva più niente, si limitava a sostenere John e a guardare in alto. Aveva freddo e tremava anche lui.

“ Dovresti riuscire ad ammetterlo” - disse John.

“Che cosa.”

“Che ormai è passato tanto di quel tempo che potremmo non uscire affatto da qui, Sherlock. Sono esausto.”- John teneva il capo basso, tremava e la voce sembrava uscire a fatica. Se Sherlock non l'avesse sostenuto probabilmente si sarebbe lasciato cadere sul fondo del pozzo.

Sherlock non rispose. Era dannatamente preoccupato per come le cose si stavano mettendo. Secondo i suoi calcoli avrebbero dovuto essere fuori di lì già da un pezzo, ma era evidente che da qualche parte nel suo ragionamento c'era stato un errore. C'era sempre qualcosa. Solo che questa volta quel qualcosa avrebbe potuto fare la differenza tra la vita e la morte, sua e di John che al momento era quello messo peggio, con il braccio rotto e un principio di ipotermia. Non poteva fare niente se non continuare a sostenere l'amico che ormai dava segni di poter cedere da un momento all'altro. Staccò quindi il braccio sinistro dalla parete fredda del pozzo e prese John per poterlo stringere più saldamente. Così facendo lo abbracciò in modo che il braccio rotto tenuto all'altezza del petto stesse tra loro due. John lo lasciò fare e una volta trovatosi faccia a faccia con lui abbandonò la fronte sulla sua spalla con un movimento lento e rassegnato. Era stremato. La mano sinistra di Sherlock salì e con cautela si posò sul collo gelido di John. La destra lo cingeva per la vita. Restarono così, immobili per un po'.

E intorno, era il silenzio più assoluto.

 

***

“John.”.

Nessuna risposta.

“John, rispondimi.” - il tono di Sherlock era sommesso e affranto. Stava tremando, non solo per il freddo. “John. Per favore.” - gli accarezzò la nuca nel tentativo di risvegliarlo dal torpore in cui era caduto. I capelli di John erano ancora bagnati, aveva la testa fredda ed era pallido. Fu in quel preciso momento che iniziò davvero a temere il peggio per entrambi. “John. Dobbiamo parlare. E' necessario che tu mi ascolti e mi risponda”. Aveva sollevato lo sguardo in alto, verso l'unica via di salvezza mentre continuava ad accarezzare la nuca di John nel tentativo di provocare in lui una reazione. “Ci sono delle cose che devo dirti ed è indispensabile che tu sia sveglio e che capisca. Riesci a concentrarti per me? Eh, John?”- continuava a guardare in alto, aveva gli occhi lucidi e disperati. Doveva riuscire in tutti i modi a tenerlo lì con lui, vigile e presente.

Ma John non disse niente. Sherlock poteva sentire il suo respiro sulla spalla e il suo corpo che ancora tremava. Probabilmente non era del tutto sveglio ma era ancora lì, nel pozzo con lui. E questo bastava a confortarlo.

“Volevo solo dirti grazie. Per tutte le volte che mi hai salvato, in tanti modi che nemmeno immagini.” - fece una pausa perso in un ricordo e all'improvviso era un giorno freddo di sole, e loro erano seduti su una panchina ad osservare un tizio per quel caso strambo, uno dei tanti. Sherlock riusciva quasi a sentire sul viso il sole e chiuse gli occhi. “Forse questa volta non sarà come tutte le altre. Forse non usciremo da qui. Hai ragione, dovrei riuscire ad ammettere che ormai è passato troppo tempo, John.” - fece un altra pausa, abbassò gli occhi sulla nuca dell'amico. “E' passato davvero troppo tempo.” - respirava a fatica e non era a causa del freddo questa volta. “Mi dispiace. Mi dispiace che tutto debba finire qui dentro. Io non...” - si interruppe. Sembrava non riuscire a trovare le parole. Il grande Sherlock Holmes che aveva sempre voluto avere l'ultima parola su tutto ora non sapeva che dire. O forse non sapeva come dirlo.

John alzò la testa e guardò Sherlock, dritto negli occhi. “Per un attimo ho avuto paura che stessi per riciclare il discorso del mio matrimonio.” - disse, ma non c'era sorriso sul suo volto. Anche quelli si erano congelati. A quelle parole Sherlock si sentì sollevato. John era ancora John, il suo John. Nonostante il fatto che molto probabilmente sarebbero morti se nessuno li avesse salvati entro poche ore. Sherlock invece non si sentiva più se stesso. Era come se osservasse il pozzo da fuori, come se fosse una presenza estranea, come se vedesse le cose accadere senza poter fare nulla. Senza poter decidere. Ed era questo che più di ogni altra cosa lo stava uccidendo.

“John..”. Lo guardava negli occhi e sembrava stesse sul punto di piangere.

“Sher..?” - John, ritrovando una forza che sembrava averlo abbandonato, indietreggiò nell'acqua di una decina di centimetri staccandosi dall'amico che appoggiato al muro del pozzo sembrava completamente inerme. Che cazzo stai facendo. “Sherlock sono esausto, non riesco a reggermi in piedi, ho le gambe congelate e posso dedurre al posto tuo che moriremo di freddo prima che di fame. Per l'amor di Dio..”- non riuscì a finire la frase. Dovette piegarsi su se stesso a causa di una fitta lancinante al braccio e così facendo sprofondò ancora di più nell'acqua che sembrava diventare sempre più alta. In realtà erano loro ad essere sempre più stanchi. Sherlock lo afferrò al volo e delicatamente lo appoggiò al muro, al posto suo.

“John, stai bene?” - gli chiese con voce rotta.

John era ancora piegato su stesso, mormorava qualcosa di incomprensibile. “Non...non puoi..”.

Sherlock si piegò un po' e con una mano poggiata sulla fronte dell'amico gli fece delicatamente alzare la testa. Erano così vicini. Così vicini.

 

***

Si guardarono negli occhi a lungo. Fu un tempo interminabile. Avevano il respiro affannato e brividi di freddo ma c'era anche qualcos'altro. John inspirava forte dal naso, la bocca chiusa, lo sguardo serio fisso negli occhi di Sherlock. Sembrava furioso. “Non...” - scosse leggermente la testa. “Ti prego, non...”. Non sono pronto per questo, non sono pronto. Allontanati.

Sherlock non si mosse. Rimase lì a cinque centimetri dall'amico. Non disse niente. Non fece niente.

“Ti prego...”- fu di nuovo John a rompere il silenzio. Si passò la lingua sulle labbra per un istante prima di serrarle ancora.

Ma Sherlock di nuovo, non disse niente, non si mosse di un millimetro. Non tolse gli occhi da quelli di John nemmeno per un secondo. Fu quest'ultimo a distogliere lo sguardo cercando di abbassare la testa. Era terrorizzato. Con gli occhi sgranati, increduli, osservava la superficie torbida dell'acqua che rifletteva appena i loro corpi. Una parte di lui, quella più superficiale, quella che indossava ogni mattina come fosse uno dei suoi maglioni, si chiedeva cosa stesse succedendo. Ma l'altra parte, quella più nascosta e ignorata per troppo tempo, “troppo tempo”, quella che tentava di tenere chiusa nei cassetti, aveva già capito tutto. Sapeva benissimo. E sapeva che molto probabilmente di altro tempo non ce ne sarebbe stato se non quello, in fondo ad un pozzo, in un posto qualsiasi. Mai in tutta la vita, aveva provato una paura come quella che sentiva adesso. Mai. Lo sai che probabilmente stai per morire, John Watson? Lo sai? E non è questo che ti fa paura. Sei patetico.

Sherlock decise di ignorare l'atteggiamento di John e con una mano lo costrinse a rialzare lo sguardo. Con l'altra si appoggiò al muro dietro di lui. Furono di nuovo l'uno negli occhi dell'altro, ma anche questa volta rimase immobile e restarono a guardarsi ancora a lungo in silenzio, al buio sul fondo di quel pozzo.

Adesso o mai più John. Tanto morirai. Abbassamento della temperatura corporea sotto la media fisiologica. Si bravo, l'ipotermia. Probabilmente è quella che ti ucciderà. Che vi ucciderà entrambi. No, non Sherlock. Si invece, anche lui. Lo vedi? Sta tremando, come te. I suoi occhi sembrano scuri qui dentro. Perchè mi fissa così? Perchè mi fissa sempre così? Vorrei che fossero miei, quegli occhi. Sei impazzito? E' il momento di scegliere, John Watson. E' il momento. Scegli di vivere, per una volta nella tua vita.

Poi qualcuno si mosse.

E fu John.

 

Il movimento fu quasi impercettibile. Un millimetro, forse due in direzione di Sherlock, che ancora se ne stava immobile a fissarlo. L'espressione di John era mutata. Era un misto tra paura, dolore e tristezza. Il respiro si fece ancora più affannato e poi un altro millimetro. Ed un altro ancora. E all'improvviso non c'era più niente. Non c'era il pozzo, non c'era quell'acqua sporca, il freddo, il braccio rotto. Non c'era la notte o il giorno sopra di loro. Non c'era una casa a cui tornare, qualcuno che li stesse cercando, non c'era il lavoro, non c'era un fratello, un amico, una vita fuori di lì. Non c'era più niente. Niente che valesse qualcosa oltre quel momento, quell'unico immobile istante in cui erano entrambi persi. Completamente persi.

 

Qualcuno chiamava dall'alto. Voci confuse e lampi di luce spezzati dalle pareti di pietra. Lestrade e Mycroft. Forse altri.

D'un tratto c'era tutto il mondo lì dentro.

 

Per un attimo, un intenso interminabile attimo, era stato quasi come sparire e all'improvviso tornare.

John alzò la testa verso l'alto riparando gli occhi dalle luci con una mano. Gli bastò uno sguardo per capire che fuori era notte, ovviamente.

 

Quello che successe nei minuti immediatamente successivi sembrò ad entrambi accadere al rallentatore e contemporaneamente a velocità raddoppiata.

Forse puoi tornare a non vivere, dopotutto. Non è troppo tardi a quanto pare. Ignorali, se tu li ignori, io li ignorerò. Che cosa stai dicendo? Dovresti essere contento. E' tutto finito. Non morirai. Ma che differenza fa? Se tu li ignori, io li ignorerò.

Ma Sherlock si allontanò da John appoggiandosi con la schiena alla parete di fronte. Eppure non smise mai di fissarlo. John abbassò la testa confuso, alienato e grato per la salvezza imminente. Non ci fu tempo per pensare ad altro. Un uomo del soccorso speleologico fu calato nel pozzo e trasse in salvo prima John poi Sherlock. Fuori era il delirio. Un elicottero, un paio di ambulanze, svariate macchine della polizia, un numero spropositato di agenti, qualche cane e Mycroft, sotto la pioggia con il suo ombrello aperto.

Se ne stava in piedi con fare distaccato e le scarpe nel fango a una decina di metri dal pozzo. Gli occhi erano fissi su Sherlock che in quel momento contestava in modo poco gentile l'operato degli infermieri mentre lo caricavano su un'ambulanza. Fu per lui un enorme sollievo vedere che stava bene, anche se i suoi occhi non tradivano alcuna emozione. Annuì in direzione di Lestrade che guidava le operazioni, poi si voltò, chiuse l'ombrello e salì sul retro della sua macchina per tornare a quello che stava facendo prima di dover smuovere mezza Inghilterra per cercare suo fratello minore.

 

***

Salito nella sua stanza chiuse la porta e vi si appoggiò con le spalle. Lo sguardo fisso a terra ma gli occhi che si muovevano veloci. Respirava rumorosamente dalla bocca. Restò qualche secondo in piedi, fino a quando non riuscì a calmarsi, poi si sedette sul bordo del letto. Il braccio sembrava non fare più tanto male ma adesso aveva una nausea terribile. C'era qualcosa che spingeva dalla bocca dello stomaco e tentava di risalire ed il suo battito cardiaco stava aumentando leggermente. Sapeva benissimo che stava per vomitare, ma non aveva nessuna intenzione di scendere di nuovo al piano di sotto, non così subito almeno. Cercò di reprimere quella sensazione sdraiandosi sul lato sinistro e chiudendo gli occhi. Andò un po' meglio. Dopotutto non mangiava da ore, non c'era niente da vomitare se non lo stomaco. O magari il cuore. Ecco, quello lo avrebbe vomitato volentieri e l'avrebbe guardato andare giù con una certa soddisfazione. Voglio vomitare il mio cuore. Questo pensava quando si addormentò profondamente.

 

Quando si svegliò aveva un forte mal di testa e dolori un po' dappertutto. Il braccio faceva di nuovo male e la nausea era ancora lì, meno forte, ma presente. Come fosse un monito. Ricordati di me John. Sono nel tuo stomaco.

Si mise a sedere chiedendosi quanto avesse dormito ma non aveva il telefono con se per controllare che ore fossero e l'orologio che aveva in camera aveva smesso di funzionare da parecchio ormai, da quando Sherlock l'aveva usato per uno dei suoi esperimenti nei momenti di noia. “Si è rotta” aveva semplicemente risposto quando gli aveva chiesto perché la lancetta delle ore era ferma sul tre e quella dei minuti non c'era più. Era sempre così con lui, inutile chiedere spiegazioni per certe cose. Era già tanto che non gli avesse sparato, anzi, si era preso anche la briga di riappenderlo al muro. Comunque poteva vedere attraverso le tende che fuori sembrava stesse albeggiando. Cercò di fare vari calcoli su quanto tempo fosse trascorso tra il loro salvataggio, l'ospedale, il ritorno a casa e il suo sonno, ma non riusciva a capire come era possibile che non fosse ancora giorno. Doveva aver dormito davvero poco, forse mezz'ora. Si sentiva peggio di prima nonostante l'antidolorifico, come quando ci si sveglia dopo aver dormito troppo e la sensazione è ben lontana da quella del riposo. Mentre cercava di riprendere il contatto con la realtà e quasi poteva contare ogni singola parte del corpo che gli faceva male, gli tornavano alla mente come brevi flash pezzi di sogni e di incubi che aveva fatto durante quello che riteneva essere un sonno breve. Erano immagini coloratissime ma sfocate, come nascoste dietro un velo d'acqua, oppure infinitamente buie e terrificanti. Protagonista assoluto era il pozzo, profondissimo e stretto, sempre più stretto e sempre più buio. A volte c'era Sherlock con lui, anche se non parlava mai, a volte era da solo e la sensazione era troppo opprimente anche solo da ricordare. Fece un lungo sospiro. Doveva scendere e mangiare qualcosa, stava letteralmente morendo di fame. E aveva bisogno di una doccia. Si guardò il braccio ingessato rendendosi conto che non sarebbe stato affatto facile e che sarebbe stato costretto a dover chiedere aiuto. Sospirò di nuovo, consapevole. Perfetto. Non vedo l'ora.

Poi all'improvviso fu un'altra l'immagine che gli tornò alla mente. Risalì dallo stomaco, con calma. Sono sempre qui, John. Non era un sogno questa volta, non era un incubo, o forse era entrambe le cose. Era qualcosa che in realtà non era nemmeno successo lì in fondo a quel pozzo, ma stava per succedere. C'era mancato così poco...la distanza di un respiro. Chiuse gli occhi e si prese la testa con l'unica mano disponibile. Avrebbe voluto urlare, invece rimase in silenzio a cercare di ingoiare quella sensazione, come se in questo modo potesse farla sparire.

Non funzionò affatto.

Impiegò qualche minuto a rialzarsi e a trovare il coraggio di scendere di sotto, poi fece un profondo sospiro, aprì la porta e lentamente scese le scale.

 

***

 

Sherlock era in piedi, guardava fuori dalla finestra con il violino in mano come se stesse per suonarlo da un momento all'altro, ma era immobile. Aveva fatto una doccia, si era cambiato, indossava una delle sue vestaglie, quella viola, pantaloni e scarpe puliti. Quando sentì John entrare si voltò.

“Era ora. Pensavo volessi dormire fino a Natale. Come ti senti?”- gli chiese serio, posando il violino sulla poltrona. John lo guardò un po' confuso e si accorse che dietro di lui non era affatto giorno, ma piuttosto quasi notte. Non stava albeggiando.

“Quanto ho dormito?”

“Quattordici ore e ventidue minuti, eliminando quelli che ci hai messo per scendere dopo esserti alzato”.

John lo fissò per cercare di capire se stesse scherzando. Ma si trattava di Sherlock, era ovvio che dicesse sul serio. “Quattordici ore?”- ripeté incredulo. “Beh ora capisco..” mormorò.

“Sono salito a controllare che stessi bene, un paio di volte. Ti ho chiamato ma non mi hai risposto. Ho aperto la porta e stavi dormendo. Considerando che avresti dovuto prendere l'antidolorifico ogni otto ore, ne hai saltati due. Immagino ti faccia male il braccio. Adesso devi mangiare subito qualcosa così potrai ricominciare a prenderli”.

“Perché non mi hai svegliato?” - chiese John sedendosi sulla sua poltrona. Sherlock lo seguiva con lo sguardo e sembrò non saper rispondere.

“Dormivi.”- fu l'unica cosa che disse. Poteva esserci qualcosa di più sensato? Non per lui.

“Era piuttosto forte quello che mi hanno dato all'ospedale. E poi ero davvero stanco...” O forse non volevi svegliarti, diglielo John. Diglielo.

Poi ci fu silenzio. Per un po' nessuno disse nulla. Sherlock era rimasto in piedi, vicino alla finestra. Guardava John, il suo braccio rotto, i suoi vestiti ancora sporchi. John seduto sulla poltrona guardava Sherlock, i suoi occhi, quei capelli e la sua figura perfetta. Si sentiva il suo profumo fin da lì.

“John, ti preparo qualcosa da mangiare, devi toglierti quei vestiti e fare una doccia. Ti aiuto io se non ce la fai da solo, non preoccuparti.” - e finalmente si mosse per raggiungere la cucina e uscire da quella situazione. Staccarsi da quegli occhi.

In realtà Mrs Hudson aveva già preparato la cena, il pranzo e forse anche la colazione per il giorno dopo. Era tutto pronto. John invece rimase fermo a guardare lo spazio vuoto che Sherlock aveva lasciato davanti la finestra. Abbassò lo sguardo e di nuovo la sentì, quella strana nausea che stava lì nel suo stomaco e che tentava di risalire. “..Non ho fame..” disse in un sussurro che Sherlock probabilmente neppure sentì o ignorò del tutto. Chiuse gli occhi. Da quando si era svegliato in quel pozzo, stava combattendo con se stesso una guerra di cui non conosceva neppure il nome. Avrebbe voluto che Sherlock fosse rimasto lì davanti e che gli avesse detto “dobbiamo parlare”, di nuovo. O che passando per andare in cucina si fosse fermato. Perchè? Ah lo sai eccome. Ma allo stesso tempo avrebbe voluto alzarsi, camminare fino alle scale, scendere e uscire da quella casa per non tornare mai più. Potresti farlo. Alzati e vattene. Adesso ti alzi, cammini fino alla porta e poi te ne vai. Senza guardarti indietro. Lo puoi fare. Fallo adesso. Sarebbe piuttosto facile. Respirare, alzarsi, camminare. Andarsene. John Watson, sei capace di camminare, Cristo? E allora cammina. Non dire una parola. E' un piano perfetto. Ti alzi e te ne vai. Ti alzi. Adesso. Ti alzi, adesso.

Si alzò. Fece un paio di passi verso la porta. E da lì, accaddero una serie di cose che nel suo piano tutt'altro che perfetto, non erano state calcolate.

Primo errore. Guardò verso la cucina. Sherlock era in piedi con un becco bunsen in mano, e una tazza nell'altra. A sua volta, guardava John. Che diavolo sta facendo.

Secondo errore. Si fermò a guardarlo un secondo oltre il dovuto. Quel tanto per permettere ai loro occhi di incontrarsi. Non esiste un nome per quel colore. Che cazzo di sfumatura di verde o di azzurro è? Come si può avere negli occhi un colore che non si può chiamare per nome? Lo odio. Quel fottuto colore senza nome.

Terzo errore. Fece un piccolo passo, solo uno, piccolissimo, del tutto inconscio verso la cucina. Verso quel fottuto non colore. Non smettere di guardarmi perché se tu adesso smetti di farlo io, mi vedi? io, camminerò verso la porta e scenderò quelle scale e me ne andrò e tu non mi vedrai più e io non ti vedrò più. Sherlock non smise di guardare John. Aveva le mani a mezz'aria, non sapeva nemmeno lui cosa stesse facendo, ne cosa stesse pensando. Era tutto immobile e irreale. Fissava John che a sua volta lo fissava dal centro del soggiorno, in silenzio. “John?”

Quarto errore. Fattore esterno. Sentì il suo nome, e quella voce gli risuonò nello stomaco. Puoi ancora andartene, guardati, sei nello stesso punto. Puoi ancora farcela. Ma dillo ancora una volta. Il mio nome. Se lo dici un'altra volta io vengo lì. Te lo giuro. Però puoi ancora andartene, lo sai. E stai parlando con te stesso. Lo so. Ma dillo solo un'altra volta.

Sherlock posò sia il becco bunsen che la tazza sul tavolo e lo aggirò per uscire da quella situazione di impasse e raggiungere John. Iniziava ad essere preoccupato per questo comportamento.

Quinto errore. “Non ti devi muovere, Sherlock. Devi restare lì. Puoi farlo per me? Mh?” Bene. Ci mettiamo anche a parlare adesso. Diventa sempre più difficile John Watson. Sempre più difficile.

Sherlock si fermò sulla porta della cucina. Aveva lo sguardo confuso di chi cerca di capire qualcosa che gli sta accadendo proprio davanti agli occhi ma che tuttavia non riesce a comprendere. “John, ti senti bene? Non capisco”.

“No, non mi sento bene, come posso sentirmi bene se non smetti un secondo di parlare? Mai! Tu non smetti mai di parlare. Devi sempre dire qualcosa. E chiamarmi per nome. E guardarmi in quel modo”. Oh, adesso sei fottuto John Watson. Gesticolava con l'unica mano libera in direzione di Sherlock, il respiro affannato, la voce fredda e tagliente. “Ti ho chiesto di stare fermo e zitto. Riesci a fare per una volta una cosa che ti viene chiesta? Una?” Sei proprio fottuto, John.

“Non mi hai chiesto di stare zitto, John. Mi hai chiesto di stare fermo. E io sono fermo. E comunque sarebbero due cose, non una.”- Sherlock si stava innervosendo, ma parlò con la più assoluta calma. Incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo stipite della porta. Fissava John al solito modo e sicuramente lo stava facendo apposta. Il suo cervello era già andato avanti. Aveva già dedotto come sarebbe andata a finire. Voleva solo dargli una mano. O forse no.

Sesto errore. Reazione. Fece un passo, uno lungo stavolta, verso la porta della cucina. Fu quasi una falcata, istintiva e nervosa. Quindi niente più scale John? Niente cammino, scendo e vado via? Non si torna indietro. Non si torna, indietro. Lo so, ma quella faccia di cazzo. Adesso lo prendo a pugni così la smette di parlare, di rispondermi in quel modo. E di fissarmi. Con quei cazzo di occhi. Si fermò ad un metro da Sherlock che lo guardava nella più totale calma. Avrebbe voluto davvero prenderlo a pugni, per sfogare una rabbia che dallo stomaco saliva fino al cervello. E di nuovo aveva voglia di vomitare. Si limitò ad ansimare, fermo davanti a lui.

“Vogliamo riprendere un certo discorso, John?”- Sherlock lo provocò deliberatamente. E rimase immobile, come nel pozzo. Non fece niente. Non si mosse di un millimetro.

Settimo errore.

John scattò in avanti quasi accecato dalla rabbia e con il braccio sinistro spintonò Sherlock che allargò le braccia per difendersi, respingendolo.

“Ti rendi conto che hai un braccio rotto e sei messo male, vero? Non so come ti reggi in piedi. Da quand'è che non mangi? Un giorno intero? Potrei farti molto male, John. Smettila.” - Sherlock manteneva tutta la calma che ora mancava a John.

Lo sai che sei arrabbiato con te stesso e non con lui solo perchè non riesci a dire quello che vorresti? Lo sai? Puoi ancora andartene, però. Prendi quelle scale. John chiuse gli occhi indietreggiando di qualche passo. Respirò a fondo per cercare di ritrovare il controllo e abbassò la testa. Oh si, voleva vomitare ancora, ma anche piangere, adesso. Perfetto. Sherlock lo guardò e il suo cuore perse un battito. Ebbe paura che anche John l'avesse sentito, o Mrs Hudson o gli inquilini del palazzo di fronte. Avrebbe voluto coprire quella distanza e abbracciare John, chiedergli scusa per essere stato un coglione, per non saper capire quando restare in silenzio e quando parlare, per tante cose, ma non lo fece. Lui sapeva già quello che John stava disperatamente cercando di capire o di accettare e spettava solo a lui riuscirci. Quindi restò immobile.

Le scale. Ma quegli occhi. Le scale. Quegli occhi. Puoi vivere senza quegli occhi, John? Se scendi le scale, almeno potrai vivere, in qualche modo. Ma lo senti il suo profumo? Dio, stai pure piangendo. Saresti dovuto uscire mezz'ora fa, ma no, dovevi guardarlo. Adesso sei fottuto John Watson. Completamente.

Ottavo errore.

“Vieni qui”- mormorò John, la testa ancora bassa, la mano sinistra a coprire gli occhi. Che stai facendo.

Era la resa più totale.

Sherlock non se lo fece ripetere due volte. In un attimo fu da lui, lo abbracciò così come aveva appena immaginato e lo strinse forte. Posò il mento sulla sua testa, una mano sul collo e l'altra alla vita “Oh John. Va tutto bene.”

“No, non va bene. Non va bene”- tolse la mano dagli occhi, appoggiò la testa al petto di Sherlock e l'abbracciò forte con il braccio sinistro stringendo la vestaglia nella mano.

“John..”

“Stai zitto un attimo”.

Questa volta Sherlock rimase in silenzio, concedendo a John il tempo che gli serviva per abituarsi.

“Ho pensato di andarmene, di scendere le scale, uscire da qui e non tornare mai più.” Digli tutto, diglielo.

“E cosa ti ha fermato, John?”

Respirava a fatica. “Il modo in cui metti il mio nome quasi alla fine di ogni frase. E lo fai anche se non stai parlando con me, non so se te ne rendi conto. Questo mi ha fermato. E il modo in cui lo dici. Anche questo mi ha fermato. E il colore dei tuoi occhi per il quale non riesco a trovare un nome degno. E il tuo profumo, che non avevo mai sentito da così vicino. E i tuoi capelli, che non hanno nessun senso. E le tue mani, quando suonano il violino, quando mangi, quando stai pensando a qualcosa e ti allontani da qui, da me. Tutto questo mi ha fermato. Eppure ti giuro, te lo giuro che ci ho provato ad andarmene. Ci ho provato.”

“E pensi che io te l'avrei permesso, John?”

Si guardarono. John aveva gli occhi rossi, ma finalmente il peso che sentiva alla bocca dello stomaco non c'era più. Afferrò Sherlock per i capelli non troppo delicatamente, costringendolo ad abbassare un po' la testa e lo baciò. Fu dolce all'inizio e liberatorio. I loro respiri si fusero in uno solo, ansimavano l'uno nella bocca dell'altro e poi fu travolgente e irrispettoso, quasi violento. Finirono contro la porta della cucina e quando si fermarono respiravano entrambi a fatica. Sherlock aveva perso qualche bottone della camicia, John quasi non si reggeva più in piedi.

“Devi lavarti e mangiare. Sai ancora di quel pozzo. E non voglio.”- disse Sherlock prendendo John per mano e avviandosi verso il bagno. “Ti lavo io. E poi mangerai.”

“Tu invece sai esattamente di quello che ho sempre voluto, Sherlock.”

A queste parole Sherlock si fermò, si voltò e afferrato John per il viso, lo baciò di nuovo. “Andiamo a fare la doccia, poi parleremo, forse.”- gli disse praticamente in bocca, trascinandolo via. John era estasiato, confuso, perso.

“...come fai a...”

“Beh”- sorrise appena, strafottente. - “non sei mica il primo, John.”

 

Non sei mica il primo John”. La prendo a pugni quella faccia da schiaffi. Non sono il primo. Io lo uccido. Lui, quell'altro, chiunque sia, uccido prima quello e poi lui. Anzi prima lui e poi quello. O forse non ce n'è solo uno. Potrebbero essere due. Magari tre. Va bene, li uccido tutti. Tutti quanti. Adesso voglio vedere come fa a togliermi questo maglione senza rompermi anche l'altro braccio. Ma che sta facendo...oddio.

   
 
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