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Autore: White Sahara    26/04/2018    1 recensioni
Una delle cose che ripeteva più spesso alle poche persone con le quali aveva abbastanza confidenza per parlare di cose più personali dei risultati della squadra, era proprio “non c’è niente di più importante per me del basket. Niente. E mai ci sarà.” Ayako lo aveva preso in giro più volte dicendogli che certo, faceva bene a mettere ciò che probabilmente avrebbe costituito la sua carriera futura al primo posto nella sua vita, concentrandovi la maggior parte delle sue energie, ma… insomma, sicuro non poteva vivere SOLO di pallacanestro. Soprattutto visto il tipo di vita di un atleta che riesce a raggiungere alti livelli, arrivato all’età in cui sarebbe stato costretto a concludere la sua carriera si sarebbe pentito di non aver voluto dare spazio a nient’altro. Ma Takenori Akagi, al suo ormai terzo anno di superiori, sentiva di avere le idee non solo fin troppo chiare su quell’argomento, ma soprattutto assolutamente inamovibili.
Niente avrebbe mai potuto distrarlo dal basket.
Niente.
[Takenori Akagi x F-Personaggio Inventato / Hanamichi Sakuragi x M-Personaggio Inventato][Altri generi: Sentimentale; Slice of Life;]
Genere: Commedia, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Akagi Takenori, Altro personaggio, Ayako, Hanamichi Sakuragi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il basket era al primo posto.
Sempre.
Qualsiasi cosa potesse accadere, il basket non avrebbe perso posizioni nella sua scala delle priorità.
Subito dopo c’era la scuola, anche quella troppo importante per essere trascurata: brutti voti compromettono le attività del club sportivo anche se sei il capitano della squadra. Secondo posto, assolutamente.
Ultimo step del podio, il mantenimento di un ottimo stato di salute, per poter mantenere un buon equilibrio tra il punto uno e due. Sufficiente sonno, ottima alimentazione, allenamento costante ma controllato.
Successivamente arrivavano, in ordine sparso ma più o meno sullo stesso piano, tutto ciò che rimaneva fuori: rapporti sociali, interessi culturali vari ed eventuali, cura dell’aspetto, vacanze. Tutti elementi che si dovevano forzatamente piegare alle esigenze dei primi tre punti.
Una delle cose che ripeteva più spesso alle poche persone con le quali aveva abbastanza confidenza per parlare di cose più personali dei risultati della squadra, era proprio “non c’è niente di più importante per me del basket. Niente. E mai ci sarà.” Ayako lo aveva preso in giro più volte dicendogli che certo, faceva bene a mettere ciò che probabilmente avrebbe costituito la sua carriera futura al primo posto nella sua vita, concentrandovi la maggior parte delle sue energie, ma… insomma, sicuro non poteva vivere SOLO di pallacanestro. Soprattutto visto il tipo di vita di un atleta che riesce a raggiungere alti livelli, arrivato all’età in cui sarebbe stato costretto a concludere la sua carriera si sarebbe pentito di non aver voluto dare spazio a nient’altro.
Ma Takenori Akagi, al suo ormai terzo anno di superiori, sentiva di avere le idee non solo fin troppo chiare su quell’argomento, ma soprattutto assolutamente inamovibili.
Niente avrebbe mai potuto distrarlo dal basket.
Niente.
• • •

- Datevi una mossa con quei giri di campo, Sakuragi se non la pianti di fermarti ogni due minuti ti giuro ti spedisco a palleggiare per il resto della settimana in quell’angolo. -
- SÌ CAPITANO! -
Ormai l’intero corpo del club era coeso tanto da riuscire a rispondere alle direttive di Akagi come se fossero una sola voce: erano ormai tutti insieme da più di due mesi, le lunghe giornate di giugno iniziavano a permettere alla squadra di allenarsi anche oltre il solito orario di chiusura della palestra, e ognuno di quei preziosi minuti guadagnati serviva alla preparazione in vista delle qualificazioni per il campionato nazionale.
Al solito, mentre la squadra terminava di riscaldarsi prima di passare agli esercizi di coordinazione, l’allenatore Anzai rimaneva in pacato silenzio a bordo campo, affiancato dalla sempre attentissima Ayako. A pochi metri di distanza, all’entrata della palestra, Haruko e le sue amiche osservavano gli allenamenti chiacchierando sommessamente, e indicando di tanto in tanto i vari elementi della squadra.
Sembrava davvero un giorno come un altro.
Le cicale si erano affacciate da poco dal letargo invernale, a quell’ora il caldo lasciava qualche spiraglio a soffi di brezza più fresca, anticipazione della sera in arrivo.
Gli scricchiolii delle suole di gomma sul parquet lucido, il rumore secco della palla da basket che passa dalle mani di un giocatore a quelle di un altro, il respiro affannato dei giocatori.
Fu in quella giornata così monotona che però cambiò tutto.
Non per tutti, certo, ma per alcuni dei presenti sicuramente quello fu il momento della svolta in quel 1996.

In un brevissimo lasso di tempo di involontario silenzio, in una pausa tra un esercizio ed un altro, l’attenzione di tutti venne attirata dal suono di passi piuttosto sostenuti sulla ghiaia del piazzale di fronte alla palestra.
Pochi secondi dopo, e alle spalle delle giovani spettatrici si presentò una giovane donna con un evidente affanno dovuto alla corsa appena compiuta, la fronte imperlata di sudore e i capelli un po’ scompigliati.
- Oh, professoressa Umizaki, che succede?
Il tono di voce di Anzai esprimeva la sua usuale pacatezza, anche se il suo sguardo sembrava scrutare con più attenzione del solito quel volto dall’aria così turbata.
La donna ignorò completamente gli avvertimenti rispettosi ma insistenti delle studentesse e dei giocatori sulla regola di non entrare in palestra con scarpe che non fossero adatte, e si diresse dritta in direzione dell’allenatore.
Si abbassò raggiungendo l’orecchio dell’uomo seduto, sussurrando qualcosa che solo Ayako -che era troppo vicina per poter anche volontariamente ignorare quel discorso- oltre all’allenatore fu in grado di sentire.
La ragazza si mise una mano sulla bocca, mentre l’espressione dell’anziano mutò drasticamente passando dalla calma che lo contraddistingueva ad una disperata preoccupazione: ignorando la donna che stava ancora finendo di parlare, quasi sbalzandola via col proprio corpo, si alzò di scatto e si avviò a passo più sostenuto possibile all’uscita, uscendo dalla palestra in direzione dell’edificio principale.
La donna lo seguì trottando, cercando di raggiungerlo nel tentativo di finire ciò che stava dicendo.

Gli occhi di tutti si rivolsero ad Ayako, che con le mani unite come in preghiera davanti alle labbra, aveva seguito l’allenatore con lo sguardo fino a che non era scomparso dietro alle studentesse.
- A-Ayako, che succede?-
Il giovane Miyagi, vedendola sconvolta, si era repentinamente avvicinato alla ragazza pronto a rassicurarla come poteva.
- Io non… non sono sicura di cosa o… o chi stesse parlando la professoressa, ma ha detto qualcosa riguardo a un grave incidente. -
- Oh no! Che sia successo qualcosa alla moglie dell’allenatore? Dovremmo andare da lui!? Forse ha bisogno di noi!-
- Mitsui calmati, non c’è niente che potremmo fare anche raggiungendo l’allenatore. È ovvio che di qualsiasi cosa si tratti, la nostra presenza sarebbe solo un fastidio.-
La voce di Akagi era sempre calma ma severa, era ciò che serviva quando nella squadra arrivava un imprevisto ed era necessario far rimettere i piedi a terra a tutti.
- Rimanere qui in attesa è inutile, non è neanche detto che Anzai voglia farci sapere cosa è successo. Riprendiamo gli allenamenti, vedrete che andrà tutto bene. -
Akagi non era cattivo, o insensibile. Era estremamente compassionevole, e non avrebbe atteso mezzo secondo per correre in soccorso del suo allenatore se ci fosse stato effettivamente bisogno.
Ma era razionale a sufficienza per capire che in una situazione del genere non poteva fare altro che allontanare l’attenzione di tutti quei ragazzi dall’uomo.
Inoltre era inutile perdere quelle ore di allenamento, neanche Anzai avrebbe voluto.
- Ayako tu in caso tra un po’ avviati verso la segreteria per vedere se l’allenatore ha bisogno di qualcosa, e facci sapere. E voi, tutti in linea, facciamo le squadre, su!-

Il pomeriggio passò in fretta, e tutti tornarono mestamente a casa.
Anzai aveva lasciato la scuola pochi minuti dopo aver ricevuto la chiamata, quindi nessuno di loro aveva saputo niente. Scoprirono il giorno dopo che si era addirittura preso due settimane di permesso dalla scuola.
Soltanto molti giorni dopo avrebbero saputo ciò che era successo.

• • •

Era metà giugno ormai, ma quel giorno sembrava di essere tornati indietro nel tempo a febbraio, o marzo.
Faceva decisamente freddo per essere estate, e pioveva in modo aggressivo, incessante, asfissiante.
Quel giorno gli allenamenti erano saltati per via dei lavori al tetto della palestra, danneggiato da un’infiltrazione d’acqua che avrebbe impedito l’accesso alla struttura per tutto il weekend: fortunatamente era capitato di venerdì, quindi si era trattato solo di perdere un allenamento prima di tornare a pieno regime il lunedì.
Akagi era tornato presto da scuola, e sua madre aveva immediatamente approfittato della libertà del figlio (e della sua impossibilità nello sgattaiolare fuori di nuovo con la scusa di andarsi ad allenare al campetto, visto il tempo) chiedendogli di aiutarla con un paio di commissioni.
Aveva il suo solito abbigliamento di quando era “in borghese”: niente divisa scolastica o tenuta sportiva, solo un paio di jeans e una maglia nera, dall’ampio scollo a barca, come andavano quell’anno.
Non che fosse attento a queste cose, ma la sorellina pensava sempre anche a lui quando andava a fare shopping con le sue amiche, quindi volente o nolente si ritrovava ad avere uno stile piuttosto al passo con le mode.
In una mano teneva una busta di plastica contenente delle banane, un panetto di burro e una confezione di biscotti. Nell’altra, un grande ombrello rosso.
Non poteva rendersene conto, ma osservato anche da una certa distanza quell’ombrello spezzava talmente tanto la monotonia cromatica di quel pomeriggio piovoso, prevalentemente grigio-blu, da “stonare” quasi.
Camminava pensando alle solite cose: che dopo cena avrebbe fatto un po’ di pesi e poi una doccia, che il giorno dopo se il tempo fosse migliorato sarebbe potuto anche andare a correre un po’ di prima mattina, e poi lunedì doveva assolutamente ricordarsi di assegnare la pulizia delle palle da basket alle matricole della squadra.

- Sniff. -

Il flusso di ragionamenti si fermò, facendolo tornare sulla terraferma, facendogli prendere nuovamente coscienza della strada in cui stava camminando - secondaria, isolata, vicino alla zona residenziale dove abitava lui ma immersa tra gli ultimi campi delle campagne vicine- dopo aver passato gli ultimi venti minuti a muoversi con il pilota automatico mentre il cervello macinava pensieri.
Si rese conto di essere fermo davanti ad una fermata dell’autobus non più attiva, una vecchia linea che collegava i campi alla città, ma che adesso aveva cambiato rotta passando da una provinciale vicina.
Ad una prima occhiata alla fermata non aveva notato niente di strano, complice la forte pioggia che impediva di vedere bene anche a pochi metri dal proprio viso.
Poi, guardando meglio il punto in cui era convinto di aver sentito qualcuno tirare in su col naso, notò un paio di scarpe appoggiate alla base della panchina, al riparo dalla pioggia sotto la pensilina in vetro. Poi, uno zaino, a pochi centimetri, sempre in terra. Poi salendo con lo sguardo sopra alla panchina, vide qualcosa muoversi: un paio di piedi, delle braccia avvolte attorno a due ginocchia scoperte, e una testa appoggiata alle suddette.
- Ehi… va tutto bene? -
La ragazza alzò la testa, rivolgendo i suoi scuri occhi socchiusi verso di lui. Non disse niente, si limitò a guardarlo, forse stringendo appena di più gli occhi.
Akagi si avvicinò ancora, arrivando a mettere la testa sotto la pensilina. Adesso aveva una chiara visione della ragazza: era completamente zuppa da capo a piedi, i lunghi capelli che da asciutti probabilmente erano di un castano chiaro le aderivano scurissimi alle spalle e alle gambe, tenute strette al corpo.
Tremava sommessamente.
- Stai bene? Hai bisogno di aiuto? -
Rifece la sua domanda, perché non era sicuro di essere stato sentito la prima volta. Magari aveva parlato piano, magari il rumore della pioggia aveva coperto la sua voce.
La ragazza aprì la bocca, ma la richiuse subito, come se avesse cambiato idea su cosa stava per dire.
Il suo sguardo si spostò dal ragazzo al suo ombrello, e poi di nuovo su di lui.
Un lieve sorriso le illuminò il volto rigato dalla pioggia, addolcendo uno degli sguardi più tristi che il giovane avesse mai potuto osservare in qualcuno.
- Allora, nonostante tutto, questa era davvero la strada giusta. -


 
   
 
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