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Autore: Ghostclimber    14/05/2018    2 recensioni
Kogure è alle prese con un dilemma sentimentale: Mitsui è rientrato in squadra dopo quasi due anni, e lui non sa come comportarsi nei suoi confronti. Un sentimento dolceamaro riaffiora nel cuore di Kogure...
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kiminobu Kogure
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ehilà! Felice MitKo day a tutti! (non so se sta cosa esiste, ma è il 14/5, datemi corda, ok?)

Eccomi con una one-shot sulla mia seconda ship preferita di Slam Dunk!

La dedico di tutto cuore alla mia amica Alice, nerd compulsiva, trovatrice di cose introvabili, mio sostegno nei momenti bui, sapiente donna che mi ha detto “guarda che una volta che trovi una ship yaoi ne vedrai ovunque”, e una delle pochissime persone capaci di farmi ridere fin quando non ho la nausea e mi fanno male gli zigomi.

Ti voglio bene, Al! <3

(P.S.: Chaaawwwlsss!)

 

Disclaimer: non possiedo i personaggi di Slam Dunk, che appartengono al sommo Inoue-Sensei, a cui va la mia eterna gratitudine per avermi insegnato a non arrendermi.

 

Kogure era ancora nella palestra ormai vuota.

Seduto sulla panchina da solo, nella penombra, pensava a quel che era successo il giorno prima: Hisashi Mitsui era entrato in palestra con i suoi violenti tirapiedi e aveva cercato di mandare all'aria il club del basket. Solo grazie all'intervento dell' “armata” di Hanamichi la situazione non era degenerata... beh, non troppo, almeno. Nessuno aveva riportato danni permanenti.

Tranne lui, forse.

Ma era abituato a non mostrare i propri sentimenti: un secchione con gli occhiali impara presto a diventare invisibile.

Dal primo momento in cui aveva visto Mitsui, quasi due anni prima, aveva riconosciuto le grandi potenzialità di quel ragazzo. E non si riferiva solo al basket: Kogure si era convinto all'istante di avere di fronte a sé un futuro uomo di grande spirito. L'entusiasmo con cui si lanciava in ogni sfida, la forza che aveva il potere di trascinare i compagni di squadra anche quando erano esausti e scoraggiati.

Poi, l'infortunio e tutto quello che ne era conseguito: il ragazzo che era l'anima della squadra sembrava aver perso la propria e si era trasformato in un teppista senza alcuno scopo nella vita.

Vederlo riattraversare le porte della palestra aveva per un momento riacceso le speranze nel cuore di Kogure, per poi spezzarglielo quando aveva mostrato di non volere altro che la loro distruzione.

 

“Today was gonna be the day

that they're gonna throw it back to you.

By now you should've somehow

realized what you've got to do”

 

Gli Oasis, perfetti a basso volume nel segreto degli auricolari e della palestra vuota. Era stato lui, Kogure, a rinfacciare a Mitsui tutto quello che era successo: un atto del quale ancora non si capacitava appieno. Non era proprio il tipo di persona da alzare la voce, rimproverare con tanto astio, spiattellare i fatti altrui sulla pubblica piazza. E ancora oggi, dopo averci meditato per una lunga notte insonne, non riusciva a capire se fosse servito a qualcosa, o se Mitsui avesse poi chiesto di rientrare in squadra solo a causa dell'arrivo del Coach Anzai.

Probabilmente era così, pensò con il solito disfattismo, aveva solo fatto la figura della checca isterica, e proprio di fronte ai bulli che l'avevano tormentato per due anni.

Sospirò.

 

“I don't believe that anybody

feels the way I do about you now.”

 

Ebbene, cosa provava lui per Mitsui? C'erano stati giorni, luminosi giorni di primavera, due anni prima, in cui Kogure era stato sicuro di amarlo. E c'erano stati altri giorni, più scuri, in cui aveva cercato di convincere se stesso ad odiarlo per quello che era diventato, per ciò che aveva buttato via insieme al basket.

Non era riuscito.

 

“Backbeat, the word was on the street
That the fire in your heart is out
I'm sure you've heard it all before
But you never really had a doubt.”

 

Per due anni aveva tollerato di essere sottoposto a casuali atti di bullismo da parte degli amici di Mitsui, senza reagire in alcun modo, col cuore che gli batteva in gola, sicuro che sarebbe soffocato, odiando quella parte di lui che era grata a Mitsui per il fatto di essere l'unico di quel gruppo di criminali a non infastidirlo mai. “Non mi attacca mai di persona, forse questo significa che un po'di bene me lo vuole”, pensava, vergognandosi di quello stesso pensiero. Ovviamente, se Mitsui gli avesse voluto un po'di bene avrebbe fermato gli “amici”.

Durante innumerevoli notti insonni, aveva concluso che il fuoco che ardeva nel cuore di Mitsui era spento, ma Kogure insisteva nel cercare delle braci sopravvissute e si cullava in segretissime fantasticherie nelle quali lui stesso riusciva a scuoterlo in qualche maniera, uccidendo metaforicamente il mostro e riportando in vita il vecchio Mitsui, il caro, forte, vivace Mitchi.

Ovviamente, una circostanza del genere non si era mai verificata: ogni volta che si era trovato nella stessa stanza con Mitsui, Kogure era troppo impegnato a scappare con la coda tra le gambe per evitare i bulli, o troppo occupato a raccogliere i libri che gli erano stati fatti cadere dalle braccia, o ad asciugare il succo di frutta che era stato spremuto fuori dal contenitore da qualche mano rude, sempre con Mitsui in un angolo, appoggiato con nonchalance alla parete, un piede contro il muro e le braccia conserte. Era così che Kogure lo sognava, in incubi frustrati in cui gli urlava addosso e gli andava incontro per risvegliarlo a schiaffi, solo per vederlo trasformarsi in un mucchio di macerie al tocco della sua mano.


“I don't believe that anybody
Feels the way I do about you now.”

 

E adesso, cosa provava per Mitsui? Valeva ancora la pena di provare qualcosa per Mitsui? La parte razionale della mente di Kogure, una parte parecchio rilevante, lo incitava alla prudenza: e d'altronde ne aveva tutti i motivi. Ma una parte di lui, forse quell'istinto troppo spesso soffocato dalla ragione, forse la stessa che poco più di ventiquattr'ore prima lo aveva spinto ad alzarsi e parlare chiaro, non voleva fare altro che buttarsi tra le sue braccia e dargli il bentornato.

O almeno, così sperava lui. La ragione gli diceva che quello non era altro che il suo piccolo cuoricino spezzato che agiva nell'ubriachezza dell'amore non corrisposto.

 

“And all the roads we have to walk are winding
And all the lights that lead us there are blinding
There are many things that I
Would like to say to you but I don't know how...”

 

Strade ventose. Luci abbaglianti. Così si sentiva Kogure, come un cervo sorpreso dalle luci di un'auto in arrivo su una strada di campagna, bloccato dall'improvviso stravolgimento della situazione tanto da non sapere cosa fare, come farlo e quando.

Il Coach Anzai aveva ripreso Mitsui in squadra, e ora lui doveva convivere con la difficoltà di agire come se nulla fosse successo, e non sapeva proprio come comportarsi: doveva mostrare la felicità che una parte di lui sentiva, l'odio che cercava di provare, una studiata facciata di indifferenza?

Era sempre stato un ragazzino pacifico, soddisfatto di passare una giornata di pioggia con un libro o con un amico e una scacchiera, e nel dubbio aveva sempre preferito non agire; per questo, ora se ne stava da solo, nell'unico posto in cui si era sentito davvero accettato fino in fondo, nonostante fosse un quattrocchi secchione.

Quante altre cose avrebbe voluto dire a Mitsui, il giorno prima, ma non sapeva da dove cominciare.

 

“Because maybe, you're gonna be the one that saves me
And after all, you're my wonderwall”

 

Un improvviso desiderio di piangere colse Kogure alla sprovvista. Non aveva mai sentito parlare degli Oasis fin quando Mitsui non gli aveva fatto sentire un loro Greatest Hits, durante una delle visite di Kogure alla sua stanza d'ospedale. Ascoltando Wonderwall, seduti sul letto a tirarsi piano la palla da basket, Mitsui gli aveva detto, quasi per caso: -Questa canzone potrebbe essere per te. Sei l'unico che mi sia venuto a trovare. Forse sarai tu la mia ancora di salvezza. Mi ricordi per cosa devo combattere.

 

“Today was gonna be the day
But they'll never throw it back to you
By now you should've somehow
Realized what you're not to do
I don't believe that anybody
Feels the way I do, about you now”

 

Quella notte, alzandosi a bere un bicchiere d'acqua, Kogure si era chiesto cosa sarebbe successo quel giorno, se all'arrivo di Mitsui gli avrebbero voltato le spalle. Non temeva per Akagi, che era un gigante burbero ma dal cuore tenero, ma per quei due attaccabrighe di Sakuragi e Miyagi e per l'indecifrabile Rukawa.

Invece, i tre avevano apparentemente deciso di accettare Mitsui in squadra, dargli il beneficio del dubbio.

E lui? Beh, lui aveva sentito il cuore sciogliersi nel petto. Era orgoglioso, di Mitsui e degli altri. Dei suoi amici. E poi aveva fatto quello che sperava fosse una specie di sorriso e aveva bevuto un sorso d'acqua; per un sacco di volte aveva usato il vecchio trucco della borraccia, che ovviamente gli aveva provocato effetti collaterali come il costante bisogno di fare pipì. Per una volta era stato contento delle prese in giro di Miyagi, che aveva attaccato con una serie di domande ironiche sullo stato della sua prostata, perché gli consentivano di buttare fuori quella risata isterica che si sentiva costantemente in gola: almeno aveva un contesto valido per giustificare un'esplosione di sghignazzi imbarazzati.

 

“And all the roads that lead you there are winding
And all the lights that light the way are blinding
There are many things that I
Would like to say to you but I don't know how...”

 

Averlo accanto senza sapere davvero come leggergli dentro sarebbe stata una sfida. Le possibilità che l'ex teppista saltasse fuori a porgergli delle scuse erano piuttosto scarse: non l'avrebbe fatto neanche prima, era espansivo solo quando si trattava di basket. Solo una volta si era sbilanciato a dirgli (quasi) che gli voleva bene, dedicandogli (quasi) una canzone. Ebbene, Kogure era pronto: anche se avesse dovuto spenderci la vita intera, avrebbe provato a capire chi era Mitsui ora. Non il criminale, probabilmente. Ma nemmeno il vecchio Mitchi. Avrebbe scoperto giorno per giorno questo nuovo Hisashi, ma ancora non sapeva se il suo proposito l'avrebbe portato a ritrovare la felicità di averlo accanto o ad annegare in un salatissimo mare di lacrime.

 

Kogure era così perso nei propri pensieri che non si era accorto che qualcuno lo osservava, e lo ascoltava canticchiare senza accorgersene una vecchia canzone.

Una canzone che sembrava uscita da una capsula del tempo, insieme ad una palla da basket e ad un'infinita marea rosa di petali di ciliegio, che vorticavano nel tenero venticello di primavera, fuori dalla finestra di una stanza d'ospedale.

Qualcuno era in piedi in un angolo della palestra e osservava la luce dei lampioni riflettersi su un caschetto di capelli color cioccolato e sulle lenti di un paio di occhiali che il giorno prima erano stati sbattuti a terra da uno schiaffo.

“Se ti arrendi, hai perso la partita.” gli aveva detto il Coach Anzai, circa mille anni prima. Quello che non gli aveva detto era che le partite che davvero avevano importanza, quelle che non includevano palle e tiri da tre punti, erano le più difficili da giocare. Perché una voce codarda nella sua testa gli diceva: “Se non scendi in campo, non puoi vincere, ma non puoi nemmeno perdere.”

“Non arrenderti. Se ti arrendi, hai perso la partita.” e in fondo, rinunciare a scendere in campo non era un'implicita resa?

Ma come poteva osare? Per quasi due anni l'aveva ignorato, alla meglio, un paio di volte l'aveva anche bullizzato. O meglio, era rimasto a guardare mentre Tetsuo lo bullizzava, il che era anche peggio: la verità è che si sentiva così vuoto, senza il basket, che non gli pareva importante. Così, aveva osservato una serie di colpi di mano buttare a terra libri e quaderni, brick di succo di frutta spiaccicati, pasti inzuppati di acqua... ad un certo punto Tetsuo aveva smesso, perché Kogure non reagiva mai: non si arrabbiava, non scoppiava a piangere, non restituiva le offese, non si nascondeva se li vedeva arrivare. Si limitava a fissare Mitsui, con una lieve delusione che gli offuscava lo sguardo, e poi tirava dritto, raccoglieva i libri, asciugava il succo o salvava il possibile del pranzo.

Con la sensazione di avere le gambe fatte di plastilina, Hisashi Mitsui scese in campo per la partita più importante della sua vita, senza riscaldamento e matematicamente sicuro di non essere pronto.

 

-Kimi.- si costrinse a dire Mitsui. Kogure alzò la testa, sentendosi di nuovo come un cervo su una strada buia. Per un breve, atroce istante, pensò che non sarebbe riuscito a trattenere lo strillo che gli stava montando in gola: gli avrebbe mollato un pugno sul naso e sarebbe corso via, e avrebbe corso fin quando non sarebbe collassato.

-Hi... Hisashi.- balbettò, fingendo un tono di voce gentile, ponendo un punto interrogativo in fondo alla frase per incitare l'altro a parlare. Ma Mitsui sembrava proprio aver finito quel che aveva da dire. Due sillabe, il soprannome che lui stesso gli aveva dato, e quante volte l'aveva fatto sorridere chiamandolo così da un lato all'altro del campo da basket, quando tutti gli altri lo chiamavano “Ehi, tu” o alla meglio “Quattrocchi”. Anche lui era a corto di parole, e la situazione stava diventando un po'imbarazzante.

Ma non del tutto.

Perché lui e Mitsui si erano sempre trovati bene anche in silenzio, nello stupore generale. Mitsui era un giocatore di scacchi insospettabilmente abile, e avevano passato interi pomeriggi a sfidarsi, in completo silenzio, prima nel cortile della scuola e poi nella luce fredda della sua stanza di ospedale.

Tutti i ragionamenti, le meditazioni, le seghe mentali scomparvero, e Kogure sorrise. Era il suo solito sorriso, spontaneo e affettuoso.

 

Mitsui rimase fermo, come colpito da un fulmine: adesso, dopo due anni a subire le sue angherie e la sua indifferenza, non solo Kogure non lo aveva mandato a farsi fottere, ma gli aveva pure sorriso! Ma dove la trovava tutta quella forza e quella bontà d'animo?

Mitsui si sentiva ancora avvampare al ricordo degli sguardi di bruciante delusione che Kogure gli aveva lanciato in passato, e colse il proprio viso corrucciato nel riflesso delle lenti degli occhiali dell'amico.

Per una manciata di secondi ancora regnò il silenzio, scandito solo da qualche indecifrabile eco che rimbalzava sulle pareti della palestra. Lo sguardo di Kogure era tornato scuro; Mitsui sapeva che doveva porgergli delle scuse, ma come fai a chiedere perdono per aver cercato di vincere il premio Merdaccia dell'Anno a spese dell'unica persona che ti abbia mai dimostrato affetto?

Banalità. Punta sulla banalità, Hisashi, sei un banale imbecille qualunque, non vorrai smentirti?

Mitsui aprì la bocca per parlare; nello stesso istante, Kogure fece lo stesso: -Ascolta, volevo chiederti scusa...- dissero entrambi, quasi all'unisono, per poi zittirsi di colpo. Mitsui fu il primo a riprendersi dallo shock: -Eh? Scusa? Scusa di cosa?- chiese, meditando brevemente sul fatto che adesso capiva davvero cosa significava “cadere dal pero”.

-Beh, ecco...- cominciò Kogure, fissandosi le mani mentre se le torceva imbarazzato, -Ho spiattellato i cavoli tuoi davanti a tutti, l'altro giorno... non avrei dovuto, è stato scorretto da parte mia.- alzò gli occhi color cioccolato in quelli di Mitsui, con uno sguardo così sinceramente pentito che sarebbe quasi potuto essere comico.

Ma non lo era.

Oh, no che non lo era.

Mitsui provò a trattenersi, ci provò con tutte le sue forze, ma le lacrime sgorgarono traditrici dai suoi occhi, bagnarono le sue guance e la sua mano, che si era alzata a tappare la bocca per impedirgli di singhiozzare rumorosamente. Non riuscì a sopportare lo sguardo di Kogure e serrò gli occhi con forza; si lasciò cadere sulla panca e lì rimase, svuotato e col cuore spezzato.

-Ehi, Mitchi...- nell'udire Kogure chiamarlo col vecchio nomignolo che gli aveva affibbiato, Mitsui cominciò a colpirsi la testa con i pugni, senza neanche accorgersene; voleva farsi del male, punirsi per tutto il dolore che aveva procurato a quel ragazzo così buono, così dolce, così...

Due mani gli ghermirono i polsi, costringendolo a fermarsi.

-Smettila, Mitchi, che hai?- chiese piano Kogure. Mitsui alzò lo sguardo e colse nuovamente il proprio riflesso devastato nelle lenti degli occhiali dell'amico: rosso in viso, col naso che colava e gli occhi da consumatore di cannabis.

-Che ho?- chiese, la voce non più di un sussurro: -Che ho? Per due anni ho lasciato che Tetsuo ti rompesse le scatole, ti prendesse in giro, e ho quasi distrutto il club poco più di ventiquattr'ore fa e TU chiedi scusa a me?- Mitsui si liberò della stretta di Kogure e si allontanò di qualche passo, voltandogli le spalle mentre cercava di ricomporsi.

 

-Io...- biascicò Mitsui. Kogure avrebbe voluto andare in suo soccorso, dire qualcosa, ma il cuore gli batteva in petto così forte che temeva gli sarebbe schizzato fuori dalla bocca se solo avesse osato aprirla. Mitsui dovette trovare da solo la forza di continuare: -In realtà... grazie per quello che hai fatto ieri.- gli occhi di Kogure si sgranarono dietro le lenti.

-Come?- Mitsui si voltò lentamente verso di lui, con un'espressione solenne in viso.

-Mi hai... mi hai ricordato chi ero. Sentire la tua voce mi ha ricordato quanto mi sentivo vivo a giocare a basket... a giocare con te.- ma era davvero lui che stava parlando? Questo nuovo Hisashi spiazzava Kogure. Se gli avesse fatto la stessa domanda che gli aveva fatto un giorno in ospedale, “Come mai continui a venire a trovarmi?”, stavolta lui non se la sarebbe cavata con un'alzata di spalle e un po' di finta nonchalance. Quella volta aveva nicchiato spudoratamente, limitandosi a muovere il cavallo sulla scacchiera; ma stavolta non c'era un gioco da tavolo a dividerli, e loro non erano più due matricole impacciate. Kogure avrebbe dovuto confessare, e come avrebbe potuto reagire questo nuovo Hisashi? Con una sberla? Con il disprezzo? Con una risata di scherno? Con una risposta cordiale ma definitiva? Kogure fece un passo indietro, cercando di combattere l'istinto della fuga che si era appena manifestato in lui. Si sentiva come un'antilope sorpresa allo stagno da un grosso e veloce predatore. Mitsui sembrò percepire la sua paura e aprì le mani come a mostrare di non impugnare nessuna arma.

-Sto cercando di ritrovare quella persona.- disse, sputando le parole lentamente, una alla volta, quasi le stesse saggiando mentre le pronunciava. Prese un profondo respiro e proseguì: -Non so quanto di me è rimasto, ho cercato di bruciare tutto. Ma se c'è ancora qualcosa, allora devo chiederti di aiutarmi. Perché da solo non so se saprò ritrovare la strada.

-Le luci che illuminano il cammino sono troppo brillanti.- sussurrò Kogure, citando gli Oasis e sentendosi in qualche modo incoraggiato: nei momenti più bui, gli Oasis l'avevano sempre aiutato a piangere, a scavare nelle ferite infette e lasciar uscire tutto ciò che gli faceva male. Beh, quasi tutto.

-Già...- ribatté Mitsui con un mezzo sorriso triste, -Ma forse tu sarai quello che mi salva. Dopotutto, sei la mia ancora di salvezza.- aveva ancora le braccia allargate, i palmi delle mani in avanti, e Kogure decise di prenderlo come un invito. Lasciando agire un lato della propria personalità che aveva soffocato per tutta la vita, fece un passo avanti, poi un altro, che ebbero il sapore di un atto naturale: non era coraggio, non proprio, era più istinto. Le acque chete della sua anima erano diventate un fiume in piena, e non era così anche nel basket? Quasi inutile per la maggior parte del tempo, di colpo sapeva salvare inaspettatamente la situazione agendo senza prima rallentare e pensare.

Si gettò tra le braccia di Mitsui e si sentì immediatamente a casa quando sentì l'amico rispondere con entusiasmo e stringerlo forte. Le braccia di Mitsui gli cinsero le spalle in una stretta tenace e ferma. Kogure sospirò, come alla fine di un lungo viaggio, e gli appoggiò la testa su una spalla; la clavicola di Mitsui sembrava fatta apposta per ospitarlo, e l'abbraccio fu completo quando sentì il peso della sua testa che si posava sulla propria. Un respiro dopo l'altro, sentiva il corpo di Mitsui rilassarsi contro il proprio.

E poi Mitsui gli pose una domanda, non quella che gli aveva posto all'ospedale, ma qualcosa di contemporaneamente molto meglio e molto peggio: -Kimi, credi di riuscire ad amarmi ancora?- il suo cuore cercò di scappare dalla gabbia toracica. Kogure si rese conto che Mitsui aveva capito tutto quel che c'era da capire dal suo fare spallucce e dal suo “cavallo in H5”. E non l'aveva mandato via...

Mitsui lo stringeva in un abbraccio che pareva più che altro la stretta di un uomo mezzo annegato. Aspettava una risposta, quella che era sepolta in una scatola polverosa che Kogure teneva in un angolino del cuore in cui cercava di non andare mai.

 

E ora?

 

E ora niente, non era assolutamente in grado di mentire, tantomeno a lui.

-Sì... sì, Hisashi, penso di sì. Ci possiamo provare.- rispose.

-Bene. Perché io penso proprio di amare te, Wonderwall.

 
   
 
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