Requiem della Lama
Con passi misurati, ma inarrestabili, Caron seguiva il
serpeggiare del sentiero appena riconoscibile sotto la coltre di sterpi che lo
aveva ormai avvolto. Era certo molto tempo che nessuno calcava quella via, ma ciò
non giungeva inaspettato alla Cacciatrice. Era proprio per quello che era
diretta lì, alla valle oltre il Passo dei Goblin Rossi. Da ormai settant’anni,
infatti, nemmeno le infide creature che davano il nome al passo osavano
avventurarsi in quel luogo. L’avevano però seguita, credendosi non visti, per
molte leghe, acquattati dietro le rocce, in attesa che si fermasse, spinta ad
accamparsi dalla stanchezza. Come sempre, però, Caron aveva poco amore per il
riposo e una volta che i suoi inseguitori si erano resi conto di quali fossero
i suoi veri intenti, avevano subito fatto ritorno alle loro grotte.
Dicono infatti che
i goblin non digeriscano la carne dei pazzi… E persino i goblin sanno che solo
i pazzi camminano di loro spontanea volontà verso la valle di Khelob… L’avevano
così lasciata finalmente sola, a immergersi in uno di quei pochi pensieri non
colmi di odio o tristezza che si concedeva prima di una battaglia. Caron
pensava ora a quale delle sue compagne avrebbe chiamato a sé in combattimento:
pensava a quale lama avrebbe impugnato per porre fine all’esistenza della sua
preda.
I poteri
dell’oltretomba che le creature non-morte brandiscono rendono infatti tali mostruosità
sovente invulnerabili all’acciaio delle armi dei mortali. Nemmeno il desiderio
di vendetta che brucia nel cuore di Caron può rendere un semplice pezzo di
metallo in grado di perforare le protezioni arcane dei non-morti più potenti. Ma
quello stesso desiderio l’aveva invece spinta alla ricerca delle lame incantate
per portare a termine le sue condanne, lame forgiate in tempi remoti da
stregoni folli o da sacerdoti visionari.
Così Caron aveva potuto
squarciare in due gli enormi spiriti della carestia con la gigantesca
Xugoliath, la spada dell’Eterna Veglia, la cui lama è larga quattro palmi ed è
lunga più di quanto un uomo sia alto.
Con Ajanta, la
Divoratrice di Incantesimi, aveva prosciugato le energie magiche che
sigillavano le tombe dei sacerdoti non-morti di Sama-Skamuridan.
Le mani della
Cacciatrice non avevano mai esitato nemmeno ad impugnare le armi confinate in
luoghi oscuri perché considerate maledette. Pur di abbattere la sua preda aveva
rotto il sigillo che rinchiudeva la Lama dal Taglio Nero che sapeva
imprigionare le energie vitali di coloro che da essa venivano uccisi.
Aveva persino
osato estrarre Moreanar, la Fiamma Nera, dal cuore della Fortezza dei Sepolti…
E con essa aveva fermato gli incantesimi blasfemi pronunciati dagli stregoni
cadaveri.
Tuttavia, Caron
aveva scarsa conoscenza di cosa stesse ora per affrontare; per questo ancora
non sapeva il nome della sorella d’acciaio che l’avrebbe accompagnata in
battaglia. Aveva consultato eremiti e saggi, ma poco avevano saputo dirle della
maledizione che gravava sulla valle. Da più di mezzo secolo, infatti, chiunque
vi si fosse addentrato non aveva mai più fatto ritorno. Caron si era persino
messa sulle tracce dei figli di coloro che vivevano nella valle quando ancora
non era considerata maledetta, ma aveva trovato solo dei canuti anziani che
raccontavano dell’emigrazione dei loro genitori da un luogo diventato arido e
ingrato dopo la morte del re Khelob. Chi si intendeva di araldica e storia
nobiliare le aveva riferito che le informazioni erano scarse sulla vicenda:
nessuno di “colto” aveva lasciato la valle prima che si perdessero i contatti.
Per il poco che si poteva dedurre dai documenti degli altri regni vicini
antecedenti a tale periodo, sembrava che il re fosse morto per una congiura.
Tutto questo era
poco, ma per Caron formava già un quadro sufficientemente chiaro: una congiura
significa un tradimento e un tradimento genera il rancore. Il rancore è uno dei
più potenti ingredienti a cui attingono i sortilegi che forzano i portali del
regno dei morti. Una terra che d’improvviso diventa crudele con i suoi abitanti
è spesso segno di uno spirito maligno che vi si radica. Era probabilmente
contro questo che andava a scontrarsi Caron, ma cosa potesse e quale fosse il
suo punto debole, ancora lo ignorava. Nessuna spedizione aveva infatti fatto
ritorno, nemmeno un solo sopravvissuto in fin di vita o pazzo… i maghi di più
di un palazzo reale avevano pensato di risparmiare vite umane spiando oltre il
confine delle montagne con le loro sfere di cristallo, ma avevano scovato solo
un buon motivo per tenersi ancor più alla larga da quel posto.
Tutto ciò che si
poteva vedere appena superati i crinali rocciosi era infatti una distesa di
terra brulla e secca, spazzata da un vento sferzante e polveroso. Un luogo dove
non crescevano che sterpi rinsecchiti e non vivevano che insetti dal coriaceo
carapace. Era certo che nessun uomo potesse sopravvivere a lungo in un simile
posto, come era certo che una simile inclemenza non potesse essere una semplice
sciagura del clima. Era una maledizione divina… o quella di uno spirito
rancoroso.
Caron ne era
adesso avvolta: la maschera le consentiva di non soffocare per la polvere che
il vento secco sollevava e la magia del suo manto nero impediva ai granelli di
schiantarsi su di lei. Senza di esso il vento sarebbe stato come il tocco della
pelle di uno squalo. Il terreno era altrettanto aspro: una strana ghiaia lo
copriva. Non era l’insieme di ciottoli levigati dal tempo che solitamente evoca
la parola, era piuttosto come se grosse pietre fossero state frantumate in
pezzi irregolari e squadrati, fatti apposta per franare e lottare fra loro ogni
volta che vi si appoggiava il piede sopra, rendendo il passo estremamente
incerto. Il versante montuoso era poi una distesa indistinguibile di pietra
sbriciolata e erba rinsecchita, completamente priva di punti di riferimento in
cui era quindi facile perdersi, il suo profilo fatto di ripidissimi e
imprevedibili avvallamenti contrastati da impervi promontori che costringevano
il cammino in un continuo salire e scendere.
Non era difficile
immaginare che gli spedizionieri dei diversi lustri passati non avessero avuto
bisogno di alcun agguato per incontrare la propria fine. Perdersi in un simile
luogo era già di per sé una condanna a morte. Ben prima che qualunque cosa si
nascondesse in quella valle maledetta si fosse fatto avanti a minacciare gli
esploratori, i cavalli o i muli che portavano equipaggiamento e vettovaglie
sarebbero stati tempestati da quella sabbia ferrosa e sferzante portata dal
vento. I loro occhi a stento coperti dai paraocchi e i loro musi sarebbero
stati torturati da quell’incessante turbine secco e soffocante fino a quando,
ormai incapaci di resistere, avrebbero scartato imbizzarriti, cercando di
sottrarsi al giogo dei loro padroni. Ma il gesto brusco avrebbe sottoposto i
loro zoccoli a una prova troppo dura ed essi avrebbero perso la presa su quella
distesa sconnessa di sassi, finendo così per cadere e rovinare a valle insieme
a una piccola frana di ghiaia tagliente e a una nuvola di polvere che il vento
avrebbe subito gettato negli occhi degli avventurieri. I più agili di questi
ultimi si sarebbero destreggiati in una rapida discesa per cercare di riprendere
le bestie, ma avrebbero raggiunto gli animali da soma solo là dove il fianco
della montagna decideva improvvisamente di risalire e li avrebbero trovati
morti… o con una zampa spezzata, che sarebbe stata la stessa cosa. A quel
punto, guardandosi attorno, non avrebbero visto altro che quel mucchio di sassi
aggrovigliato dagli sterpi secchi che spuntavano in abbondanza dagli anfratti,
perfetti per avvolgersi intorno alle caviglie e far fare agli uomini la stessa
fine dei muli. Voltandosi indietro non avrebbero probabilmente nemmeno più
visto i compagni che erano rimasti indietro e, sopra di loro, l’incessante
tempesta di polvere avrebbe persino nascosto il cielo o lo avrebbe reso marrone
come l’acqua torbida. In ogni caso si sarebbero trovati incapaci di ritrovare
la strada del ritorno. L’arsura di quel caldo secco, la fame e la sete
avrebbero presto fatto il loro lavoro, aggiungendo un’altra spedizione alla
lista di quelle partite ma mai tornate.
Caron aveva
affrontato molti viaggi prima di questo, ma solo durante la traversata del
deserto di Amun-Kharak si era trovata a scontrarsi con un ambiente tanto
crudele. Allora era sopravvissuta solo perché la sua tenacia e determinazione
nel portare a spalla il corpo di suo fratello, privo di conoscenza, aveva
dimostrato la sua forza d’animo e l’incuranza per la propria incolumità. Ciò aveva
risvegliato la benevolenza degli spiriti del deserto, che l’avevano salvata e
le avevano fatto dono del suo manto nero. Ora l’incantamento posto su di esso
scongiurava il pericolo che Caron si avvicinasse alla morte come era successo
allora, ma questo era tutto ciò che poteva fare per aiutarla a scovare la sua
preda. Forse la sua migliore possibilità di riuscita giaceva nella speranza che
i ruoli si invertissero: affamato da decenni di digiuno, sarebbe forse stato lo
spettro a trovare lei per saziare la sua fame immonda… E allora lei avrebbe
potuto colpire.
Perciò, vigile
come ogni istante della sua vita, Caron scrutava attorno a sé incessantemente.
Gli spettri, infatti, possono sorprendere le proprie vittime non solo alle
spalle, ma piombando dall’alto come rapaci o persino sorgendo dal terreno che
attraversano con la stessa facilità con cui i vivi attraversano l’aria.
Inerpicandosi
all’erta sull’ennesimo crinale, la Cacciatrice percepì il vento calare
leggermente e accolse la cosa con piacere, non tanto per il ridursi del
fastidioso sferzare da cui la magia comunque la proteggeva, ma perché il suo
sibilo si faceva meno intenso e la polvere più rada, permettendole di udire e
vedere meglio eventuali pericoli. Il calo fu progressivo fino al punto in cui
il vento non cessò del tutto e il pulviscolo non ingombrò più la vista. Proprio
allora, però, proprio quando si avverarono le condizioni perfette per percepire
un imprevisto, proprio in quel momento, Caron fu colta di sorpresa.
Appena oltre
quell’ultima cresta la valle si mostrava alla vista incredula della
Cacciatrice. Aveva visto distese di tombe che avrebbero soffocato il cuore del
più coraggioso, pozzi sacrificali annegati in tanto sangue da riempire un mare,
grovigli di corpi smembrati che avrebbero potuto riempire i granai delle
capitali, ma nel guardare ciò che giaceva sotto di lei, Caron non poté che
arrestare il passo.
La Valle era
verde.
Verde come lo
smeraldo più bello.
Nel suo grembo un
lago azzurro.
Azzurro come lo
zaffiro più prezioso.
Il vento si
sollevò di nuovo, ma nulla aveva a che fare con il tormento di polvere che
l’aveva avvolta. Era gentile. E fresco. Una carezza dolce sulla pelle, portava
un profumo morbido. Sapeva di fiori e dell’erba accarezzata dalla rugiada.
Sopra di lei il
cielo era blu. Qualche batuffolo bianco serviva al sole per giocare a
nascondino, ma era solo per divertimento: l’ombra era gradevole come la luce.
L’aria era tiepida e fresca allo stesso tempo.
Sotto, la valle
era coperta di un bosco verde rigoglioso. Sempre con quel tocco delicato il
vento frusciava tra le foglie degli alberi con una melodia che era tanto tenera
da poter cullare un bambino. Dal versante opposto della valle scendeva un fiume
dalle acque cristalline; scivolava adagio tra il verde, come per non disturbare
le sonnolente radici che abbeverava e proseguiva fino al centro della valle
dove si adagiava in un grande letto, trasformandosi in un lago. Lì le sue acque
erano ancora più quiete; come uno specchio rimandavano agli occhi il dipinto
del cielo reso appena appena più brillante dai giochi di luce che il sole
spargeva qua e là con generosità.
Dalla riva di quel
meraviglioso lago si alzava piano piano un pennacchio di fumo. Usciva dal
comignolo di un tetto fatto di tegole rosse nascosto tra il verde delle fronde.
Come se fosse il bardo di quel luogo, il vento portò con sé anche l’aroma della
legna da ardere e quello della brace, lasciandolo aleggiare accanto alla
Cacciatrice, raccontandole di un piccolo e nascosto rifugio di quiete.
Corrugati
nell’espressione di chi non comprende, gli occhi di Caron scrutavano il verde
bosco alla ricerca di qualcosa che la mettesse in guardia, che le rivelasse un
pericolo, che le dicesse di afferrare la spada… Ma l’unica cosa che vide furono
delle bellissime farfalle dalle ali coloratissime che si librarono in volo a
poca distanza da lei, per poi riprendere a ridiscendere il crinale e tornare là
dove erba e fiori cominciavano a crescere. Con il suo passo atletico, la
Traghettatrice le seguì fino a giungere dove la china perdeva pendenza per
diventare valle. Lì i suoi piedi poggiarono infine su un terreno morbido,
coperto da un manto di un verde intenso ma incredibilmente non selvaggio.
L’erba si piegava ritmicamente seguendo il soffio del vento, mimando le onde di
un mare di smeraldo che andavano a infrangersi sugli alberi del bosco frondoso
che cresceva rigoglioso a poca distanza.
Ancora incerta,
Caron attraversò il prato quasi abbagliata da tanto splendore, cercando i segni
di un inganno che però non trovava. Trovò invece un sentiero che si addentrava
nel bosco, poco battuto, ma visibile, generosamente, ma gentilmente, contornato
da quell’erba smeraldina che si mischiava a un sottobosco quasi… soffice. I
suoi colori erano infatti una punteggiatura di foglie e fiori selvatici di una
bellezza e una semplicità incantevole su cui altre bellissime farfalle si
adagiarono per suggere il nettare, incuranti della visitatrice.
Ripresero poi il volo
conducendo lo sguardo della Cacciatrice nel folto intreccio di rami che il
bosco creava sopra di lei, il colore del legno a fare da trama all’intreccio di
foglie il cui verde era esaltato dal controluce del sole, alto nel cielo blu.
Quello spettacolo la invitò a proseguire, muovendo i passi sul sentiero, che si
addentrava, avvicinandosi piano piano, al suono dell’acqua che scorre e al
profumo della legna da ardere. E, sempre con l’indugio nel cuore per l’inaspettata
scoperta di quel luogo, Caron fece un passo dopo l’altro su quella strada,
saziando il suo sguardo che non conosceva che campi di battaglia di quella
rigogliosa foresta che non sembrava conoscere odio.
Fu quando il
sentiero raggiunse uno steccato di legno che il suo cuore si strinse un poco
per la prima volta… Si strinse perché infine quella sensazione vaga ma intensa
che l’aveva pervasa nel vedere la valle stava infine diventando comprensibile
anche alla sua mente, diventando un pensiero compiuto, una consapevolezza: lei
conosceva quel luogo. No, non vi era di certo mai stata. Non lo aveva mai visto
raffigurato in alcun dipinto. Eppure lo conosceva. Al di là di ogni dubbio. Non
conosceva il suo verde, il suo azzurro, il suo blu, i suoi profumi o i suoi
rumori… Non conosceva i lineamenti di quella valle uno per uno… Ma il volto
intero, il suo sguardo, era per lei inconfondibile… Era un luogo disperso,
lontano da tutti e da ogni cosa… Era un grembo segreto che poteva accudire
anche il passo stanco di chi non conosce che la veglia e che non ha abbraccio
in cui cullarsi. Era il luogo in cui perdersi, il posto in cui persino il più
terribile rimorso, il più pesante peccato avrebbe lasciato quieta la propria
preda.
Ora riconosceva
quel vento tiepido… Era il vento che le carezzava la pelle senza chiederle,
senza ricordarle quanto sangue avesse versato, quanto dolore avesse inghiottito.
Ora riconosceva
l’acqua che scorreva tranquilla… Era il fiume che l’avrebbe dissetata
nonostante le torture che aveva subito e che si era inflitta.
Ora riconosceva il
profumo che proveniva da quella casa… Era il pane che avrebbe potuto mangiare
senza pensare di dover presto tornare a vagare senza meta.
Le foglie, i
fiori, il vento e le nuvole… Quel luogo di lei conosceva tutto… Eppure non la
odiava… Quel vento gentile con i suoi aromi e il suo tepore stava cercando
dentro di lei l’angolo più nascosto del suo cuore… quello che ancora poteva
credere al suo sussurro… che diceva… “Tu
puoi essere perdonata…”.
Avvolta in quella
rivelazione, Caron se ne distolse solo all’udire un nuovo suono raggiungerla
sulla soglia dello steccato che racchiudeva il giardino della casa dal tetto
rosso, di cui ormai intravvedeva la sagoma appena oltre gli alberi più vicini.
Caron udì delle voci.
Erano voci
allegre. Felici. Gentili. Ridevano e scherzavano… Voci che non aveva mai udito.
Non voci di stregoni. Non voci di banditi. Voci normali.
Chiamata da esse
come dal canto delle sirene, Caron varcò la soglia del piccolo cancelletto in
legno per poter vedere quel luogo, il cuore di quel bosco, il cuore di quella
valle…
Gli alberi si
aprirono intorno a lei, lasciando spazio alla vista senza però dimenticarsi di
intrecciarsi in alto con le loro chiome verdi, regalando al terreno quella
meravigliosa trama di ombre e luci e all’udito la melodia del vento che
frusciava tra le loro fronde. Incastonata tra i corpi di quei verdi guardiani,
la casa fece infine mostra di sé.
Fu senza pretese
che si fece vedere… Le finestrelle, fatte di un’intelaiatura in legno scuro che
ospitava piccoli rombi di vetro colorato come un arcobaleno, erano l’aspetto
più vistoso di quella semplice casa di campagna e, difatti, forse sapendolo,
alcune si nascondevano dietro a persiane rosse. Rosse come le tegole che si
potevano intravvedere appena prima che il tetto fosse abbracciato dai rami
degli alberi…
Lo sguardo di
Caron fu rubato per alcuni istanti dalla casa, percependo con chiarezza quella
sensazione di quiete trovare il suo fulcro in quel… rifugio… Poi le voci le
giunsero ancora e gli occhi si distolsero per guardare lo spazio aperto che
stava innanzi alla costruzione.
C’era una festa… o
un pranzo… Non importava davvero… C’erano delle persone felici. Fu questo che
percepì Caron posando lo sguardo sulle figure da cui provenivano le voci. Delle
giovani donne sedevano intorno a un tavolo di legno imbandito con una tovaglia
a quadri bianchi e rossi, su di esso i piatti semplici di chi può vivere nel
folto di un simile bosco, nei piatti i gusti di cibi altrettanto modesti, ma di
un aroma e di un’accoglienza che nemmeno i più grandi banchetti imperiali
avrebbero potuto eguagliare. Nessuna ragazza la vide soffermarsi ad ammirare la
scena, tutte prese in una conversazione leggera e serena come può esserla solo
quella della famiglia più felice. Caron non udiva davvero le parole che le
giovani si scambiavano… Sentiva solo che risuonavano allo stesso ritmo di
quella sensazione che le avvolgeva ritmicamente il cuore da quando aveva
varcato quella soglia… Quelle erano parole di pace, di felicità, parole che
anche se avesse ascoltato scandite sillaba per sillaba, non avrebbe mai potuto
davvero comprendere… Eppure giungeva così chiaro al suo cuore il loro vero
significato… “Siamo a casa, siamo felici”.
Così sicura sul
campo di battaglia, Caron si scoprì invece così incerta in quel cortile così
quieto. Le sue gambe, sempre tanto rapide a cogliere l’iniziativa negli
scontri, ora erano come di pietra e non sapevano cosa fare… E la sua mente,
così certa su cosa fosse meglio fare per sconfiggere mostri abominevoli, ora
non riusciva a decidere… Doveva attendere? Doveva lasciare che fossero loro a
vederla? Avrebbe dovuto aspettare la loro reazione a quell’intruso così cupo? O
doveva farsi avanti, per scoprire cosa fosse quel luogo e chi fossero quelle
persone?
A ogni battito del
suo cuore, Caron pensava che la scelta sarebbe stata fatta per lei, che in un
qualunque istante una delle ragazze avrebbe versato nel bicchiere di una delle
sue sorelle l’acqua limpida che riposava nella caraffa al centro del tavolo e
avrebbe notato quella macchia nera avvolta da catene d’argento là, sulla soglia
del cortile… E poi… E poi non sapeva… E forse non voleva sapere… Forse non
voleva che si voltassero… Forse non voleva scoprire se quel luogo poteva
davvero non provare orrore di lei.
Ma i battiti del
cuore di Caron si susseguivano e nulla accadeva; nessuna sembrava accorgersi di
lei… E fu proprio allora, proprio quando Caron decise che avrebbe dovuto
sconvolgere le quiete figure con la visita di un ospite inatteso, che quel luogo
la colse nuovamente di sorpresa riservandole la stessa identica decisione.
Anziché per
riempire il bicchiere di una sua vicina, una delle ragazze si volse indietro,
verso la porta di legno della casa, e chiamò a gran voce il nome di una sua
compagna. Chiamò quel nome perché la ragazza si unisse a loro. Lo chiamò perché
con sé portasse il pane fresco… Ma di tutto questo Caron non ascoltò nulla… se
non il nome che la voce aveva chiamato… perché aveva chiamato “Amabel”.
Più di qualunque
sortilegio che le avessero mai lanciato contro, quel nome paralizzò ogni
muscolo del corpo di Caron, fatta eccezione per il cuore che prese a battere
più forte che in qualunque battaglia. Quel semplice nome era stato in grado di
schiudere un forziere nell’animo della Cacciatrice la cui chiave pensava fosse
per sempre andata perduta. Dentro di esso Caron pensava di aver sepolto la
Speranza. Quell’assurda e incomprensibile convinzione che i miracoli, alle
volte, possano accadere davvero…
Mentre tentava di
tenere a freno con la razionalità un’emozione che pensava a lei così estranea,
Caron capì quanto fosse futile quel suo tentativo non appena da dentro la casa
giunse la voce che rispondeva all’appello della compagna. Era lontana… e
difficile da distinguere chiaramente… Ma… Davvero… Le somigliava… Somigliava a
quella voce che, unica, le aveva dato il suo vero nome… Quella voce che,
morente su quel maledetto altare sacrificale, le aveva detto… “Io ti perdono”.
Solo quello fu
sufficiente a contorcerle il cuore in un palpito che non aveva mai conosciuto…
Fu sufficiente a incrinare la diga di razionalità dietro cui ancora cercava di
arginare la Speranza. Poi la voce si mostrò e quel Torrente le invase l’animo
nella sensazione più terribile e magnifica che avesse mai provato.
Amabel corse fuori
dalla casa dal tetto rosso… Un cesto di pagnotte tra le braccia; la fragranza
del pane fresco veleggiava nel vento insieme al profumo dei suoi capelli
dorati. Gli stessi capelli che Caron aveva accarezzato, macchiati di sangue, in
quell’unico e ultimo abbraccio prima che Amabel morisse. Su di essi ora il sole
giocava con riflessi che non potevano essere descritti, creando colori tanto
belli che solo il blu profondo e intenso che apparteneva agli occhi della
ragazza poteva eguagliare. Era lo stesso blu che Caron sognava ogni notte, quel
blu negli occhi che ancora non rinunciavano all’affetto mentre si spegnevano
guardandola, chiusi per sempre dalle torture che Caron stessa aveva inflitto
per obbedire alla volontà del suo crudele padre. Ora invece brillavano più del
sole… Brillavano sereni più del cielo oltre la coltre di rami. Brillavano
felici come il sorriso che le bellissime labbra disegnavano.
Ed era un sorriso
così diverso… Diverso da quello in cui aveva potuto cullarsi quando Caron era
ancora avvolta da un corpo di bambina… L’unico sorriso che aveva mai visto sul
volto quasi adulto di Amabel era quello che tentava di rivolgerle nonostante
gli spasmi causati dal veleno di cui il suo corpo era imbevuto… Sì: quella era
la prima volta che vedeva Amabel sorridere nella sua veste di ragazza e non di
fanciulla… Ed era Felice… Ed era Bellissima… E, fuor di ogni dubbio… Era
Amabel…
Non appena quel
pensiero si completò nella sua mente, Caron sentì un calore indescrivibile
avvolgerla e, per la prima volta da quando aveva messo piede in quella valle,
non si sentì più un’estranea… si sentì davvero a casa. La Speranza appena
scaturita dal suo cuore inquieto divenne infine Felicità, la Felicità che Caron
pensava persa per sempre. L’istinto guerriero si affievolì fino a svanire,
acquietato dal fremere del cuore, e con esso svanì la magia che fissava la
Maschera d’Argento al volto della Cacciatrice, lasciando che anche quello
schermo cadesse. Pronte, le Catene magiche si animarono e afferrarono l’oggetto
al volo, riponendolo in una tasca del mantello senza che la loro padrona né
glielo ordinasse, né se ne rendesse conto, ora solo rapita da quella visione
che per lei era tutto.
A Caron sarebbe
stata sufficiente quella visione… Continuò ad assaporarne ogni istante,
dilatandolo all’infinito, cogliendo ogni passo di Amabel, ogni piega dei suoi
capelli, ogni linea del suo viso, ogni eco della sua risata, senza desiderare
altro, ogni pensiero svanito… Ma il vento prese di nuovo a giocare con lei e
soffiò su Amabel in modo impertinente, scompigliandole la bella chioma e
mandando una ciocca dorata sul viso. La ragazza si fermò portando il cesto del
pane sotto un braccio e con l’altra mano si risistemò la frangia… E nel fare
questo scosse il capo… E nel fare questo vide Caron…
Fu quello
l’istante più lungo, l’attimo più bello e terribile che la Cacciatrice avesse
mai vissuto; la felicità più grande nell’incrociare lo sguardo di chi credeva
persa per sempre e la paura più sconfinata che qualcosa distruggesse quel
momento… Che Amabel non la riconoscesse o che riconoscendola la odiasse per
quel che le aveva fatto o che Caron fosse davvero diventata un fantasma e, come
le altre ragazze, anche Amabel finisse per ignorarla o per scambiarla per un
alito di vento appena percettibile nell’ombra dell’intreccio dei rami.
E invece… Invece
Amabel la vide… E Sorrise… Sorrise ancor di più… Sorrise con il suo sorriso più
bello… E lasciò la cesta… E chiamò il suo nome… Chiamò “Millishea!!”
…E le corse
incontro.
Gli occhi tremanti
di Caron, che cercavano di ricordare come richiamare le lacrime, sconosciute al
Traghettatore del Regno dei Morti, fissarono la dolce figura di Amabel correrle
incontro mentre le labbra tentavano di schiudersi per dire qualcosa senza però
riuscire a pronunciare alcunché. Riusciva solo a trattenere il suo cuore dal
non impazzire nonostante si colmasse a ogni passo di tutte le lacrime di
felicità che gli occhi non riuscivano a piangere fino quasi a scoppiare. E ogni
passo Amabel chiamava quel nome che doveva essere morto insieme a lei e Caron
non riusciva ad udire altro. Non udiva le voci sorprese delle altre ragazze
alla sua vista, né vedeva la felicità dipingersi sui loro volti per quella
visita inaspettata. Vedeva solo Amabel che ad ogni passo le era un passo più
vicina…
Caron si abbeverò
a quella visione come un uomo perso nel deserto può fare con un pozzo colmo di
acqua fresca. E nel vederla correrle incontro, Caron gioiva per il più bel dono
che potesse immaginare… non solo poteva vedere Amabel sorridere… Ma Amabel sorrideva
a lei… Correndole incontro, Amabel era felice… Felice di riabbracciarla.
Amabel corse da
lei fino a che non le separarono che un paio di passi, poi si arrestò, forse
colta dagli stessi dubbi e dalla stessa incredulità di Caron. Forse si stava
chiedendo se potesse essere vero quel momento, se Millishea l’avesse
riconosciuta, se ancora si ricordasse di lei. Tutti questi pensieri visibili a
Caron nei grandi occhi blu e allo stesso tempo sovrastati da una gioia che non
voleva farsi imbrigliare da alcun dubbio. Così Amabel, tenera e sincera proprio
come Caron l’aveva sempre ricordata ogni giorno della sua vita, tornò subito a
sorridere e spalancò le braccia, nella dolce e silenziosa richiesta di essere
accolta… E, lentamente, con incertezza, anche le braccia di Caron si
sollevarono, mentre nei suoi occhi la più grande felicità si mischiava alla più
grande paura.
Ora, pensava la
Traghettatrice, ora tutto svanirà… Come ogni inganno del destino, anche questo
momento mi sfuggirà proprio nel momento in cui sembra tutto perfetto… Proprio
mentre le mie braccia staranno per stringerla, mi desterò dal sogno… Oppure le
Catene prenderanno a vibrare, avvertendomi dell’inganno di questo spettro e
tornerò a brandire la spada…
Ma come per
scacciare le paure di Caron, Amabel le si gettò tra le braccia cercando la sua
spalla con il capo, cingendola alla vita, scaldandola con la sua tenerezza,
inebriandola con il suo profumo. Caron percepì ogni sensazione, ancora
aspettandosi un inganno… Ma… Vero. Era tutto vero… Questo ennesimo stupore fu
tale che la bloccò come fosse una statua, incapace persino di chiudere
l’abbraccio, lasciandola con le braccia sospese e lo sguardo perso nel vuoto
mentre Amabel si stringeva a lei, felice.
“Millishea!
Millishea, sei arrivata davvero! Quasi non credevo più alle parole dell’Angelo!
Ma lui aveva detto che saresti tornata, che ti avrebbe riportata da noi!”
Ancora stordita, Caron abbassò a fatica lo sguardo, cercando quello di Amabel,
senza sapere cosa dire. Ma la ragazza aveva sempre saputo leggere il suo cuore
e quando sollevò a sua volta il capo, sentendola ancora tesa, comprese subito
lo stupore e la domanda che le risiedeva nell’animo “Millishea… – Le disse con
uno sguardo pieno di gratitudine – …Un Angelo mi ha riportata indietro… Mi ha
raccolta nel viaggio oltre la vita per ricondurmi qui… Lo ha fatto perché…
Perché tu sei cambiata. Il tuo sacrificio, la tua ribellione, la tua battaglia
contro chi vuol far soffrire gli altri… Nel vedere quanto sei stata disposta a
soffrire per espiare il tuo peccato, il Cielo non è potuto rimanere a guardare…
Come tu hai ucciso tuo padre per impedire che altre vite fossero spente, un
Angelo ha cercato quelle che lo stregone aveva già distrutto per riparare al
male fatto… E mi ha ridato la vita… L’ha ridata a tutte noi, rompendo il
maleficio che tuo padre aveva fatto su di noi… E ci ha portate qui… in un
angolo di paradiso dove solo con la benedizione di un Angelo si può entrare… e
mi ha detto che un giorno anche tu saresti arrivata… E ora finalmente sei qui.”
Rituffando il capo sulla spalla di Caron, Amabel strinse ancora l’abbraccio per
esprimere la gratitudine che le parole non potevano raccontare. Poi, sentendo
che ancora era rigida, Amabel lasciò i pensieri del passato per coinvolgerla in
più giocosi propositi “Millishea, vieni! Ho fatto il pane fresco e Lisa ha
preparato il suo piatto speciale! Siediti con noi, ti devo raccontare tante
cose e poi… Sei già stata al lago? C’è un posto bellissimo in cui ci si può
tuffare e…” Incominciò senza poi più riuscire a contenere l’entusiasmo… E fu
allora che Caron capì. Capì che non sarebbe mai arrivato nessuno spettro e
nessun nemico a svegliarla da quel bellissimo sogno. Che, se avesse stretto le
braccia intorno ad Amabel, avrebbe potuto davvero rimanere lì con lei… per
sempre.
Capì di aver
confuso la speranza e la paura… Perché non temeva che qualcosa si frapponesse
fra lei e quel sogno… Perché non sperava che fosse tutto vero… In verità era
esattamente il contrario: sperava che qualcuno che avrebbe potuto odiare, fosse
anche solo il Destino, le impedisse di cogliere quella felicità… e temeva che,
invece, quel qualcuno non sarebbe mai giunto. Lo temeva perché, in cuor suo,
Caron sapeva che quello era il luogo in cui un giorno avrebbe voluto arrivare e
fermarsi per sempre… Ma, in cuor suo, Caron sapeva che il tempo… che quel
giorno, non era ancora giunto… E, per questo, sperava che qualcuno la
costringesse lontano anziché lasciarla a scegliere, ancora una volta, tra ciò
che sapeva essere giusto… e ciò che invece le avrebbe fatto conoscere il volto
della felicità.
Ma oramai non
sarebbe più potuto giungere nessuno.
C’erano solo lei,
Amabel e quella bellissima casetta dalle tegole rosse…
E solo suo fu
quindi il compito di poggiare le mani sulle spalle dolci di Amabel separandola
un poco da sé, per rivolgerle uno sguardo in cui il ghiaccio del suo cuore
tornava a riaffacciarsi, senza però nascondere quanto la sua visione ancora la
scaldasse. La voce melodiosa che le spiegava quante cose avrebbero potuto fare
assieme si spense insieme al suo sorriso, comprendendo subito che Millishea
avrebbe pronunciato parole tristi che dovevano essere udite.
“Addio, Amabel… Io…
Devo ripartire” Trovò solo il coraggio di dire prima di voltarle le spalle e
tornare sul sentiero che lì l’aveva condotta. Fu la volta di Amabel di rimanere
con una incredula disperazione negli occhi, incapace di reagire, ma prima che
pochi passi fossero trascorsi, si fece forza e la chiamò di nuovo
“Millishea!
Aspetta! Non andare! Ti prego, rimani qui con noi!” Caron si fermò senza
tornare a guardarla, sapendo che non avrebbe sopportato di vederla triste.
“Amabel… Grazie
davvero… Ma… Ci sono ancora molte cose che devo… che posso fare… Non posso
ancora fermarmi. Un giorno… Un giorno, te lo prometto… Tornerò da te. Fino a
quel giorno, ti prego… continua a riposare in questo mio cuore” Disse con
l’ultima goccia di dolcezza che era rimasta dentro di lei. Poi i suoi passi
ripresero e la portarono via lasciando dietro di lei la casa dal tetto rosso,
il lago azzurro, il bosco verde e Amabel che la guardava andare via come
paralizzata dalla sua determinazione.
Tornando gelida
come sempre, la mano di Caron andò alla maschera e la pose di nuovo sul suo
viso, dando con quel gesto il suo silenzioso addio a quel suo sogno. Mentre ancora
calcava il sentiero all’interno del bosco, i tacchi dei suoi stivali tornarono
a sollevare la polvere di un terreno brullo e il vento tornò a spazzarla
lontano con rabbia e crudeltà; il suo manto tornò a danzare abbracciato a quel
turbine ululante e i suoi occhi tornarono a essere offuscati dalla tempesta di
pietrisco sollevata nell’aria. Prima che dieci passi fossero compiuti,
l’illusione della valle fiorita scomparve del tutto, lasciando Caron a
calpestare il terreno irregolare delle rovine del palazzo della Valle di
Khelob. Davanti a lei non c’erano più fiori multicolori o alberi rigogliosi, ma
solo poche colonne spezzate che testimoniavano come quel luogo una volta
dovesse essere stato la magnifica sala di un palazzo ormai completamente
scomparso. Tra i resti delle colonne, il trono su cui ancora sedeva il cadavere
essiccato di Re Khelob, il petto scheletrico trafitto da una spada che non
sembrava essere stata toccata dal tempo o dalla maledizione della valle. Dietro
il trono, il vento spirava furiosamente e senza posa, trascinando un’enorme
quantità di polvere in un vortice che, invero, aveva le fattezze di un
gigantesco viso. Il viso di un uomo nobile solcato dall’età. Il viso di Re
Khelob. Il viso dello Spettro della Valle. Ma diversamente dai volti spettrali
che la Cacciatrice aveva incontrato… Questo non era furioso, né iracondo… Era
triste… Caron si fermò innanzi ad esso; abbandonato il tepore di quel sogno, il
suo cuore ed il suo sguardo erano tornati glaciali come sempre.
“Tu… – Pronunciò
il vento con un eco sordo ma roboante – Perché sei tornata? Ho letto il tuo
cuore… Sono certo di averti condotto nel luogo che desideravi più di ogni altra
cosa al mondo… E non è stato perché hai pensato a un inganno che hai fatto
ritorno… Ho letto chiaramente che, dopo tanto dubitare, il mio sogno ti aveva
convinta… Ma proprio allora… Proprio allora gli hai voltato le spalle… Io, Re
Khelob, ucciso dai miei stessi figli, tradito dai miei stessi amici per la
brama di potere, reso schiavo del mio odio e della mia vendetta, incatenato da
essi a una vita eterna che non conosce riposo… Io… Ho pena per te Cacciatrice”
Disse con la voce di vento che a più riprese si interrompeva come se fosse sul
punto di piangere “Nell’istante della mia morte e ogni momento da allora, il
mio spirito è vissuto schiavo del disgusto per la vita: la congiura che mi ha
ucciso mi aveva rivelato che essa è un crogiuolo di menzogne e sofferenze che
gli dei ci hanno assegnato solo per divertirsi nel vederci ingannati e
impotenti. Per questo ho privato di questo infame dono tutti i miei sudditi…
Per questo ho condotto le loro anime in un sogno che li avrebbe cullati in un
mondo giusto e senza sofferenze, riparando agli errori degli dei. E nessuno di
essi è mai tornato… Tranne te… Tu… Tu che più di tutti avresti dovuto capire
quanto è odiosa e dolorosa la vita… Tu hai rifiutato il mio dono… Io… io ti
avrei protetta… Ti avrei accudita… Avrei impedito al dolore che ti porti nel
cuore di farti ancora del male…” Le confessò lo spettro con i lineamenti di
sabbia che davvero sembravano quelli di un amorevole padre in pena per la
figlia, senza che questo smuovesse Caron dalla sua fredda contemplazione “Se
non potessi leggere nel tuo cuore come un libro aperto penserei che hai
rifiutato il mio dono perché sei un carceriere più crudele di qualunque spettro
e che mai ti saresti permessa di essere felice…” Continuò senza che Caron
dicesse una parola, certa che Khelob potesse davvero leggere nella sua mente e
nel suo cuore e, per questo, fosse del tutto inutile parlare “…E se così fosse
mi avresti comunque distrutto. Io che mi sono sempre considerato l’uomo
dall’odio più grande per la vita, potrei solo svanire al cospetto di una donna
che detesta la propria esistenza al punto di non permettersi neppure di rinunciarvi
per sfuggire alla tortura. E invece… Solo io, tra le tue prede, ho visto il tuo
cuore. Solo io so che sei tornata perché, anche se odi la tua vita… Desideri
proteggere quella degli altri… E che più della tua, desideri la felicità
altrui… E se tu… che sei stata ferita e sfregiata dalla vita almeno quanto me,
hai deciso di lasciare il mio sogno perfetto per amore altrui… Allora forse
significa che la vita che tanto ho odiato vale davvero la pena di essere
vissuta. In questo, Traghettatore del Regno dei Morti, tu mi hai ben più che
distrutto. Tu mi hai sconfitto” Confessò il Re Spettrale quasi con sollievo,
mentre il vento cominciava a calare rendendo più evanescente il volto di
polvere. “Tanti sono stati gli sciacalli che hanno cercato i miei tesori.
Diversi sono stati i campioni che sono venuti per porre fine alla mia
maledizione. Tutti loro per uccidermi di nuovo avevano portato con sé spade
incantate e armi magiche… Ma nessuna di esse… E nessuna di quelle che porti con
te… Avrebbe mai potuto essere affilata e letale più del tuo cuore triste e
innamorato. È con quello, non con una lama, che tu hai reso a Re Khelob la pace
di un riposo eterno…” E con quelle parole il vento cessò del tutto, lasciando
che la sabbia tornasse al suolo e il rumore svanisse. L’ultimo brano dello
spirito di Khelob abitò il suo corpo defunto per qualche istante; afferrò con
la mano scheletrica l’elsa della spada che lo inchiodava al trono e la
estrasse. La lama, come il vento della valle, spirò un’ultima volta e si
dissolse poi in mille granelli di polvere lasciando solo l’elsa intarsiata
nella mano del re “Ben più di questa, la tua forza d’animo ha trafitto il mio
cuore. Perciò, a memoria di quanto hai fatto per me, io ti dono una Spada Senza
Lama… Il suo filo invisibile trafiggerà lo spirito di coloro che sfuggono la vita
e la morte proprio come tu hai fatto con me…” Poi anche il cadavere tornò allo
scorrere del tempo disperdendosi come polvere negli ultimi aliti di vento,
lasciando solo l’Elsa imbevuta della magia di Khelob.
Caron la afferrò
mentre cadeva, prima che toccasse terra e la scrutò senza ancora dire una
parola e lì, dove la lama d’acciaio avrebbe dovuto essere, l’aria vibrava con
uno strano bagliore appena percettibile…
…E guardando
attraverso di esso, Caron vide il verde intenso di una rigogliosa valle… Il
tetto rosso di una casa modesta… E un piccolo comignolo fumante accarezzato da
un vento dolce e profumato…
Solo allora le sue
labbra si schiusero lasciando sfuggire un sussurro malinconico…
“Un giorno… Un giorno, te lo prometto… Tornerò da te …”
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