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Autore: HellWill    03/06/2018    0 recensioni
"«Perché con quell’atto di eroismo, [...] diedero inizio ad un movimento che è sopravvissuto fino ad oggi: la Resistenza».
«La Resistenza? Resistenza a cosa?».
«Ai soprusi, all’ingiustizia, allo sfruttamento, alla miseria imposta. All’ignoranza, alle leggi disoneste, alla discriminazione, alla schiavitù. Resistenza al mondo umano marcio e alle sue regole corrotte. Resistere per combattere e liberare l’umanità dalle sue piaghe in modo che chiunque, umano o Non, possa vivere libero, rispettato, in pace»."
tratto dal primo volume dei Sentieri Sconosciuti, "Soffitti Sconosciuti".
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sentieri Sconosciuti'
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I
Zahel
Lo straniero
 
9 Gjorna 684 d.C.
«Finalmente sei tornato. L’hai trovata?».
«No».
La donna si alzò di scatto dal suo scranno, indispettita.
«Mi serve. Hai la minima idea di quanto sia importante ottenerla, e ricavarne i frutti?» la contessina assottigliò lo sguardo e i suoi occhi azzurri si fissarono su quelli verde acqua del ragazzo, che tuttavia rimase impassibile.
«C’ero quasi, era nelle vicinanze» la interruppe lui, secco. Lei non lo lasciò finire.
«Ma?» inarcò un sopracciglio, impaziente.
«Nessun ‘ma’. Solo eventi consecutivi: loro sono arrivati prima».
La Contessina Thearor, della Contea dei Laghi del Regno di Mame, parve allibita. Per qualche istante l’enorme solarium parve farsi più freddo e il sole che gettava languidamente i suoi raggi sul pavimento di marmo rosa parve quasi sbiadire, diventando tiepido e grigio. Zahel non distolse lo sguardo dagli occhi azzurri della donna: a vent’anni, lui svettava di almeno venti centimetri su di lei, e la sua corporatura era almeno il doppio di quella della sua Signora. Ma a corte si sussurrava che la Contessina non fosse umana, e lui non poteva dissentire: c’era qualcosa che parlava di ghiaccio e morte, in lei.
«La Resistenza» mormorò lei, e non era una domanda. Ella si voltò e iniziò a misurare a grandi passi la distanza fra lo scranno e lui, fissando la gonna del proprio elegante vestito; Zahel non aveva idea di quali pensieri le passassero per la testa, e nemmeno gli interessava. Il sole, andata via la nuvola passeggera che l’aveva oscurato, riprese a brillare languido e si rifletté sul marmo, ferendogli fastidiosamente gli occhi; il vetro non era perfettamente levigato e opacizzava un po’ la luce, ma questo non impediva all’astro di manifestare la sua presenza fra i pesanti tendoni rossi, che lasciavano aperta un’ampia fessura da cui penetrava la luce.
«Così pare» confermò il ragazzo, inclinando la testa di lato. «Devo cercarla di nuovo? Potrebbe essere già in mano loro, ma questo non è un problema» disse, con il suo solito tono freddo. La Contessina Thearor alzò gli occhi azzurro ghiaccio su di lui e parve studiarlo in quanto tale per la prima volta da quando era entrato nel Solarium.
«Cercarla di nuovo… mentre è in mano loro. Se hai voglia di suicidarti, fa’ pure» tagliò corto lei, arricciando un labbro alla sua stupidità. «No. Ritirati nelle stanze che ti sono state assegnate, e rimani in attesa di altri miei ordini. Oppure recati dal mio Capo delle Spie, e vedi se ha compiti da assegnarti».
Zahel sorrise appena, negli occhi verde acqua baluginò una luce divertita.
«Con tutto il rispetto, mia Signora, io ho un lavoro. Se devo rimanere con le mani in mano in attesa di vostri ordini perdo parecchie occasioni di contratto».
La Contessina non parve nemmeno impensierita dalla cosa.
«Bene, allora sarai pagato cinquecento corone alla settimana».
Zahel lasciò intravedere quasi tutti i denti, sorridendo con la ferocia di un grosso felino: non erano i soldi che gli interessavano, ma dopotutto facevano comodo.
«Perfetto. La ringrazio, mia Signora».
La donna fece un gesto stizzito con una mano, congedandolo, e ritornò sul suo scranno: quando vi si sedette, Zahel era già silenziosamente sparito.
 
❦❦❦
 
9 Gjorna 684 d.C.
La cosa che più lo stupiva dei castelli era la quantità incredibile di stanze e passaggi nascosti, e l’altrettanto enorme massa di silenzioso personale.
Di stanze e passaggi ce n’erano ovunque: dietro gli arazzi che coprivano le pareti, sotto il pavimento, accanto ai camini, in qualunque luogo. Pur avendoli studiati da ragazzino, inoltre, Zahel non aveva mai immaginato quanta gente potesse lavorare in un solo castello; né aveva mai pensato, del resto, di poterne vedere uno dal vivo animarsi di primo mattino, quando in cucina sfornavano il pane fresco, o quando si facevano uscire i cani-lupo dalle gabbie per procurare la cacciagione, o quando i saloni si animavano delle armonie dei bardi.
Quando era entrato per errore in quel mondo, Zahel aveva capito sin dall’assenza di automobili e taxi che non si trovava più a New York; quando poi gli si erano presentati tre uomini incappucciati dicendogli in inglese di essere i “Guardiani Irreali”, aveva capito che era un qualcosa più grande di lui. Ma non gli importava: a New York era inseguito dalla polizia, con l’accusa di omicidio, e qualsiasi cosa gli sarebbe sembrata meglio che continuare a dormire nei cassonetti per stare al caldo.
I Guardiani Irreali lo avevano portato in una locanda, gli avevano dato dei vestiti dalla foggia medievale e per qualche ora Zahel aveva bevuto birra di malto e riso parecchio: era impazzito, o era una candid camera, o si trattava di una ricostruzione storica parecchio ben fatta. Ma fra una birra e l’altra – oh, e il sapore di quella birra non lo aveva mai sentito prima – gli avevano spiegato che per nessuna ragione doveva farsi sfuggire nulla, sulla vita nel mondo da cui proveniva; gli avevano dato dei soldi – quelli sì che gli erano piaciuti, d’oro vero per giunta! – e delle spiegazioni su come ci si comportasse in quel regno.
Zahel non era mai stato un buono studente, ma qualcosa sul medioevo lo sapeva; e lì le cose erano parecchio diverse, come aveva avuto modo di constatare. Prima di tutto, studiando una mappa, aveva potuto vedere che la geografia di quel mondo non era nemmeno lontanamente simile a quella che conosceva lui; di certo non si trovava in Nord America o nell’Europa dell’Alto Medioevo.
I Guardiani Irreali gli avevano lasciato tutto ciò che poteva servirgli: una mappa, dei soldi, degli orecchini e una caramella: questi ultimi due oggetti, gli avevano detto, gli servivano per comprendere e parlare le lingue di qualsiasi luogo gli venisse in mente di visitare… persino in altri mondi. Così, tacendo, si era fatto un paio di buchi sulla cartilagine delle proprie orecchie a punta e aveva indossato gli orecchini; la parlata del locandiere non gli era sembrata più così assurda. Nel momento in cui aveva anche ingoiato la caramella, si ritrovò a conversare amabilmente in francese con i Guardiani Irreali, che avevano sorriso, si erano alzati e se ne erano andati… così, senza tante cerimonie.
I tre uomini erano spariti nel nulla, e lui era rimasto solo in un mondo totalmente sconosciuto, senza sapere come tornare indietro, e senza averne la minima voglia.
Zahel si riscosse da quei ricordi – che, a pensarci bene, gli sembravano ancora assurdi – ed evitò seccato i corridoi segreti usati dalle ancelle della Contessa; il profumo del pane saliva dalle cucine fino a lì, al terzo piano del castello, ma aveva lo stomaco chiuso: era passato troppo tempo dal suo ultimo omicidio, e gli ordini della Contessina che gli imponevano di rimanere a palazzo non lo rendevano felice: non era solo il denaro ad interessargli.
Percorrendo decine di rampe di scale e una dozzina di lunghissimi passaggi, spuntò finalmente nelle cucine. Quando lo videro, frusciante nella sua tunica bianca con il tulipano rosso sul petto – la Contessina voleva farlo passare per una Guardia, e la cosa ancora lo faceva ridere –, la cuoca e le sue assistenti si profusero in inchini, con le mani sporche di farina e l’impasto sotto le unghie.
«Cosa possiamo fare per lei, Capitano?» chiese una ragazzina che poteva avere poco meno di sedici anni; Zahel la osservò con espressione impassibile: era pienotta, con un viso rotondo e dolce ed occhi di cerbiatta. Il ragazzo sapeva già che quella sera stessa sarebbe riuscito a condurla nelle sue stanze, e le sorrise quasi gentile per accattivarsi le sue simpatie, avvicinandosi pericolosamente a lei; vedendo che Zahel era interessato solo alla ragazzetta, le altre donne ripresero il lavoro con un rossore accennato sul viso.
«Potete mandar su la colazione nelle mie stanze? Sai già cosa mi piace, a meno che non vi siate dimenticate» le sussurrò Zahel, vedendo gli occhi che le si spalancavano; l’odore della paura e del desiderio lo stimolarono, e il ragazzo sorrise appena mentre lei arrossiva.
«S-Sì» balbettò.
«Mi porti tutto tu?» chiese, avvicinandosi ancora di più; la differenza di altezza era notevole, così lui si chinò appena sulla ragazza e i capelli bianchi gli scivolarono da sopra la spalla, creando una cortina fra loro e le donne che continuavano ad impastare e infornare il pane. La ragazza non riusciva a distogliere lo sguardo, ma nemmeno a parlare, per cui si limitò ad annuire. Zahel poteva quasi sentire il calore delle sue guance sulla punta del naso, e sorrise appena, soddisfatto. «Ne sarei davvero felice» completò, e lei chiuse gli occhi per spezzare quell’incanto che si era creato fra loro.
In un solo fluido gesto, il ragazzo si sollevò dal viso della domestica e si voltò, uscendo dalla cucina e dirigendosi al secondo piano, dove erano situate la maggioranza delle stanze da notte del castello: lì erano collocati infatti tutti gli ospiti del Conte, della Contessa e della Contessina, che cambiavano ogni tre mesi circa; lui era lì da ben sei mesi, nonostante avesse appena passato parecchio tempo fuori, e a quanto pare doveva rimanerci per altro, indeterminato, tempo.
Quando entrò nelle sue stanze non poté fare a meno di notare con piacere che nessuno vi era entrato, nemmeno per pulire, proprio come da lui ordinato: tutto era coperto da un sottile strato di polvere, e nessuna impronta lo segnava tranne le sue, non appena era entrato; si dedicò a mettere da parte le armi che indossava in quel momento, su dei sostegni che gli aveva procurato la Contessina, dopodiché aspettò il cibo. Dopo nemmeno un quarto d’ora un timido bussare da una porta dietro un arazzo, lì dove spuntavano i corridoi dei servi, gli annunciò l’arrivo della domestica; Zahel scostò in fretta il tappeto dal muro ed aprì con espressione impassibile, mentre la servetta gli passava un vassoio con dei piatti da portata coperti.
«Vieni anche stasera» le ordinò, inclinando il capo di lato mentre gli occhi la osservavano divertiti. Lei arrossì ed annuì, dileguandosi nei meandri del castello.
Le ore seguenti trascorsero pigre, mentre Zahel puliva le proprie armi e sbocconcellava le sue portate preferite: striscioline di carne di cinghiale scottate, doppie circa due dita e lunghe più di un palmo, e macinato crudo di cervo immerso nel latte. Non riusciva a farne a meno: la cacciagione, meglio se cruda, gli migliorava la giornata.
Una volta finite sia le portate che la pulizia di pugnali e spada, suonò la campanella dei servi e attese: dalla porta dietro l’arazzo spuntò un viso sottile, di una ragazzina che poteva avere non più di dodici anni; i suoi capelli scintillavano dorati sotto il sole e i suoi occhi viola bruciavano di paura.
«Di’ a chi si occupa della pulizia che possono venire. Non toccate le armi, o saranno loro a toccare voi, una volta tornato» disse, freddo, e la ragazzina annuì terrorizzata e sparì dietro l’arazzo. Zahel restò qualche istante ad osservare la figura che vi era intessuta: una battaglia campale, forse realmente avvenuta o forse no, in cui si distinguevano volti noti della nobiltà dell’epoca: in mezzo c’era il Conte, visibilmente più giovane ed attraente, che conduceva l’esercito contro il battaglione nemico. Il ragazzo distolse lo sguardo, divertito ed annoiato da quell’autocelebrazione pomposa, ed uscì dalla stanza, dirigendosi in biblioteca: era lì che passava la maggior parte del tempo che non impiegava a lavorare; aveva imparato a leggere quella lingua solo da poco più di tre mesi, ma da allora aveva cercato di capire quanto più possibile la storia di quel luogo e le sue usanze, per non destare alcun sospetto sulla propria reale provenienza.
«Capitano Zahel. Quale onore» lo accolse il bibliotecario, con una smorfia infastidita. I suoi occhi arancioni guizzarono divertiti sulla tunica bianca della finta Guardia, sollevando un dito. «Ha una goccia di sangue proprio qui» gliela indicò, sparendo poi fra gli scaffali prima che il ragazzo potesse sollevare lo sguardo feroce e gelido su di lui. Prima o poi l’assassino gli avrebbe fatto prendere qualche bello spavento, ma quell’oggi era fin troppo annoiato per prendersi la briga di dargli retta; per cui, si diresse a grandi falcate verso il centro della biblioteca, lì dove erano sistemati i tavoli per lo studio.
Da quel che poteva vedere, era tutto come doveva essere: le pile di libri che aveva lasciato lì da almeno tre settimane si trovavano ancora lì, e non importava che fosse stato via per tutto quel tempo.
«Finalmente sei tornato» osservò una voce delicata.
«Kaylin» mormorò Zahel, senza voltarsi; nemmeno l’ombra di un sorriso gli illuminò l’espressione, mentre osservava tutti i libri che lo attendevano, fra cui ce n’erano alcuni lasciati a metà. «Mi hai riconosciuto?» chiese, voltandosi verso la fonte della voce: una ragazza minuta e bassa era seduta sull’orlo del tavolo, e guardava nella sua direzione; ma non lo vedeva davvero: i suoi occhi, lilla e con la pupilla sbiadita, erano completamente ciechi… da quanto ne sapeva Zahel, era nata così, e questo le aveva dato un incredibile udito.
«Sì, naturalmente. I tuoi passi lunghi e felini sono inconfondibili» ridacchiò, e Zahel alzò gli occhi al cielo. La donna si sistemò dietro un orecchio i capelli neri tagliati corti sul collo, mentre si mordeva il labbro. «La tua missione ha avuto i frutti sperati…?».
«Non esattamente».
«Sei stato via quasi un mese».
«In questo posto i mesi durano poco» commentò lui, senza cambiare inflessione di voce.
«Quando troverò il modo di farti adottare un tono diverso da quello freddo o annoiato?» ridacchiò lei. «Secondo me hai qualche problema alle corde vocali».
«Che ne sai tu, di cosa sono le corde vocali?» chiese lui, inarcando un sopracciglio e dando una sfogliata distratta alle pagine di un libro di geografia politica.
«Rymeth mi racconta molte cose! È molto colto».
«Mh. Dovresti andarci a letto» cercò di levarsi di torno la ragazza, per potersene andare: non ce la faceva a studiare, non in quel giorno di noia deprimente. Si voltò verso l’uscita, ma un dito sul petto lo fermò e Zahel si irrigidì, scostandosi all’istante.
«No, caro mio, perché io non mi porto a letto qualunque cosa respiri come fai tu» ribatté il bibliotecario, stringendo gli occhi in sua direzione. L’elfo lo fissò, infastidito da quel pur leggero contatto non richiesto, e continuò a guardarlo impassibile; poi un sorrisetto gli balenò sul viso.
«Immagino sia per questo che sei sempre così agitato, non è vero?» chiese, in tono sottile, e Kaylin ridacchiò.
«Rymeth è un Etrays, e tutti gli Etrays sono così… è una intera razza di deprivati, allora?».
«Meglio essere deprivati che depravati» commentò, dall’altro capo della biblioteca, una voce femminile. Rymeth e Kaylin a quel punto ridevano a crepapelle, e Zahel alzò gli occhi al cielo voltandosi verso la direzione da cui era partita la seconda voce femminile, senza però scorgere nessuno.
«Beatriz, penso che tu faccia parte della seconda categoria… perché mai dovresti parlare?» disse, a voce alta, e Kaylin sorrise accondiscendente.
«Certamente, ma mai quanto te, caro mio» ridacchiò la voce, acquietandosi, e Rymeth si passò una mano fra i capelli rosso scuro, mentre gli occhi arancioni balenavano divertiti.
«Che mortorio» grugnì Zahel. «Ma perché vi siete riuniti tutti qui? Dov’è Beatriz?».
«In fondo alla biblioteca, come sempre... E sai, siamo tutti qui perché sei tornato dopo quasi un mese. Non pensavi ci avrebbe fatto piacere…» Kaylin sorrise appena e Zahel ghignò.
«…vedermi?».
«Che spiritoso» ribatté Rymeth. «Dannazione, Kay, ma quand’è che mandi tuo fratello a picchiare questo pallone gonfiato? È terribile, non fa altro che sfottere».
La ragazza ridacchiò, mimando il gesto di un bacio.
«Domani mattina sarà più accomodante… dico bene, Zahel? Stasera finalmente darà da mangiare al suo animaletto» ammiccò, e Zahel si voltò verso Rymeth.
«Perché diavolo non ti porti a letto Kaylin, dato che siete così affiatati?» ringhiò, e l’Etrays alzò le mani, con un sorriso canzonatorio.
«Calma i bollenti spiriti, amico. Stiamo scherzando».
«Beatriz? Dov’è?» ribatté Zahel, freddo, praticamente ignorando il discorso precedente. Il giovane si strinse nelle spalle e gli fece cenno di seguirlo: oltrepassarono Kaylin, che rimase appoggiata al tavolo con l’ombra di un sorriso sulle labbra, e si immersero nell’immensa polverosità della biblioteca: la luce penetrava dagli ampi finestroni dorata, quasi magica, ma gli angusti corridoi fra gli scaffali risultavano ugualmente in penombra, dando difficoltà al bibliotecario, che si sistemò un paio di lenti da vista sugli occhi.
«Sono… occhiali?» chiese Zahel, impassibile, e Rymeth si voltò impercettibilmente verso di lui.
«Com’è che li hai chiamati? Suona bene! Glassis?» ripeté male il suono e Zahel fece una smorfia.
«Non importa».
«Un giorno mi racconterai della tua storia, della tua lingua, e la scriverò in un libro» disse, svoltando e seguendo il muro con le dita.
«Contaci» assicurò l’assassino, sarcastico. Rymeth canticchiò fra sé un motivetto stonato e Zahel strinse i denti, socchiudendo gli occhi. «Beatriz, hai visite… il “Capitano” è tornato» l’Etrays fece una smorfia, affacciandosi all’arco che conduceva in una nicchia della biblioteca: tale rientranza era arredata poveramente, con dei tavoli che correvano lungo tutto il perimetro della piccola saletta, su cui erano impilati ordinatamente documenti, libri e varie pergamene; su un tavolo giacevano i resti di una colazione e un pranzo ancora intatto, mentre la donna dagli ondulati capelli rosa analizzava attentamente un foglio di sottile pergamena, con dietro la luce di una candela.
«Zahel, finalmente» lo accolse la donna, senza guardarlo. «Rymeth, puoi andare. Ritorna alle tue mansioni» congedò il bibliotecario, dirigendogli un’occhiata fredda con gli occhi azzurri. Il ragazzo alzò ancora le mani e sorrise, sparendo nei meandri della biblioteca.
«Beatriz» la salutò l’assassino, impassibile, osservandola mentre con gli occhi socchiusi decifrava i glifi in controluce.
Beatriz aveva lineamenti dolci e smussati, come se il suo viso non fosse mai andato oltre la prima adolescenza; il suo corpo, tuttavia, non era stato del tutto d’accordo, per cui la donna si ritrovava con seducenti curve a tornire la sua corporatura altrimenti esile… non a caso aveva tanto successo con gli uomini, e non faceva che sottolinearlo con i suoi vestiti fin troppo scollati per la morale mamiana. I capelli rosa, ondulati, le cadevano in morbide volute lungo le spalle e sul seno, sciolti, come fosse una sirena, e assumevano sfumature arancio-rossastre alla luce della candela; gli occhi azzurri sembravano quieti, acuendo la sensazione di guardare un viso di ragazzina. Zahel ne apprezzò le forme con un’ultima occhiata, poi si schiarì nuovamente la voce.
«Non devo fare rapporto?».
«So già la maggior parte dei dettagli. Dimentichi continuamente che ho tantissimi topolini che mi riferiscono tutto ciò che accade in lungo e in largo per il Regno» mormorò la donna, sovrappensiero, e Zahel incrociò le braccia, appoggiandosi al limite curvo dell’arco.
«I tuoi topolini un giorno me li mangerò» mormorò, impassibile, e Beatriz fece balenare un sorriso accattivante sul suo viso dalla pelle olivastra, bruciando il foglio con calma.
«Oh, Zahel. Tipico degli americani minacciare continuamente» ribatté divertita, mentre Zahel la osservava.
«Dammi qualcosa da fare, altrimenti impazzisco» Zahel contrasse una guancia, infastidito ed annoiato, e Beatriz si soffermò con gli occhi azzurri su di lui, guardandolo fisso come se si chiedesse quale ingrato incarico affidargli, poi gli sorrise con malizia.
«Sì, ho qualcosa da darti. Sono arrivati tre stranieri in città… non-umani, si mormora. Due adulti ed un bambino, forse una famiglia; ignoro da dove vengano, perché nessuno li ha visti entrare: non hanno parlato con nessuno se non per chiedere informazioni, girano a capo coperto, con abiti anonimi. Vai e portali qui, se necessario. Accertati che non siano Ribelli… con delicatezza» Beatriz lasciò balenare lo sguardo, mentre Zahel la guardava attento.
«E se lo sono?» chiese, mellifluo, e Beatriz sorrise altrettanto dolcemente.
«Uccidili».
 
❦❦❦
 
mezzodì del 9 Gjorna 684 d.C.
Zahel si infilò oltre il muro che separava il palazzo dei Conti dal resto della città: era situato sulla collina ed il borgo era cresciuto nei secoli attorno ad esso, andando a costituire ben tre cinte murarie, delle quali due erano interne. Le strade erano affollate, come sempre la mattina, ma la folla era quieta e composta perlopiù di studenti e dei loro maestri, oltre che di mercanti che richiamavano l’attenzione delle massaie. L’assassino ignorò la gente che si scostava al suo passaggio: indossava ancora la tunica bianca con il tulipano rosso, con sopra il mantello azzurro che lo identificava come un capitano delle Guardie, e tutti evitavano il suo sguardo con rispetto.
Beatriz gli aveva riferito che gli stranieri avevano girato per almeno tre o quattro giorni in città, chiedendo notizie ed alloggiando in locande diverse ogni notte, forse per spostarsi in tutto il borgo; l’ultima a cui avevano alloggiato era la Quinta Serenata, nella strada principale dell’ala est della città, quella dedicata al distretto alimentare. Beatriz sosteneva che i suoi topolini suggerivano di andare nella zona corrispondente al Lago Amad, a nord est, e così lui aveva fatto: ad ora di pranzo sentiva l’irresistibile impulso di affondare i denti in un bambino che lo tormentava chiedendogli l’elemosina, per cui lo scostò con malagrazia, strattonandolo e facendogli balenare i denti ad un soffio dal viso, in un ringhio a stento trattenuto, ed entrò in una locanda lì vicino con espressione fredda, come se non fosse successo nulla.
Sentì il bimbo scappare piagnucolando e adocchiò un altro ragazzino seduto su una botte, in un angolino della locanda; quest’ultimo ammiccò in sua direzione: era un topolino. Gli occhi del dodicenne balenarono e guizzarono verso il fondo della sala, che era fumosa e colma di odore di sudore, pergamena e dell’odore di olio bruciato delle lampade: non era ancora stato servito il cibo, ma un odore di pesce, miele e spezie proveniva dalle cucine, così Zahel si diresse verso il fondo della sala, ignorando il topolino che lo guardava divertito, e prese posto ad un tavolo occupato da tre figure incappucciate.
«La sala è tutta occupata, disturbo?» chiese, infastidito persino dal fatto che dovesse fingersi gentile. Una delle persone incappucciate si irrigidì all’istante, ma rispose freddamente, con voce maschile:
«Fa’ con comodo».
La figura accanto a lui tamburellò una mano sul tavolo, e Zahel osservò le dita affusolate e scure di quella che sembrava una ragazza; l’assassino incrociò gli occhi con lei, scorgendoli rosa e brillanti… un’altra non-umana? Le fece un sorriso sottile e sinistro.
«Mai visti qui… siete in visita?» si informò, con cordialità che non possedeva realmente, e fece il possibile per nascondere il fatto che indossava una tunica bianca con il tulipano, sondandoli con gli occhi impassibili.
«Sei una Guardia?» si informò infatti il ragazzo a volto coperto, con voce fredda, e Zahel non rispose se non con un breve sorriso.
«Dipende da chi lo vuole sapere» mormorò, rilassato, pronto a scattare in caso di guai.
«Se lo sei, forse potresti aiutarci…» aggiunse la ragazza, con voce forte ma vellutata, parlando dolcemente con un accento sconosciuto. Zahel la sondò e inclinò il capo di lato, riflettendo sulla richiesta: non era una vera Guardia, per cui se volevano denunciargli qualcosa lui non era propriamente la persona adatta… Si ritrovò ad annuire suo malgrado, mentre una schiava portava al tavolo tre scodelle di zuppa d’anguilla e tre boccali di birra.
«Cerchiamo informazioni riguardo…» iniziò il ragazzo, ma il bambino incappucciato gli tirò il mantello per farlo chinare, interrompendolo: Zahel fissò impassibile la manina verde del non-umano che bisbigliava qualcosa sotto il cappuccio del ragazzo, mentre gli occhi rosa di lei non si staccavano dai suoi capelli bianchi.
«Non ho esattamente tutto il giorno. Sono stato mandato a verificare che voi non siate Ribelli alla Corona» Zahel mise la mano sull’elsa della daga, pronto a scattare, ma il ragazzo rise sommessamente e scosse la testa, deludendo le aspettative di sangue ed azione di Zahel.
«No, decisamente non siamo Ribelli. Gradiremmo conferire con il… capo? di questa contea» tentò il ragazzo, e Zahel alzò gli occhi al cielo.
«Dai, ragazzo, lo sanno anche i bambini che si chiama “conte”» osservò, annoiato, e il ragazzo strinse i pugni irritato.
«…gradiremmo conferire con il Conte».
«Siete particolarmente fortunati, siete capitati ad Alya per caso?» li derise Zahel, ghignando di gusto, mentre il bambino tamburellava le dita verdi e vagamente appuntite sul tavolo rovinato.
«Diciamo così» il ragazzo rimase vago, e Zahel poggiò la schiena contro la parete, osservando quella strana compagnia di non-umani… anche se il ragazzo, fino a quel momento, non sembrava avere nulla di strano a parte l’accento esotico.
«La città è in allerta, negli ultimi giorni, per via della Febbre Blu che viene dal sud. La portano i non-umani, quindi è strano che siate riusciti ad entrare senza tanti problemi… ammesso che voi siate entrati dalle porte principali, s’intende» inclinò il capo di lato, e li fissò uno ad uno. «Direi che ci sono tutti gli estremi perché voi siate portati dal Conte, o direttamente in gattabuia per…» aveva detto quella parola in inglese, anche se non aveva idea del modo in cui se n’era accorto. Alzò gli occhi al cielo, mentre il ragazzo e il bambino si guardavano straniti. «…prigione. Ci sono gli estremi perché siate messi in prigione, dato che vi siete intrufolati in città senza passare per le Guardie» disse freddamente, dopodiché storse la bocca. «I vostri nomi?».
Ci fu qualche momento di silenzio, forse incertezza: la ragazza non si presentò, il bambino si agitò, ma il ragazzo parve risolversi come dovesse confessarsi. Quando la melodrammatica pausa fu finita – Zahel ebbe la tentazione di guardarsi il polso per vedere che ore erano, ma quel gesto non avrebbe avuto il minimo senso in quel contesto – il ragazzo si calò il cappuccio, rivelando dei capelli azzurro-lilla e degli occhi ambrati e penetranti, divertiti.
«Sono Aykir Ayrywae e no, non siamo arrivati passando per le porte. Portaci dal Conte o chi per lui, abbiamo una richiesta da sottoporgli».
   
 
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