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Autore: Harshlove    01/09/2018    0 recensioni
Dal testo: « Non è mai stato esattamente facile essere me. Ma suppongo che chiunque potrebbe affermare qualcosa del genere. Chiunque o quasi chiunque. È sempre parso che, dal mio primo istante di vita, gli altri respirassero con più facilità. Una vocina nella mia testa mi ha sempre sussurrato, melliflua, che sarebbe potuta andare meglio "se". »
Kathleen Hamilton è poco più di una ragazzina ed il mondo è qualcosa che percepisce come fortemente estraneo. Dopo diciassette anni di placida monotonia, il mondo che le sembrava apparentemente grigio e vuoto, assume toni rossastri e viscosi come il sangue. Un incontro le cambierà la vita... o la morte.
Perché ci si trasforma in vampiri? Qual è "l'apeiron" del morbo del vampiro? Chi fu il primo? E i primi vampiri, quanto erano diversi da quelli conosciuti a Forks?
Genere: Fantasy, Horror, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Primo
Quotidianità interrotta
 
Non è mai stato esattamente facile essere me. Ma suppongo che chiunque potrebbe affermare qualcosa del genere. Chiunque o quasi chiunque. È sempre parso che, dal mio primo istante di vita, gli altri respirassero con più facilità. Una vocina nella mia testa mi ha sempre sussurrato, melliflua, che sarebbe potuta andare meglio “se”. 
  Uno di quei “se” era proprio la mia nascita: nacqui con un certo anticipo – e quando ho detto che gli altri respiravano con più facilità, non scherzavo. Sette mesi e mezzo di gravidanza per mia madre, due chili di essere umano, per quanto mi riguardava. Uscii dal suo pancione col cesareo, malauguratamente in apnea: i dottori se ne accorsero subito perché non piangevo. E già da lì, possiamo dire che il mio avvenire fosse segnato. Le stranezze sono continuate nel tempo: da bambina, quando subivo un torto, era mia madre a trovarmi nascosta in qualche armadio di casa. Nel momento in cui mi veniva domandato perché fossi andata a nascondermi lì, mi rifiutavo categoricamente di dare spiegazioni; anzi, continuavo a fissare insistentemente la figura che cercava di estorcermi informazioni, con le guance rigate d’argento. Attualmente, la situazione andava sempre peggiorando.
Sentii la sveglia sul comodino suonare violentemente. Con un solo occhio aperto esaminai l’orario sul display a sfondo nero e scritta rossa luminosa. Senza alcuna sorpresa, erano le sette e venti. Molti sostenevano che nella quotidianità vi era un sopito fascino. Per me, la ripetizione angosciante dei giorni, cadenzati ritmicamente da ore e date, provocava solo fitte allo stomaco. Mi guardai per un attimo intorno. La luce tenue e cupa che filtrava dalle tende rendeva la mia stanza costantemente male illuminata. Questo era causato dai temporali che la mia terra natale offriva, Dystalia Hill.
Mi trascinai fuori dalle lenzuola con una flemma incredibile, mentre il suono continuava a frantumarmi i timpani. Pigiai il tasto sulla sveglia per farla smettere di emettere quel rumore ossessivo e tirai un sospiro profondo, a pieni polmoni. Arrivata in bagno, mi guardai allo specchio. Ogni tratto sul mio viso mi ricordava di quanto fossi incresciosamente anonima e spenta. Ero debole, eccessivamente fragile, troppo bassa e troppo innocua. 
I miei capelli erano fili sottili di color paglia. Solo che anche per quanto riguardava la sfumatura, c’era un che di smunto. Erano foglie autunnali calpestate, a mio avviso. Lunghi ed ondulati, erano l’unica vanità che coltivavo. Ma anche quella necessità era sfiorita con il passare del tempo – avrei tanto voluto passare ad un taglio più corto e comodo. L’unica cosa che mi tratteneva era mia madre. Sapevo le piacessero, ed ero stata educata ad avere riguardo nei loro confronti. I miei occhi ugualmente chiari, di un castano così flebile da sembrare giallo alla luce del sole, mi fissavano di rimando nello specchio. Avrei dovuto fare una precisazione, però: un solo occhio era interamente color nocciola. Oltre alla peculiarità di essere rimasta in vita pur avendo avuto solo sette mesi di formazione all’interno della placenta, presentavo una “differenza congenita” che non mi provocava problemi alla vista, raro quanto perso su una persona come la sottoscritta. Anche se mi aveva fatto acquisire il soprannome di “tizia con gli occhi diversi”. Fantastica, l’eterocromia settoriale. 
  Il mio occhio destro aveva l’iride diviso, verticalmente ma senza alcuna precisione, da due colori differenti: nocciola e celeste chiarissimo, in due metà precise. Anche la mia pelle era chiara, un po’ come tutto il resto. Il mio pallore malaticcio, se non altro, non era un qualcosa fuori dalla norma. Tutti a Dystalia Hill accusavano generazioni e generazioni di freddo e cieli coperti. La pelle scura apparteneva a chi se la poteva permettere. Forse non tutti siamo destinati a possedere quello che vogliamo, o forse non tutti siamo destinati a farci piacere quello che abbiamo.
Mi feci una doccia alla svelta ed indossai i soliti vestiti che mi facevano sembrare una spacciatrice del sobborgo. La camicia di flanella a scacchi intrecciati bordeaux e ocra, con sotto una delle maglie che papà si trascinava dall’adolescenza, quella dei The Who. Infilai il primo paio di jeans che trovai e anche per le scarpe attuai la stessa politica. Applicai un po’ di mascara super allungante ed uscii dal bagno. Mamma non approvava assolutamente quel modo di vestirmi, però a papà piaceva. A causa sua, i The Who finii per ascoltarli anch’io. Non che qualcuno si sarebbe fatto il problema per come mi vestivo, comunque. Era strano come lo sguardo di qualsiasi persona mi trapassasse come se fossi invisibile, soprattutto nel contesto scolastico, e non indugiasse granché prima di rivolgersi altrove. 
Uscita dal bagno incrociai mio padre che, di buon umore, si sistemava la cravatta per andare a lavoro. Ammiccò; era giovanile persino nel modo di porsi. Lavorava in una fabbrica edile, ma stava ai piani alti. Dirigeva e basta, e la mia informazione circa le sue mansioni si fermava lì. A lui non piaceva parlare del suo lavoro perché era fortemente convinto che fosse immeritato; ci era finito solo perché nonno Joseph, suo suocero, che non ho mai conosciuto, era un pesce grosso in quel settore e aveva dato una ‘spintarella’ a papà. Mia madre invece ha sempre fatto la docente di lettere alle scuole medie. Ogni mattina si alzava prima di me e spariva di casa altrettanto presto. Questo mi ha costretta ad avere più babysitter che amiche. Avevo avuto una migliore amica, in verità – Taylor Grant – ma si era trasferita anni fa in una città lontana da qui. Ci conoscevamo praticamente dall’infanzia, ed era una delle poche persone con le quali ero andata oltre il “brutto tempo oggi, eh?”. Dopo qualche messaggino e qualche chiamata rifiutata, aveva smesso di farsi sentire definitivamente. Naturalmente ci ero rimasta di merda, ma ad una certa età inizi a comprendere che tutto è temporaneo e destinato all’entropia. 
Andai in cucina a farmi un caffè. Da un annetto mia madre si era rassegnata a passare alla tecnologia, ed improvvisamente la nostra umile dimora era stata reinventata da aggeggi di ultima generazione, per semplificarle la vita ed introdurla nello sfavillante ventunesimo secolo. Dalla caffettiera eravamo passati a quelle piccole macchine del caffè ‘automatiche’, che basta premere una sequenza di pulsanti per avere tutto esattamente come desideri. 
  Mi sedetti al tavolo, sorseggiando dalla tazzina e osservando distrattamente le pareti celesti della cucina (un vano tentativo di renderlo un luogo piacevole o mentalmente attivo? L’azzurro stimola i neuroni, dopotutto). I mobili erano solo un’accozzaglia male assortita di legno e metallo – vecchio e nuovo. Era tutto così vuoto ma… pieno; penso fosse dovuto al fatto che mia madre a casa non ci viveva quasi, e papà preferiva occuparsi del giardino o dell’orto anziché pensare all’arredamento. Era comunque un posticino funzionale… ma senza personalità. Come me, insomma.
Quando papà arrivò in cucina, lo sentii cantare una canzone che non conoscevo, probabilmente anch’essa appartenente ad un gruppo nato prima di entrambi. 
“Dovresti provare a fare una colazione decente”, mi fece bonario, avvicinatosi anche lui alla macchina del caffè. Lui ci avrebbe poi aggiunto del latte. “Insomma, hai tante alternative. Ho capito che non vuoi usare i fornelli, ma…”. Fissai per un attimo la sua figura che mi dava le spalle, intenta ad armeggiare. Sembrava davvero così innocuo e tenero che se non fosse stato mio padre mi sarei azzardata ad abbracciarlo. O se fosse stato un cane, ad esempio. Si girò verso di me, sorridendomi.
“Buongiorno. Mi ripeti le stesse cose da… quanto? Peraltro, in via totalmente teorica, i derivati animali ci portano alla tomba, papà”. Alzai gli occhi al cielo.
“Sai, penso sia stato il caffè a renderti così acida. Nel tuo caso hai iniziato ad assumerlo troppo precocemente”.
“E tu sei troppo divertente per essere mio padre. Suppongo allora di essere stata adottata”, replicai, stizzita ed ironica.
“Guarda che”, iniziò a fare lui, sedendosi di fronte a me ridacchiando e gli occhi gentili che mi fissavano di rimando, “sono troppo giovane. Tu hai adottato me, semmai”. Si toccò la barbetta fitta ma corta, con qualche sfumatura di bianco che iniziava a vedersi qua e là.
Inizialmente lo guardai esasperata, poi guardandolo meglio in faccia iniziai a sghignazzare. Era impossibile non provare affetto per lui. “D’accordo, è il momento di mettere fine a questa conversazione”, mi alzai, portando automaticamente con me ciò che avevo sporcato per riversarlo nel lavandino.
  “Sai dirmi che ore sono?”.
  “Uhm”, controllò il suo orologio da polso “beh, tardino. Certo che dovresti comprarti anche tu un orologio. Sono le otto e venticinque, tesoro”.
Bisbigliai un “cazzo” e volai al piano di sopra per prendere giaccone e zaino. Riscesa mi fiondai verso la porta, ma papà mi bloccò giusto in tempo per porgermi una terrificante custodia fucsia per occhiali da vista. Sì, ero anche una quattrocchi. Lo ringraziai con uno sguardo docile, annuendo, e sparii oltre la porta. 
  Uscii di casa, coprendomi il capo con il cappuccio del giubbotto e sciaguattando nell’acqua piovana.
Purtroppo noi abitavamo nel pieno centro della città, peraltro vicino alla mia scuola. E ci andavo a piedi, pure se avesse grandinato. Quale gioia. 
  Dopo un vicolo angusto, arrivai di fronte all’edificio… meno in ritardo del solito, ma comunque non in orario. Forse perché i My Chemical Romance nelle mie orecchie mi avevano dato la carica giusta. Usavo la strada secondaria poiché non la conosceva nessuno. Potevo ascoltare indisturbatamente la musica con gli auricolari senza temere che un automobilista mi investisse o che qualche coglione della mia scuola iniziasse ad importunarmi con la sua presenza. Anche se malauguratamente potevi trovare o gente ubriaca o gente che si era iniettata chissà cosa la sera precedente ed era collassata lì; se non altro, incontri del genere accadevano molto di rado.
  Era un grande pezzo di mattoni e calce, dimesso ma non troppo. I colori si rifacevano al cielo sotto il quale continuava a reggersi in piedi e sembrava proprio necessaria una messa a nuovo. Dietro la struttura c’erano anche i parcheggi per gli studenti, recintati esattamente come il liceo.
  Entrai di corsa dal cancello provvidenzialmente socchiuso e aprii con infinita calma la porta d’ingresso, per non far rumore. Notai con un vago malessere che i corridoi erano deserti, e che probabilmente erano tutti nelle aule.
  Raggiunsi l’aula con una smorfia, e aprii la porta con innaturale compostezza. Cercavo di mantenerne almeno un briciolo. Sapevo che Hector Kean, essere umano con una vita sociale uguale o addirittura minore della mia, stava aspettando solo me. Questo lo rendeva piuttosto pezzo di merda, ad essere onesti.
Ma stranamente non c’era, e quindi mi sedetti al mio banco, non facendo caso agli sguardi dei presenti che mi perforavano la schiena. Strano, davvero. 
  C’era un innaturale silenzio. Non volava una mosca anche se non c’era nessuno a imporlo. Solitamente nell’aula di inglese c’era un putiferio inimmaginabile, proprio perché a nessuno fregava di Kean finché non passava alle minacce. Alcuni ridacchiavano sommessamente, altri guardavano dietro di me.
  “Hm-hm”.
  Mi girai anch’io di spalle, terrificata. Avevo già capito a quel punto. 
  Il professor Kean aveva un’espressione falsamente amabile, così teatrale da farmi desiderare di prenderlo a pugni sul naso. Stava lì, impalato al centro della classe, accompagnato da un ragazzo affianco che non avevo mai visto. Il mio fare di tagliare la realtà fuori mi aveva fatto da pannello oscuro, cosicché non avevo neanche notato la figura di quei due alzati. Ero davvero così fuori dal mondo?
  “Ritardo, signorina Hamilton?”, chiese Mr. Kean, con un labbro arricciato. 
  Cercai di non rispondergli a tono, altrimenti potevo mandare a benedire tutto il mio curriculum scolastico.
  “Mi scusi”, mormorai a mezza voce. Abbassai lo sguardo, preparandomi mentalmente alla successiva violenza psicologica che non si sarebbe mantenuto dall’esprimere.
  “Non si preoccupi. Magari un giorno riuscirà in qualcosa, mia dolce fanciulla”. Gli insulti che mi vennero in mente a quel punto erano dovutamente censurati persino dalle mie sinapsi. Anche perché molti riguardavano sua madre e lo sterco, e non necessariamente come due argomenti separati.
  Una volta segnato sul registro il mio ritardo, fece sedere il tipo che poco fa era di fianco a lui al banco vicino al mio. La prima fila era il mio regno: non avevo amici, quindi nessuno ci teneva a albergare dove i professori ti sgamavano molto facilmente anche solo per un bigliettino nei compiti in classe.
  “Come dicevo prima della tua interruzione, signorina Hamilton”, iniziò Mr. Kean con una grande dose di veleno, “il signore qui presente, Bentley Lloyd, è appena arrivato nella nostra scuola. Spero che tutti voi lo trattiate come merita. E pregherei la signorina Hamilton di non mischiargli la mania di essere continuamente in ritardo. Adesso possiamo iniziare la lezione”.
  Mentre prendevo il libro di letteratura, con la a dell’occhio vidi che il ragazzo nuovo, Bentley, che invece di rivolgere lo sguardo verso i molteplici ragazzi che lo stavano fissando, osservava attentamente me. Il mio primo pensiero fu qualcosa del tipo: spero tu non stia pensando che sono un caso perso, perché lo sono.
Ma con una fugace occhiata mi resi conto che non ero del tutto ammattita. Riportai repentinamente lo sguardo sullo zaino, subito dopo averlo guardato negli occhi. In un solo secondo mi trovai a recepire più dettagli contemporaneamente.
Il ragazzo nuovo era molto più che carino, ma addirittura bello: la mascella squadrata, gli occhi bluastri, il colorito pallido e i capelli color sabbia. Le labbra carnose, pronunciate, di un rosa intenso che risaltava sulla  carnagione che su di lui non sembrava per nulla malaticcia, anzi. Era luminoso. Ed io naturalmente non reggevo il confronto. 
Il resto della giornata trascorse come le altre. Ma continuavo a pensare a quel Bentley, l’unica persona che forse, nell’arco di sedici anni, non avevo odiato dal primo sguardo. E questo era il massimo, per me.
   
 
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