Parte
I – Nostoi
Capitolo I.2
Ad Occhi Aperti II
"...
ces rites
barbares, qui créent entre les affiliés des liens à la vie et à
la mort,
flattaient les songes les plus intimes d'un jeune homme
impatient du présent,
incertain de l'avenir, et par là même ouvert aux dieux. Je fus
initié..."
–
Marguerite Yourcenar,
Mémoires d'Hadrien –
*
Tra
la Grande Piana e
le Porte del Cielo, circa vent'anni prima del Tempo del Mito
Era
un figlio del vento e
della steppa.
La
grande piana brulla, senza
limiti o confini – dove gli orizzonti sono solo laddove l'occhio
può arrivare e
si rincorrono al ritmo forsennato di un galoppo leggero come
l'etere, pesante
come il cielo –, l'aveva cullato alla sua nenia di zoccoli che
alzano la terra
sottile come cenere, di aria che sgretola le rocce, di sibili
tra le torri del silenzio.
La grande piana arida, di polvere e di sabbia, che beve tutta
l'acqua,
prosciuga tutto il sangue, l'aveva nutrito nel suo ventre
sterile, che
rigurgita le ossa dei cadaveri e solo i ricordi degli scheletri.
La grande
piana verde, tutta in fiore, pingue di rugiada e di frescure,
che s'insinua
flessuosa fra gli immensi monti, incontrastata, profonda come
una ferita,
gentile come una promessa, cortigiana imperiosa... la grande
piana verde, tutta
in fiore, lo aveva temprato all'incudine della tentazione del
riposo; al
martello dell'indicibile bellezza di paesaggi mai violati –
altera, imponente,
vera bellezza sempre inquietante –, lo aveva fatto diventare
quasi un uomo, la
grande piana verde, flessuosa, tutta in fiore. Però il suo cuore
inquieto e
pellegrino seguiva ancora il moto delle stelle, che lo
chiamavano, sempre più
insistenti, oltre la grande piana; oltre le montagne; oltre il
fiume immenso
che si dipanava, gigante come il mare o un imperatore; oltre...
Era
un figlio del vento e
della steppa. Era il figlio più bello degli arya, che si dicono
nobili.
Ogni
guerriero gli era stato
madre, ogni sapiente padre, i cavalli ed i falchi suoi cugini e
fratelli, senza
distinzione – questo il costume della sua stirpe di esseri
liberi, di
conquistatori: senza giogo o possesso, senza catene, senza
attaccamento,
danzavano col fuoco; cercavano nell'acqua il segreto della vita,
l'eterno
movimento; battevano la terra col passo incessante degli
esploratori;
nell'aria, ascoltavano i sospiri del futuro, le promesse di ogni
strada nuova,
e le affidavano i caduti ed i segreti, gli anziani consumati dal
ciclo degli
anni, perché li consumasse ancora un poco, acché, ridotti a
niente, trovassero
un facile ritorno. E l'aria, in fondo, è tanto più leggera della
terra: si scosta
più in fretta.
Era
un figlio del vento e
della steppa, un figlio fatto nel grembo delle stelle, dal fuoco
e dalla
sabbia, un figlio battezzato nella pioggia: il più bello e il
più saggio dei
figli degli arya, che si dicono nobili; anche il più
inquieto.
Aveva
corso il mondo noto,
capo a capo, in dorso al suo cavallo: in dorso al suo cavallo
aveva dormito,
aveva sognato; era cresciuto; era diventato quasi un uomo. Ma il
suo cavallo
andava troppo piano; così imparò a correre più forte, veloce
com'è rapido un
pensiero, però mai quanto il costante tremolare che gli
stringeva il cuore – e
che gli sussurrava di cercare, di avanzare ancora, d'andare un
altro poco, un
po' più in là, di non aspettare...
La
grande piana, un giorno,
poi, era finita: s'apriva ancora una distesa sterminata, mille
direzioni da
esplorare, in cui vagare; eppure, i nobili si vollero fermare,
vollero imparare
le opere dei giorni e delle stagioni, vollero coltivare e
costruire. La piana
non esiste, se non ci si può smarrire.
Ma
il loro figlio più forte,
il più saggio e il più bello, di tutti il più inquieto,
apparteneva al vento ed
alla steppa: al vento voleva tornare, e riattraversare la
steppa, inseguire le
stelle, andare col falco a caccia di qualche cosa che non
conosceva, ma che
doveva scoprire – e lì, lì fermo, lì non poteva.
Così,
per settimane, avanti e
indietro, camminò assorto, tra i bordi d'un fazzoletto;
insofferente, su quei
campi pingui che già iniziavano a fruttare; libero come un
prigioniero che non
osa scappare. Il mistero del seme che germoglia non lo
affascinava; la
geometria segreta delle radici nascoste non lo riusciva ancora a
interessare.
Sospeso a mezz'aria in quella fermezza – non più bambino, non
ancora uomo –,
non poteva far altro che attendere l'iniziazione, il segno
temuto ed agognato
di chi sarebbe dovuto diventare, d'un ultimo passaggio da cui
non si sarebbe
potuto svincolare. Gli astri, però, indifferenti ai vezzi del
rituale, quasi si
misero ad urlare: il cielo, forse eterno, non conosce pazienza –
ed anche lui
la doveva ancora imparare.
Parvero
lustri, quelle
settimane: la stasi dell'attesa rende i minuti angusti,
l'inerzia sfiancante.
Consumò il tempo guardando le fiamme; ignorando sguardi che non
poteva – forse
non voleva – ricambiare; danzando solo, con la sciabola e la
spada; parlando
distrattamente al vecchio rapace ch'ormai non osava più volare,
al corsiero
consunto, stanco di galoppare; smaniando lontananze sconosciute,
che gli erano
precluse.
Giunse,
alla fine, la
convocazione – nel buio, quando la notte è scura ma non già
fonda–; rispose con
sollievo e con terrore. Gli Anziani, nobili fra i nobili, non
l'accolsero in
sella, com'era tradizione: sedevano su stuoie intrecciate, un
tetto sulla
testa. Il fuoco non era nudo: cinto di bronzo, stretto nel rame,
li illuminava
come statue di cera vestite a festa.
Lui
non era come loro erano
stati; non era neanche quello che erano diventati. Adesso si
sentiva solamente
soffocare, il petto costretto in un moto d'angoscia: sarebbe
voluto scappare;
avrebbe voluto pregarli di non forzarlo, di lasciarlo andare.
Come in un sogno
sfocato, di quelli che vengono quando se ne va l'aria, carezzò
il pensiero di
fingersi folle, di farsi scacciare.
Lo
accontentarono quasi, non
dové domandare.
"Figlio
dei nostri figli
e dei nostri avi, dono di fine estate, che hai nome Immortale,
tu sei il nostro
figlio più saggio, il più bello, di tutti il più nobile", fu
quella Antica
a parlare, seduta nel mezzo, rugosa e dura come cartapecora, gli
occhi fumosi
non più distratti da luci e colori – quella che nessuno aveva
visto nascere,
quella il cui tempo nessuno avrebbe mai saputo misurare. La sua
voce sembrava
venire dal vuoto, risuonare nel vuoto; sembrava vuoto a sua
volta.
"Quindici primavere sono passate: il tuo falco non lascia il
trespolo,
anche il cavallo è sfiancato; per le valli e per l'immensa
pianura con noi a
lungo hai viaggiato; non più frutto acerbo, sei quasi un uomo,
sei maturato.
Quello che cercavamo, noi l'abbiamo trovato. Ma tu, tu cosa
cerchi, Athanasios
dal cuore inquieto?".
Al
vuoto non si può mentire,
non avrebbe senso neppure provare. Il figlio più bello degli
arya, che si
dicono nobili, era forte, era saggio, fu onesto: "Saggia fra i
Saggi, non
so rispondere, non prima d'averlo trovato. Le stelle mi
chiamano, mi parlano,
ma dicono cose che non capisco. Mi mancano il vento e la steppa;
mi manca il
moto libero del fuoco; mi manca la carezza dell'acqua che tutto
conquista".
Poi
prese fiato; il vuoto
dentro di lei si prese un momento.
"Figlio
dei nobili,
parli dell'aria, dell'acqua, del fuoco, ma sei della terra: tu
sei la sabbia
nel vento; la sabbia che smorza il fuoco; sabbia che intorbida
l'acqua, finché
non si posa. Noi, questo, non possiamo ricordartelo. Non ti
possiamo
iniziare".
Per
lui fu quasi una
liberazione, sentì di nuovo di poter respirare.
"Da
noi hai già imparato
tutto quel che ti potessimo insegnare", continuò lei – una
constatazione.
"La tua cavalcata è lungi da finire. Segui la Via che taglia la
notte,
ritorna indietro, su per i grandi monti: ti aspetta lì chi ti
potrà guidare,
fra i passi dove al Cielo si apre la Terra, ed alla Terra il
Cielo".
Così
fu congedato: né lui, né
lei, né gli altri sprecarono parole; prima d'allontanarsi, li
ringraziò
soltanto con un cenno del capo.
Il
figlio più bello degli
arya, il figlio più forte, ed anche il più saggio, fu loro grato
che
riconoscessero quello che per primo aveva intuito. Non si voltò
indietro.
Chi
nasce senza giogo né
possesso, chi cresce senza attaccamento, non ha bisogno di
prendere commiato:
non ha niente da prendere, niente da lasciare.
S'incamminò
prima che
arrivasse il giorno; non si fermò neanche a salutare il falco ed
il cavallo che
sempre l'avevano accompagnato: forse alla morte – in un'altra
vita – sarebbe
potuto andare insieme a loro; ma, all'iniziazione, ciascuno,
disarmato, va da
solo.
Furono
le stelle, brillanti
contro il nero, a fargli compagnia; lo scortò ancora il cammino
noto,
all'incontrario; la grande piana l'accolse di nuovo, lo lasciò
passare laddove
diventava più sottile, fino a farsi valle, fino alle pendici.
Athanasios corse,
corse come un lampo, corse perché non c'era nessuno a
trattenerlo: ascoltò le
stelle, senza guardarle; non indugiò sulla via del ricordo,
lungo il cammino
che aveva conosciuto; il ventre della piana – cara, crudele,
così tanto buona
–, lo sfiorò appena; s'arrampicò lungo le pareti con una carezza
lieve delle
mani – perché i bambini afferrano le cose, ma i tocchi degli
adulti sono più
fugaci: hanno imparato, ormai, a lasciarle andare.
Salì,
salì ancora, salì
sempre più in alto, fino all'altopiano brullo, desolato, che si
stagliava
osceno contro il cielo, spudorato, come tuffandocisi, come a
caderci dentro;
l'audacia, la bellezza mozzavano il fiato – o forse fu soltanto
la
scalata. Toccò la
vetta assieme al primo
sole.
A
riceverlo trovò solamente
la polvere e la luce, reali quanto quello che dà forma a
un'illusione;
coagulate in grani fluttuanti, quasi una fiamma immota;
evanescenti sul seno
dell'aurora.
"Benvenuto,
giovane
Immortale", disse la polvere, disse la luce, dissero insieme –
facendosi
fanciulla, polvere e luce ancora, vecchio, bambino, fiore, e
cavaliere;
parlando con la voce delle stelle. Per un attimo, Athanasios
credé
d'intravedere il proprio sorriso, sulla propria faccia, come se
si stesse
specchiando sul ciglio dell'acqua che s'increspa; poi fu il
riflesso d'un
raggio di sole; infine ebbe davanti una forma umana, adulta,
femminea, un corpo
ed un viso, niente di speciale.
"Siediti,
ti stavo
aspettando", lo invitò la donna – la luce, la polvere –, con un
garbato
gesto della mano. "Tutti i tuoi sensi si stanno svegliando, ma
ci vuole
tempo, occorre fatica, per venire al mondo: non è una cosa
facile, il
risveglio. Siediti, t'insegnerò ad intendere le stelle e
l'universo che tutti
abbiamo dentro – e che non può morire".
Athanasios
sedette; lei gli
sorrise: "Bene. Adesso chiudi gli occhi: così si vede meglio".
*
Santuario
– Casa
della Vergine Celeste, notte fra il 24 e il 25 ottobre 1986
Regnava,
giù alla Sesta, un
silenzio assordante, sepolcrale; l'aria era greve come in una
tomba – o forse
un mausoleo, ch'è grave anche del peso dell'assenza.
Aveva
capito subito come
sarebbe finita: con una conversazione lunga e complicata che
avrebbe preferito
non dover affrontare e che, in qualunque altro momento, con
chiunque altro,
avrebbe cercato di evitare – magari fuggendosene in Jamir,
rintanandosi nella
propria torre, sbarrando anche la porta che non c'era. Però
sapeva pure che
quella conversazione era ineluttabile, perché lo conosceva, e
conosceva anche i
suoi rituali, le piccole manie che avrebbe continuato a negare
ciecamente, come
ogni evidenza che non gli facesse piacere: nessuno era bravo
quanto Shaka a non
vedere; ma, se Virgo apre gli occhi, non c'è via di scampo,
finché non t'ha
svuotato, finché non ha ottenuto tutto quello che vuole
ottenere.
Invitandosi
– offrendosi –,
s'era quasi illuso che si sarebbero leccati le ferite
vicendevolmente, che si
sarebbero fatti un poco compagnia, poggiati l'uno all'altro,
trascinandosi fino
alla mattina. Dopo, l'avrebbero fatto comunque. Probabilmente.
Virgo,
però, per esser
consolato, esige spiegazioni. E Mu, a Shaka, di spiegazioni, ne
doveva troppe;
ma, se potesse darne, era un'altra storia – certo non voleva.
Shaka
aveva già chiesto,
davanti a tutti, in mezzo alla battaglia; non avrebbe lasciato
cadere la
faccenda: Buddha impaziente, era un segugio, un cane da tartufo,
quando si
metteva qualche cosa in testa. Avrebbe chiesto ancora, se
necessario più
insistentemente: avrebbe chiesto, esatto le sue ragioni, avrebbe
preteso che
fossero buone; dovendo, gliele avrebbe estorte, strappandogliele
coi sensi, una
ad uno.
Mu
non aveva l'animo per
sostenere ancora un altro scontro; però, aveva sempre preso bene
le misure, da
mastro ferraio, con mano da artigiano: sapeva attendere e
osservare.
Sospirò.
Fra quei cuscini
molli, damascati, di fronte al tavolo basso, nell'odore stantio
d'incenso
bruciato ormai da troppe ore, era davvero con le spalle al muro.
Dunque, aveva
aspettato di vedere che tè Shaka avrebbe servito: un Chai
intenso, speziato, il
tè della consolazione, un piccolo lusso, per dimenticare, per
smettere –
soltanto per un sorso – di pensare, perdendosi nel mare sfumato
d'ogni fragile
aroma, di ogni sapore effimero; o una miscela inglese,
Occidentale, amara,
netta, decisa, senza finezze né mezze misure, una domanda che
non si può
ignorare – il suo modo d'avere a che fare con l'esser
preoccupato o l'essere
triste.
Shaka
rientrò, portando il
vassoio: aveva gli occhi chiusi, stretti stretti; più stretta
ancora la presa
delle mani sul bordo del metallo, come se stesse trascinando il
peso del mondo
– come se il mondo fosse di cristallo e, al primo passo falso,
potesse cadere.
Mu si diede del folle, dello stolto, per aver avuto anche un
solo dubbio, una
vana speranza: in quelle due tazze, nel bricco, nella porcellana
tonda e bianca
della teiera grassa, non c'era proprio nulla d'Orientale.
Il
suo tè, Shaka lo beveva
amaro, come ogni altra cosa. Anche stavolta mancavano lo
zucchero e il
cucchiaio; Mu quasi sorrise della dimenticanza, ma forse, questa
sera, era
deliberata, una dichiarazione, forse d'intenti, forse di guerra
– forse
l'intento e la guerra, stanotte, erano la stessa cosa.
L'amaro
calice sia, si disse
rassegnato.
Shaka,
tuttavia, non gli
sedette di fronte, in un interrogatorio. Dispose invece i pezzi
con cura, in
ginocchio, assorto come se stesse recitando una preghiera;
piano, come
preparando la scacchiera per una partita che esitava a giocare:
prima una
stoffa spessa, pesante, intrecciata – a Mu piaceva immaginare
che Shaka, nei
nodi, vedesse i colori con le dita –, a ricoprire il legno; poi
il bricco panciuto,
bollente, col beccuccio già bagnato, brillante d'una goccia di
liquido
irrequieto, che smaniava d'uscire; dunque le tazze sottili,
delicate, posate
sul piattino – ché senza, aveva sempre detto, erano incomplete.
Gli porse la
sua gentilmente, ancora vuota, come un assegno in bianco da
firmare. Scivolò
infine sui cuscini, facendoglisi accanto, venendogli vicino. Il
tè fu servito
con un goccio di latte, al fondo, per ciascuno.
Tacquero
entrambi, immobili
quasi, quasi senza respirare, forse per pochi secondi – niente,
in quella
stanza, segnava il tempo, se non di giorno l'incedere discreto e
pigro d'una
lama di sole –, forse per un pugno di minuti; parvero comunque
essere ore.
Shaka non apriva gli occhi; Mu non riusciva a smettere di
guardare la piega
accigliata fra le sue sopracciglia e l'increspatura dell'acqua
dorata nella
tazza che cullava tra entrambe le mani, senza sollevarla né
portarla alla
bocca. Nessuno osava bere; nessuno sapeva come incominciare.
Ogni
apertura è sempre di
cavallo o di pedone; ma la risposta segna il corso del gioco: la
prima
contromossa lascia intravedere il labirinto che, dopo, porterà a
una
conclusione.
"Perché
non mi hai detto
niente?".
Che
avrei potuto
dire?, avrebbe voluto rispondere Mu, se fosse stato un
po' più ingenuo e non
avesse saputo che in battaglia non si lasciano sguarniti mai la
testa né il
cuore, o che l'attacco è la difesa migliore – ed ogni colpo deve
andare a segno
e fare male. Non ebbe neppure bisogno di mentire: "Io sospettavo
solo. E
un simile sospetto è già empio abbastanza da rendere chiunque un
traditore". Piccola concessione – un cucchiaino di misericordia
–, si
risparmiò di dirgli neanche di te mi potevo fidare; era
un'omissione così
lampante, che finanche Shaka la poteva vedere. Tanto valeva
colpire ed
affondare: "Ma tu, Virgo, che conosci gli animi e soppesi i
cuori... Tu
come hai potuto, per anni, non sapere?".
A
Virgo, adesso, la tazza
tremava tra le mani, leggermente – come si fosse scottato, senza
bere, e stesse
cercando di non lasciarla cadere, di trattenerla nonostante il
dolore e un moto
di stupore; come se, anche per un attimo soltanto, avesse
dimenticato chi la
stesse reggendo, o chi stesse soffrendo. E Mu si rese conto che,
a un certo
punto – Mu non sapeva quando –, aveva aperto gli occhi, appena
appena, come se
stesse sbirciando qualcosa che soltanto lui poteva vedere,
nascosto tra la posa
nel tè ormai freddo, insieme alle foglie precipitate al fondo.
Poi lo sentì, un
tocco leggero, pianissimo, tremante anche quello – come la
tazza, le mani, le
labbra, le ciglia e forse il resto del mondo – contro il cosmo;
un mormorio
dell'anima che non aveva bisogno di parole; solo un'ammissione, un
dubbio, un
concetto: forse non volevo, forse non potevo volerlo, forse
lo sapevo ed
anch'io fingevo, forse...
Dopo
una vita spesa nella
certezza, nella convinzione della perfezione – la propria e
quella dell'ordine
del mondo – per oggi Shaka aveva visto e ammesso, perso troppo,
troppo
riconosciuto, confessato ed espiato, in un solo colpo. Mu,
certo, covava da anni
il proprio rancore, la propria perdita, con tutta l'amarezza del
risentimento
che appesantisce il cuore ed avvelena lo stomaco; ma Mu era
anche pragmatico e
suo amico, una costante – entrambi l'uno all'altro quanto di più
simile
avessero sempre avuto all'attaccamento. Gli rispose, dunque, di
riflesso, allo
stesso modo, lasciandogli sentire tutta la propria stanchezza,
tutto il vuoto
dentro che aveva preso il posto che fu della nostalgia, del
sogno del ritorno:
lo so; lo sai che capisco; la colpa non è solo tua; basta così,
per adesso.
Spalla
contro spalla,
rimasero in silenzio, con gli occhi aperti ed esausti ad
ascoltarsi respirare e
scrutare la notte della veglia funebre, cercando di non pensare
al come, al
perché, al poi; né alle fosse che al mattino avrebbero dovuto
scavare, o ai
morti da seppellire.
Spartirono
quel po'
d'intimità tacita, discreta, di debolezza, fino a che la pietra
della stanza
non parve iniziare a impallidire e presto sarebbe stato tempo
d'andare. Allora,
con la voce, quasi strappandosi di gola le parole, Shaka gli
disse così
sottovoce, come se non volesse farsi sentire: "Mu, dopo il
funerale,
dovremo convocare un'Assemblea, per decidere il daffare,
consultare i
Maestri... Mu, il Buddha ha smesso di parlarmi".
"Gli
ultimi giorni sono
stati difficili per tutti, Shaka; per te più che per molti. Non
lasciarti
suggestionare". Il suggerimento fu accompagnato da un sorriso,
rassicurante almeno nell'intento.
Ma
Shaka si volse a lui, teso
come una corda di violino, serissimo, gli occhi brillanti
d'acciaio battuto a
fuoco, d'ira e d'un poco di vergogna che volgeva a sé stesso:
"Da prima
che vestissi Virgo. Mu, il Buddha non mi parla da anni".
Nota
dell'autrice:
No,
non sono morta. No,
questa storia non è abbandonata. Sì, ho deciso di spezzettare
ulteriormente
questo capitolo perché, allo stato in cui era il precedente
file, superava le
trentamila parole; il che, per una capitolazione strutturata in
paragrafi non
continuativi, secondo me ha poco senso. Dunque, aspettatevi più
sezioni di
"Ad occhi aperti", prima o poi. Ok, probabilmente più poi che
prima,
ché sono un po' fuori fase con Saint Seiya ed ho poca voglia di
revisionare.
Del resto, se siete ancora qui dopo anni, siete abbastanza
temprati ai tempi
biblici d'aggiornamento.
9
aprile 2023
Questa
storia non è abbandonata
ed io continuo ad essere assente ma non morta. Ho svecchiato e
uniformato la veste
grafica dei capitoli sin qui pubblicati; Ad
Occhi Aperti III potrebbe
non
essere ad anni luce di distanza...