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Autore: Pedistalite    21/09/2018    0 recensioni
Disclaimer : I personaggi non mi appartengono, non scrivo per scopi di lucro. Non intendo infrangere alcun copyright.
Timeline & Spoiler : la storia si ambienta alla fine della terza stagione. Tutte le informazioni su date e riferimenti geografici vengono da SuperWiki. Le citazioni della serie sono in corsivo e sono una mia libera traduzione, che potrebbe differire dalla versione italiana.
Note : questa non è di gran lunga la mia prima fan fiction. Molta acqua è scorsa sotto i ponti. E non è nemmeno la prima che scrivo su SPN. Ma è in assoluto una, tra le poche, a cui tengo di più.
Mi sono tanto crucciata sulla possibilità che questi Sam, Dean e John non fossero più in carattere, dopo le prime quaranta pagine. Oggi ho capito che forse è così, forse sono diversi da quelli che ci ha presentato e fatto amare lo show. Ma sono i miei. Sono coerenti. Sono compiuti. E per me sono anche vivi.
"Sam era perfino abbastanza sicuro che la soluzione non fosse scritta, non esistesse nei libri, nemmeno i più antichi. Perché mai nessuno aveva tentato di realizzare ciò che lui si proponeva.
E in molti, là fuori, se ne sarebbero approfittati."
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, John Winchester, Sam Winchester
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Terza stagione
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Ad Alessandra, perché le ho fatto amare John Winchester contro la sua volontà.

E per tante altre ragioni che sa, giustamente, solo lei.


















 

The night got deathly quiet and his face lost all expression.

He said: "If you're gonna play the game, boy, you better learn to play it right."

 

"'Cos ev'ry gambler knows that the secret to survival,

"Is knowin' what to throw away and knowin' what to keep.

"And ev'ry hand's a winner, just like ev'ry hand's a loser.

"And the best that you can hope for is to die in your sleep.

 

"You got to know when to hold 'em; know when to fold 'em.

"Know when to walk away; know when to run.

"You don't ever count your money while you're sittin' at the table.

"There'll be time enough for countin' when the dealin' is done."

 

Johnny Cash – The Gambler

 

La notte divenne quieta come la morte e il suo viso perse ogni espressione.

Mi disse : “Se devi giocare ragazzo, sarà meglio che impari a giocare bene.

“Perché ogni giocatore d’azzardo sa che il segreto per sopravivere è sapere cosa gettare via e cosa tenere. E che ogni mano vincente è uguale a una mano perdente. E il meglio che puoi sperare è di morire nel sonno.

Devi sapere quando insistere e quando arrenderti. Quando voltarti e quando iniziare a correre. Non devi mai contare i tuoi soldi mentre sei ancora al tavolo. Ci sarà tempo per quello quando i giochi saranno finiti.”





 

PRIMA PARTE



 

** Capitolo uno **


Dean lo teneva stretto in una coperta.

E John avvolgeva entrambi, con gli occhi persi nel vuoto.

 

Era un’immagine così nitida da non poter essere un ricordo.

Forse era un elaborato della sua mente, per visualizzare ciò che gli era stato ripetuto tante volte con frasi stringate. Forse era una visione.

Forse aveva letto quei ricordi direttamente dalla mente di suo fratello.

 

Forse in quell’istante era cominciato tutto.

Quando Dean, con le sue manine paffute, l’aveva stretto correndo per le scale. In una notte in cui un incendio aveva distrutto la sua casa e cambiato per sempre il resto del suo avvenire.

 

Non lo sapeva.

Ma Sam se lo chiedeva spesso.

Era diventato un uomo ossessivo. Con mille domande, tutte cruciali.

Come papà. Divento sempre più simile a papà

 

Non gli piaceva più stare in mezzo alla gente.

Avere i loro occhi addosso, gli indici dei bambini puntati contro, lo sguardo vagamente preoccupato delle signore di una certa età. Strano. Odioso.

Non era abituato ad essere osservato con paura, distacco.

Sam incantava le persone.

 

Si, un tempo. Tanto tempo fa. Prima di… beh, prima di tutto.

 

Sam era il ragazzino con gli occhi dolci e i capelli troppo lunghi, che inteneriva le cameriere e riusciva a ottenere sempre l’ultima fetta di torta. Che strappava ai testimoni qualunque informazione. Inorgogliva i professori e intrigava le ragazze con quel modo di camminare sempre un po’ sbilanciato a causa dell’altezza.

 

Sam.

Sammy.

Il piccolo dei Winchester.

Il figlio di John.

Il fratello di Dean.

 

Sam era sempre stato qualcosa in relazione a qualcun altro.

Solo la California, e Stanford, gli avevano concesso semplicemente di essere. Ma per come era andata a finire…

 

Prima o poi dovrai accettare che sei uno di noi” gli aveva detto Dean, con durezza.

 

Jessica era morta da poco e suo fratello stava ancora provando a convincerlo che questa vita disfunzionale da cacciatore era un fatto di sangue. Faceva parte di lui.

 

Ecco, forse era stato quello l’istante.

Quando aveva dovuto abbandonare la vita che voleva, per cui aveva lottato, per cui aveva rinunciato… per cui suo padre gli aveva detto: “Se te ne vai, non potrai più tornare.”

E Sam non aveva neppure esitato. Aveva comprato un biglietto dell’autobus, uno, si grazie sola andata, e Dean l’aveva accompagnato allo stazionamento. Senza dirgli una sola parola.

Neppure addio.

 

Dean, dopo due anni, era andato a riprenderlo, perché aveva bisogno di aiuto.

Papà è a caccia, e non è tornato a casa da qualche giorno.

 

Aveva insistito. “Non posso fare questa cosa senza di te.

Certo che puoi.

 

Al diavolo. Allora non voglio…

 

Era stato quello l’istante?

Quello, o quando Jessica era morta?

 

Jessica era morta.

Come la mamma. Tutte le donne che mi amano, muoiono attaccate al soffitto

E Dean l’aveva salvato di nuovo, mentre le fiamme gli venivano incontro come lingue di fuoco e Sam era impietrito, al centro del letto.

 

Sei uno di noi, Sam.”

 

Sam non gli aveva mai creduto.

Anche dopo. Quando era stato costretto ad abbracciare quell’esistenza pericolosa, si era adattato. Aveva protestato sempre più debolmente, poi aveva smesso.

Poi erano cominciate le visioni. Aveva avuto la conferma di essere diverso dalle persone normali.

Il dubbio strisciante di non essere neppure una persona.

Ma qualcos’altro. Di molto, molto, molto sbagliato.

 

Un soldato. In una guerra tutta da decidere.

Sulla parte della barricata che non lottava per l’umanità.

 

Il preferito del demone con gli occhi gialli che aveva ammazzato sua madre, l’aveva sospesa al soffitto della sua cameretta e poi le aveva squarciato lo stomaco.

Aveva trasformato suo padre in un bastardo ossessivo. E suo fratello in un soldatino ubbidiente.

 

Il demone dagli occhi gialli che aveva trasformato lui, Sam, in un mostro.

 

Ava, prima che Jake le spezzasse il collo con una mano, glielo aveva detto.

“Se accetti questi poteri, il loro apprendimento è così veloce che non puoi far altro che lasciarti travolgere.”

 

Sam ne era rimasto semplicemente orripilato, e non aveva avuto il tempo di venire a patti con quelle informazioni, perché Jake l’aveva ucciso.

 

Chissà, potrebbe darsi che quello fosse l’istante.

Il coltello nella schiena.

La lama, fredda e spessa, che mi spezza la spina dorsale. Entra. Ed esce.

Veloce, insieme al mio sangue.

 

Dean.

Dean che corre.

Qualche parola, le sue braccia salde. Le frasi solite sul rimettersi in sesto, una sciocchezza Sammy, resta con me, non è nulla.

Apri gli occhi. Tieni gli occhi aperti. Sam…

SAM!!

 

Sam pensò confusamente che morire così era una forma di giustizia lineare e pulita.

Le braccia di suo fratello l’avevano salvato la prima volta.

Le braccia di suo fratello lo stringevano per l’ultima.

 

Ma probabilmente non era quello l’istante.

Gli sembrava più credibile pensare che l’istante fosse il risveglio.

Gli occhi aperti di scatto. Il materasso nudo, la stanza sconosciuta, così grigia.

La camicia lacerata, tutto quel sangue sulla schiena, ma nessuna ferita d’ingresso.

Un livido, violaceo ed enorme, che era riuscito a intravedere guardandosi in uno specchio.

Una linea bianca e sottile, perfettamente rimarginata, come se appartenesse a una vecchia cicatrice.

 

E Dean, stravolto, pallido e incredulo. Fermo sulla soglia.

 

Sam cominciava a pensare di essere tornato dalla morte ancora più sbagliato.

Come se quell’esperienza di andata e ritorno avesse schiacciato un interruttore dentro di lui.

Flick.

Demon-Sam.

Oppure Super-Sam.

O magari AntichristSuperStar-Sam.

 

Ma non aveva avuto occasione di verificare quella teoria perché con Yellow-Eye morto, erano scomparsi anche i suoi poteri.

Non scomparsi. Assopiti” gli avrebbe detto qualcuno, molto tempo dopo.

Ma Sam non se ne preoccupava.

Sam anzi, intendeva trarne un vantaggio. Perché avrebbe usato ogni mezzo, ogni risorsa, ogni fottuto potere e ogni singolo libro, per salvare Dean.

 

Il punto era che Sam non sapeva quale fosse l’istante.

Dubitava si trattasse di quando Dean era stato sbranato davanti ai suoi occhi da un mastino infernale. Così come sapeva per certo che non era quello in cui era entrato in una camera d’ospedale asettica e aveva visto John sul pavimento.

 

L’istante non era neppure fermo a un crocevia.

Tra le labbra di un demone dagli occhi rossi che suggellano il patto su quelle di Dean.

O impresso sulla fronte di quello stesso demone, come il buco della pallottola con cui Sam l’avrebbe eliminato.

 

Sam finalmente sapeva che l’istante non esiste nel passato.

Poteva solo provare a ricercarlo nel fututo.

Era stata una comprensione graduale.

Una rivelazione lenta e progressiva.

 

La morte di mio padre. Quella di mio fratello.

La mia.

Quella di Jessica. Di mia madre.

 

La morte.

La morte non è mai l’istante.

Non è mai il motivo. La causa scatenante o la soluzione.

Lo sono le conseguenze.

Non è la caduta ad ucciderci. È l’impatto.

 

Io…

Io forse sono diventato un  mostro perché sono solo.

Ma in parte lo ero già prima.

Ora lo so.

 

Avrebbe dovuto saperlo da subito.

Dalla pira funeraria di Dean, così simile a quella di John che per un attimo, un fottuto momento di distrazione, aveva dimenticato che ci fosse suo fratello nel fuoco.

Si era voltato, pensando papà… cercando Dean, la singola lacrima impigliata tra le sue ciglia, gli occhi verdi e impassibili. E aveva osservato con incredulità il punto vuoto al suo fianco.

 

Bobby gli aveva messo una mano sulla spalla. “Mi dispiace figliolo.”

E a Sam era mancata la forza di restare in piedi. Era crollato sulle ginocchia, affondandole nel terriccio. Dean, davanti a lui, tra rami secchi e fiamme basse, ardeva lentamente. Sam aveva distolto lo sguardo, abbassando la testa, rifiutandosi di pensare, di ammortizzare quell’onda d’urto, quel dolore, rifiutandosi di incenerire le sue certezze.

 

Sam era rimasto istupidito e immobile.

Non aveva pianto. E non gli aveva detto addio.

 

I fratelli Winchester non sono mai stati di molte parole.

Capaci di coordinarsi con un’occhiata. Di capirsi con un gesto.

I discorsi tra loro sono una merce rara, e talvolta superflua. Ma in quel caso, con gli occhi fissi sul fuoco che si spegneva, immobile e in ginocchio fino al mattino successivo…

 

… il mattino successivo. Dean è morto da un giorno…

 

Sam sapeva che quel silenzio era semplice negazione, ostinazione, incapacità di arrendersi.

Sam sapeva che non ci sarebbe stata né pace, né riposo, né salvezza, né la vita che Dean avrebbe voluto per lui, finchè non avrebbe trovato il modo.

 

Non pianse. Non poteva piangere.

Raccolse una manciata di quella cenere bollente e la strinse nel pugno, giurando a se stesso, in silenzio. Sempre in silenzio. Non avrebbe più sprecato fiato.

E i suoi poteri, forse per l’impossibilità di controllare le emozioni, forse per la stanchezza scelsero di manifestarsi, fuori dal suo controllo. Una luce ovattata si condensò attorno alle sue dita, bruciò come acido, si insinuò nel palmo, sotto la pelle. E quando Sam aprì la mano, vide una cicatrice grigia e informe e pensò Dean. Dean è dentro di me.

 

***

 

La cicatrice al centro del palmo diventava più nitida con il tempo, invece di svanire.

Ogni volta che si avvicinava a una soluzione possibile, il bruciore tornava a tormentargli il palmo. Rappresentava una specie di segnale. Sei vicino Sammy, insisti.

Fuochino. Fuocherello.

Sam era certo che la soluzione esistesse. Ma quella figlia di puttana si divertiva a giocare con lui a nascondino. E nei quattro mesi successivi alla morte di Dean…

 

… quattro mesi. Dean è morto da quattro mesi. Dean è all’inferno…

 

Sam aveva letto ogni libro posseduto da Bobby. Imparato a memoria ogni rituale vagamente utilizzabile. Rispolverato antiche conoscenze di greco e aramaico, prendendo l’abitudine di recitare formule in latino, la mattina appena sveglio, come se fossero preghiere.

 

Sam sapeva che era pericoloso prendere alla leggera certe forze misteriose. Sapeva che dall’inferno non esiste modo di uscire, a meno di aprire un altro Devil’s Gate. E non era ancora così folle da decidere di tentare un’impresa del genere.

Sam era perfino abbastanza sicuro che la soluzione non fosse scritta, non esistesse nei libri, nemmeno i più antichi. Perché mai nessuno aveva tentato di realizzare ciò che lui si proponeva.

E in molti, là fuori, se ne sarebbero approfittati.

 

Sappiamo come stanno le cose. Hai un punto debole Sam. Sono io,” gli aveva ripetuto Dean, fino alla nausea. “E lo sanno anche quegli stronzi.”

 

Ma non per quello avrebbe gettato la spugna.

Disposto a qualunque sacrificio, qualunque privazione, si era spinto oltre il buon senso, la morale, l’etica e le proprie personali paure.

Non avrebbe prestato ascolto a nessun consiglio e non si sarebbe mai fermato.

Non prima di trovare il modo.

 

E ogni sera esaminava allo specchio le tracce dei suoi progressi. I suoi fallimenti

Le cicatrici mappavano il suo corpo e rappresentavano i suoi tentativi, le sue speranze.

La sua frustrazione.

C’era il tatuaggio al centro della sua schiena, realizzato da uno negromante a New Orleans, poco sopra il segno del coltello che l’aveva ucciso…

 

… la causa per cui Dean si era venduto…

 

Era simmetrico rispetto alla x tracciata sul torace al posto del cuore, opera di una wicca ad Atlanta. La x era parallela al simbolo che impediva la possessione demoniaca. E con la mano sinistra sfiorò le parole in latino che correvano attorno al bicipite, secondo l’ennesimo tentativo a Savannah. Al mignolo di quella stessa mano mancava l’ultima falange. Era il prezzo che aveva preteso uno stregone per performare un rituale, rivelatosi completamente inutile, a Philadelphia.

 

Nei sei mesi successivi alla morte di Dean…

 

… sei mesi. Dean è all’inferno da sei mesi…

 

Sam aveva viaggiato senza sosta, facendo soste sporadiche da Bobby per il poco tempo necessario a prelevare nuovi volumi e scaricare quelli già letti.

Ma il modo, la soluzione, la figlia di puttana, non esisteva in alcun libro scritto.

E, alla fine, era talmente semplice che gli sarebbe venuto da piangere se la cenere di quella pira non gli avesse disseccato gli occhi.

 

Il sangue. Poteva essere solo il sangue.

 

Sapendo cosa cercare, trovare il rituale adatto e modificarlo in alcuni passaggi per essere più sicuri, si era rivelato di una semplicità sconcertante. Non che Sam se ne dispiacesse, ma finchè non si fosse ritrovato davanti suo fratello, in carne e ossa, non avrebbe smesso di trattenere il respiro.

Bobby l’aveva avvertito di allestire il necessario in un ambiente neutrale, privo di qualunque influenza benigna o maligna.

Sam sapeva di dover scegliere il posto giusto. Sapeva che la riuscita del rituale dipendeva da una serie di fattori di cui poteva controllare la causualità solo per un cinquanta per cento.

 

E ricordò il Kansas. La casa dove erano nati, dove era morta la mamma.

Pensò alla terra bruciata e desertica che circonda la casa di Bobby in South Dakota. Il terreno in Nebraska su cui il RoadHouse di Ellen non era mai più stato ricostruito.

 

Il luogo perfettto per il rituale che non esisteva nei libri, non esisteva neppure sulla terra.

E andava bene così.

 

Sam si guardò la cicatrice sul palmo. Pulsava come un cuore.

 

Il luogo perfetto per il rituale perfetto è dentro di me.

E se dovessi fallire…

No, non devo fallire.

 

***

 

L’Impala era un gioiellino.

Carrozzeria tirata a lucido e nuova messa a punto.

 

Prenditi cura della mia bambina,” gli aveva fatto promettere Dean a cinque minuti dalla mezzanotte del suo ultimo giorno di vita. “Ricordati cosa ti ha insegnato papà. Ricordati cosa io ti ho insegnato.”

Poi aveva provato a sorridere, ma l’orologio era stato implacabile e Dean era stato distratto da qualcosa che soltanto lui poteva vedere. Un ringhio, provenire dagli angoli bui.

 

E in quel momento Sam, a cinque minuti dall’inizio del rituale, passò le dita umide di sudore sul cofano tiepido.

Quella Chevrolet era tutto ciò che gli era rimasto di Dean.

E tra poco sarebbe riappartenuta al suo legittimo proprietario.

Le chiavi tintinnarono quando giocherellò con il portachiavi, era un pezzo di cuoio consumato. Odorava come suo fratello, come la polvere delle strade d’america e come le mani di suo padre.

Che strano. L’auto era stata di John, in origine.

Ma per Sam… Dean&Impala erano un concetto indissolubile, fatto di notti passate sui sedili reclinati, tazze di caffè scambiate tra uno sbadiglio e un improperio, musicassette antiquate e finestrini bloccati. Quell’auto rappresentava l’unica fissa dimora che loro, i fratelli Winchester, avessero mai avuto.

Un concetto indissolubile.

Come Sam&Dean.

 

Non c’era più.

Ma ci sarebbe stato di nuovo.

 

E pensando a quello, con un unico scopo fisso nella mente, non sentì neppure il dolore del taglio netto e profondo da cui scaturiva il suo sangue, gocciolando nella coppa d’argento.

Le parole della formula scivolarono sulla sua lingua come una filastrocca. Le aveva verificate, studiate, controllate e migliorate per come potesse, tanto da non comprenderne più il significato. Recitarle era un gesto meccanico, un suono ritmico che accompagnava il suo battito sempre più lento, lo scorrere del suo sangue sempre più rapido. La coppa vicina a colmarsi.

 

Poi, con l’impazienza snervante e l’adrenalina in circolo, con un pulsare di sottofondo che ovattava qualunque altro suono, Sam osservò il suo sangue innalzarsi dalla coppa, assumere una forma, dei contorni, sollevare una bruma rossastra e spumosa. Poi densa, sempre più densa, solida. Corporea.

Scheletro, muscoli, carne, pelle. Sangue, vene arterie, cuore.

Si profilarono le linee nette delle spalle, il tratto deciso, solido del petto.

Un viso, dai segni sfumati, ma così familiare da ferire.

 

La bruma si diradò, annullandosi in un bagliore. E Sam dovette coprirsi gli occhi, sollevare la mano, farsi scudo. Mantenersi controllato, per evitare di affrettarsi, di spingersi troppo oltre, di afferrare, toccare, stringere, sincerarsi che Dean e qui e ora potessero esistere di nuovo nella stessa frase.

Sam aveva letto di Orfeo ed Euridice. E non era superstizioso.

Ma il mito greco l’affascinava. Non poteva pensare di perdere tutto, nell’istante stesso in cui lo realizzava. Attese. Si costrinse.

 

E finalmente… finalmente il bagliore diminuì e poi scomparve.

E al centro della camera, tra i quattro punti cardinali, i disegni sul soffitto e sul pavimento, le erbe e le candele cerimoniali, nudo, rigido e in piedi emerse John Winchester.

Con l’espressione rovente.

 

E l’ultimo pensiero di Sam fu un incontrollato flusso di coscienza che si condenzava in fallitosbagliatoerroreperchènonquinonora.

Inferno.

 

Mio padre è tornato.

Dean è ancora all’inferno.

 

Sam alzò le braccia, in un gesto esasperato. In silenzio.

Nulla, non disse nulla. Non aveva parole da sprecare.

Forse l’istante era giunto. E lui l’aveva perso.

 

Pregò che non fosse così.

Poi voltò le spalle a John Winchester.

 

Mio padre. Mio padre. No, non posso pensarci ora.

 

E si dileguò.

 
   
 
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