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Autore: Crilu_98    23/09/2018    1 recensioni
La fame ed il freddo invernale non sono nemici che l'uomo possa sconfiggere da solo. Ma il prezzo che gli dei chiedono in cambio della salvezza è molto alto: i nati di quella primavera maledetta saranno tutti consacrati a Mamerte, sanguinario e crudele dio della guerra.
Tra di loro, Sattias è il più gracile, il meno abile, per nulla carismatico; tuttavia, quando giunge il momento di partire verso la terra che è stata loro promessa, è lui che il picchio di Mamerte sceglie come guida.
In un viaggio pieno di pericoli, profezie ed incontri inaspettati, Sattias dovrà ricorrere a tutta la sua astuzia per tenere al sicuro le persone che ama: perché nel loro mondo ci sono poche certezze, ma una di queste è che gli dei non ripongono mai la loro fiducia nell'uomo sbagliato.
Genere: Avventura, Guerra, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Aia fissava le braci rossastre del fuoco che si andava spegnendo.
Non era un vero e proprio sacrificio – non c'era selvaggina sufficiente per sfamare la tribù, figuriamoci per offrire un lauto pasto agli dei.
Tuttavia Aia aveva bisogno di parlare con Mamerte, perché a differenza degli uomini era convinta che il dio non li avesse abbandonati. E Mamerte aveva risposto alla sua chiamata, sussurrandole parole terribili attraverso il crepitio di quella fiamma accesa sull'altare in mezzo ai boschi dove la sacerdotessa viveva in solitudine.
Volusus, il capo del villaggio, attendeva oltre i margini della radura: era un uomo buono, un guerriero coraggioso e un capo giusto – ma non credeva in Mamerte e Aia sapeva che questa sfiducia sarebbe stata punita a caro prezzo.
Versò purissima acqua di fonte sulle braci che si spensero con un ultimo sfrigolio, poi raccolse parte della cenere nera in una sacca di pelle di cervo, in modo da poterla usare nei suoi incantesimi di guarigione; il resto venne spazzato via, così che l'altare fosse pulito e pronto per il rituale successivo.
"Allora?"
La voce profonda di Volusus tradiva la sua preoccupazione ed insofferenza: in quei tempi di freddo e carestia l'uomo soffriva nel veder morire la sua gente e temeva per la sorte del suo popolo.
Non si era mai visto un inverno così rigido, in cui la neve cadeva tanto fitta da bloccare le porte delle capanne e gli animali selvatici morivano di stenti prima che gli uomini potessero trafiggerli con le loro frecce. Da quasi due lune i daini erano scomparsi dal territorio di caccia dei Sabini; da allora si erano cibati di bacche spinose che davano nausea e poco nutrimento e di carne di lepre secca e dura che i vecchi e i bambini non riuscivano neanche a masticare.
Artmis, dea della caccia, era rimasta sorda alle loro preghiere; Mamerte era un dio più crudele e pericoloso e spesso chiedeva di pagare i suoi favori con il sangue… Ma Volusus stesso sapeva di non avere altra scelta. Il suo viso, invecchiato anzitempo, si contraeva in una morsa di dolore al pensiero della giovane moglie in attesa del loro primo figlio, che stesa sul giaciglio di pelli attendeva la morte con gli occhi sbarrati, senza più forze. Come lei, altre sei donne si chiedevano se i loro figli avrebbero mai visto la luce del sole di primavera.
"Come faremo a combattere gli avidi popoli delle montagne, quando le nevi si scioglieranno, se i nostri piccoli avvizziscono nel ventre delle loro madri?" pensava Volusus.
Poi una seconda domanda, ancora più agghiacciante, seguiva la prima:
"Si scioglieranno mai, queste nevi?"
Aia mugugnò qualcosa nella lingua degli spiriti, dato che essi non avevano ancora abbandonato del tutto il suo corpo: l'anziana donna aveva le pupille dilatate e la bocca semi aperta. Le braccia erano scosse da un tremito incontrollabile e i tatuaggi scavati sulle sue guance spiccavano sul pallore malato della pelle. Volusus aveva la sgradevole impressione di star fissando qualcosa morto da tempo e la nausea (o forse la fame, la stanchezza, la paura) lo fecero vacillare.
Poi Aia parlò, con la sua caratteristica voce lenta e bisbigliante:
"Mamerte chiede un pegno… Un sacrificio, in cambio della salvezza della tribù."
Volusus lasciò andare il respiro che aveva trattenuto: temeva che anche il dio del tuono e della guerra voltasse loro le spalle.
"Tutti i sacrifici che vorrà, vecchia saggia. Offrirò la mia vita, lasciandomi sgozzare sull'altare, se necessario!"
La sacerdotessa scosse la testa con fare triste:
"Non la tua vita vuole Mamerte, nobile Volusus. Egli chiede la vita di coloro che nasceranno il giorno in cui il primo germoglio riporterà la primavera su questa terra e di tutte le creature che vedranno la luce per sessanta albe dopo di quella."
L'uomo sentì il sangue farglisi come di ghiaccio nelle vene: pensò al figlio non ancora nato e si chiese dove avrebbe trovato la forza di tagliargli la gola e vedere il suo corpicino bruciare; si chiese se sua moglie sarebbe sopravvissuta al dolore. Si chiese se lui, invece, sarebbe riuscito a superare il senso di colpa per la sua inettitudine.
Crollò in ginocchio, incurante della neve che gli bagnava i pantaloni di pelle e del vento freddo che gli sferzava la barba; le lacrime diventavano pungenti cristalli di ghiaccio sulle sue guance.
Aia gli poggiò una mano nodosa sul capo:
"Alzati, Volusus, Mamerte non vuole un massacro. Vuole un nuovo popolo, che guiderà lontano da noi e su cui veglierà benevolente."
"Un popolo?" ripeté Volusus, con il cuore in gola, iniziando a capire. "I nostri figli…"
"Non sono già più vostri!" replicò la donna con voce tremenda "Appartengono al dio, è il prezzo da pagare per sopravvivere. Vita per vita, carne per carne, goccia di sangue per goccia di sangue."
La mente del capo villaggio lavorava velocemente: contava i mesi che erano passati da quando il ventre di sua moglie aveva iniziato ad ingrossarsi e cercava una scappatoia per quel patto.
"Potrebbe anche darsi che…"
Alla fine si rialzò, sgrullandosi via la neve e il terriccio dalle vesti.
"Puoi dire al tuo dio che ha la mia parola. I nati della prossima primavera gli verranno tutti consacrati!"
 
Volusus fissava il sentiero sgombro di neve, ma il suo cuore non riusciva a gioirne.
La selvaggina era tornata nella loro terra, lentamente ma in maniera costante; il suo popolo si era salvato grazie alla benevolenza di Mamerte, che li aveva sfamati fino a quando la neve non aveva iniziato a sciogliersi, rivelando la terra scura e brulla che riposava sotto di essa.
Ogni giorno, quando usciva a cacciare, Volusus lanciava uno sguardo implorante al ventre della moglie, ora florida e in salute, pregandolo di schiudersi. Ormai la primavera era alle porte e il capo villaggio sapeva di non poter sottrarsi al sacrificio che aveva promesso: non solo perché non sarebbe stato giusto nei confronti di quei sei suoi compagni che come lui si erano rassegnati a perdere i figli, ma anche perché era da folli sfidare Mamerte.
All'improvviso, mentre procedeva lentamente verso il villaggio con un daino sulle spalle, lo vide: un piccolo bucaneve aveva fatto capolino proprio nel mezzo del sentiero, perciò era impossibile non notarlo. Volusus si chinò, come intontito, ad osservare quei piccoli petali bianchi che si schiudevano pigramente sotto i raggi del tiepido sole di fine inverno.
Neanche il pianto di donna che udì provenire dalla sua capanna riuscì a distrarlo dalla contemplazione di quella pianticella così fragile e precaria che gettava disgrazia e dolore sulla sua famiglia: come sarebbe stato facile estrarre il coltello di selce e sradicarla, calpestarla, farla a pezzi e lasciarla marcire su un lato della strada…
"E' da folli sfidare Mamerte" si ripeté.
Perciò si alzò e con passo pesante andò ad osservare il suo primogenito che veniva al mondo, con la consapevolezza che non sarebbe mai stato suo padre.
 
Il sangue scorreva a fiumi sull'altare del dio: capretti, leprottini e pulcini dal piumaggio candido venivano offerti in sacrificio uno dopo l'altro e il fumo che si levava dalle loro carcasse bruciate mandava un odore acre e pungente.
Sette donne, sette giovani madri, stringevano a sé i figli per l'ultima volta: la più giovane, una bambina dallo sguardo fin troppo serio, era venuta al mondo due giorni prima della scadenza dei sessanta giorni reclamati da Mamerte.
Volusus strappò dalle braccia della moglie il maschietto gracile e pallido nato il primo giorno di primavera: non sembrava destinato a diventare un grande guerriero, o il suo degno successore, ma Volusus lo amava ugualmente. Passò un dito reso ruvido dal continuo sfregamento con il legno dell'arco su quella pelle morbida e profumata; il piccolo lo fissò incuriosito con due iridi più verdi del fogliame primaverile, chiedendosi forse cosa fossero quelle piccole perle lucenti sul viso barbuto che gli stava di fronte.
Poi l'uomo lo tese ad Aia, vestita con il suo abito più ricco, ancora sporca del sangue dei sacrifici.
Sorda ai loro pianti terrorizzati, la donna praticò con il coltello di bronzo una piccola ferita verticale sulle loro fronti, il segno che li avrebbe divisi per sempre dal resto della tribù.
Poi li accolse nella sua capanna, dove li avrebbe nutriti e cresciuti fino a quando le tre bambine non avessero versato il loro primo sangue e il primo pelo sarebbe cresciuto sulle guance dei quattro maschi. Allora, e solo allora, Mamerte sarebbe ridisceso sulla terra per guidare il suo nuovo popolo.


Angolo Autrice: 
Aaah, quanto mi mancava questa sezione! 
Ebbene sì, sono tornata, non per riprendere la long storica che ho sospeso (prima o poi mi ci rimetto, giuro!) ma per inaugurare un nuovo progetto su un popolo italico che risale a prima della fondazione di Roma. 
La domanda era questa: perché quando si parla di antichità italiana si parla solo di Romani? E gli Etruschi? E i Sabini? E i Piceni, che poi sono il popolo della mia terra? 
Perciò ecco qui tre storie sui Pikentii, relativamente brevi (l'ultima è ancora in fase di stesura ma non credo avrà più di dieci capitoli) e scollegate tra loro, per rendere giustizia anche a chi non ha costruito fori ed imperi xD 
E niente, spero che vi piaccia questo piccolo assaggio di preistoria - siamo nel IX secolo a.C. e i "ver sacrum", le primavere sacre, si svolgevano più o meno come ho descritto in casi di grave carestia invernale. 
Enjoy! 

  Crilu 

 
   
 
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