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Autore: Horror_Vacui    21/10/2018    1 recensioni
Cosa succede quando sei l'uomo sbagliato al momento sbagliatissimo? E se il momento sbagliato è proprio una guerra tra i due gangster più potenti di New York?
Tra intrighi di potere, assassini di professione e debiti da saldare, l'unica cosa che si può fare per sopravvivere è imparare le regole del gioco prima di eliminati.
Dal testo:
"Prese alcune fette di pane e ci spalmò sopra del burro d'arachidi. Lei nel frattempo si era seduta sul bancone e lo osservava incuriosita. Sotto il cardigan indossava dei semplici pantaloncini di cotone e una canottiera sottile. Aveva gambe lunghe e occhi da gatta, profumava di lavanda e biscotti: le pericolosa ragazza della porta accanto."
*Basato sull'omonimo film di Paul McGuigan, conosciuto in Italia con il titolo "Slevin - Patto criminale"*
Genere: Commedia, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chris Argent, Malia Hale, Nuovo personaggio, Peter Hale, Stiles Stilinski
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Violenza
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La notte era calata inesorabile e gelida su New York, portando con sé una scia di sangue e morte.
Lo sapeva bene il Boss, che non riusciva a smettere di pensare a quanto altro sangue avrebbe dovuto vedere da lì ai prossimi mesi, forse anni. Stringeva il suo bastone da passeggio tra le dita e guardava dalla vetrata la città brulicante di vita e miseria.
Il figlio del Rabbino era morto, proprio come voleva, e insieme a lui anche quel Fisher; eppure non poteva dirsi soddisfatto, non quando tutta la città, la polizia e di sicuro i fottuti affari interni erano stati allertati dall'esplosione del palazzo in cui abitava.
L'ascensore si aprì e ne venne fuori Goodkat, con il suo solito mezzo sorriso sornione e l'impermeabile color sabbia.
«L'ho ingaggiata per un lavoretto, ma non doveva sembrare un lavoretto; invece lei ammazza gli israeliani, fa esplodere l'intero edificio. E adesso il lavoretto che non doveva sembrare un lavoretto, comincia a sembrare... un vero lavoretto».
Argent non disse nulla, la sua espressione imperturbabile sembrava volergli comunicare qualcosa, ma lui non poteva sapere davvero cosa, poteva immaginarlo. E di solito, quando si capisce di essere in una brutta posizione, ci si immagina quello che fa più comodo.
«E va bene, fanculo. Se il Rabbino vuole una guerra, gli daremo una guerra».


Il Rabbino, nel frattempo, stava in piedi nel suo ufficio ignaro di tutto, perché era venerdì sera, momento d'inizio dello Shabbat.
È bene sapere che ogni sabato di ogni mese di ogni anno, un buon ebreo celebra il giorno sacro del riposo, così come è stato ordinato dal Signore nelle Sacre Scritture. Nel giorno del riposo è vietato lavorare, scrivere, disegnare e addirittura viaggiare, ma tra le altre cose è permesso studiare la Torah. E lui amava studiare la Torah e odiava essere interrotto durante la lettura.
Ecco perché il telefono aveva squillato e nessuno gli aveva dato notizie ed ecco perché nessuno gli aveva annunciato l'arrivo di Nick Fisher.
Era strano, molto diverso dal solito. Forse era l'abito elegante, magari i capelli pettinati o forse ancora il sorriso sornione con cui l'aveva salutato. Gli ricordava qualcuno, ma non avrebbe saputo dire chi...
«Oh, salve signor Fisher! Credevo fossi Saul, il mio assistente».
«Ultimamente mi prendono tutti per qualcun altro» sorrise tranquillo.
Aveva con sé una valigetta, quindi era quella la differenza: stava per saldare il suo debito.
«Sai, la tua brutta situazione mi ricorda un film di Alfred Hitchcock, “Intrigo Internazionale”. Tutti pensano che Cary Grant sia un uomo chiamato George Kaplan, ma non esiste nessun George Kaplan, è un nome inventato. I nomi, anche quelli inventati, possono provocare brutti guai. Ora, la protagonista femminile si chiamava...»
«Eva Marie Saint».
«Oh, conosci quel film!»
«Conosco quel film» disse lapidario, ma il Rabbino non fece caso al suo tono.
«Ho portato mio padre a vederlo nel '59. Non capiva bene la lingua, ma perbacco se gli piaceva Eve Marie Saint. In ogni caso quel film ha provocato molta confusione».
«Scambiare nomi può farlo».
«Già» annuì. «Quelli sono i miei soldi?»
Il ragazzo batté una mano sulla valigetta marrone e disse: «Sì, è quello che le devo».
Il Rabbino si tolse allora la kippah e gli occhiali a mezza luna, poi spostò un'agenda dalla scrivania e gli fece cenno di poggiare la valigetta lì.
L'espressione imperturbabile, il sorrisetto, gli ricordavano qualcuno, ma chi? Di sicuro qualcuno di cui non fidarsi. Il telefono nel frattempo aveva ripreso a squillare.
«Oggi è Shabbat e noi non rispondiamo al telefono durante lo Shabbat».
«Lo so».
«Saul di solito toglie la suoneria, ma al giorno d'oggi è difficile trovare del personale valido».
Aprì la valigetta, ma era vuota. Non fece in tempo a sollevare lo sguardo che venne colpito alla testa con violenza. Ebbe la sensazione che il cranio si fosse spaccato a metà e, prima di perdere conoscenza, gli sentì dire qualcosa:
«Saul è morto. Sono tutti morti».



*


Il risveglio dopo un colpo alla testa non è mai dei più piacevoli. Sentiva di essere seduto, ma gli mancava lo stesso la terra sotto i piedi e lo stomaco e il cervello sembravano volergli uscire dalla bocca e dagli occhi. Sbatté le palpebre diverse volte, prima di scacciare la patina bianca che gli offuscava la vista. Provò a sollevare una mano per sincerarsi della gravità del danno, ed ebbe un tremito alla vista del nastro isolante che lo teneva legato alla sedia.

Gli bastò una breve occhiata all'ambiente circostante e al caminetto acceso, per rendersi conto di non essere più nel suo ufficio, ma in quello del suo acerrimo rivale.

«Oh, ci sono già stato in questo posto, è rimasto com'era vent'anni fa. Comunque non so perché, ma sembra diverso, come la tua macchina quando è guidata da qualcun altro. Del resto è da vent'anni che non salgo su una macchina... due decenni dietro nove centimetri di vetro anti-proiettile per paura di essere ucciso da un fucile ad alto potenziale, senza mai uscire di casa. Vent'anni! Rinchiuso nella mia paranoia, prigioniero in casa mia, solo per poi finire nelle mani di un ragazzino. Be', complimenti, sembra che abbiate vinto, mi avete fregato. Se portassi un cappello, me lo toglierei. Volete la mia testa? Eccola!» disse e abbassò il capo in avanti.
Ci fu una pausa e allora il Rabbino guardò le scale, quelle da cui lui e il Boss di solito scendevano per fare un'entrata a effetto, ma quelle restarono vuote e la voce del Boss lo raggiunse alle spalle.
«Puoi tenere il cappello e la testa, Shlomo. A quanto pare, ci è stato tirato un bidone dallo stesso lanciatore. Bel discorso però, mi sarei alzato volentieri in piedi per ascoltarlo» disse il Boss, seduto proprio dietro di lui, schiena contro schiena.
Il Rabbino si sforzò di voltare indietro la testa, nonostante il dolore lancinante, e lui fece altrettanto.
Eccoli lì, i due gangster più pericolosi di New York, faccia a faccia dopo più di vent'anni.
«È colpa tua se siamo in questo guaio!» gli disse pieno di risentimento.
«Mia?»
«Sì, tua! Tu hai assoldato Goodkat per uccidere mio figlio!»
«Dopo che tu hai ucciso il mio!»
Shlomo scosse la testa con decisione.
«No, io non c'entro niente».
«Certo, come no. Come nel '98? Nemmeno quella era opera tua? Hai solo dato l'idea magari. Tempo scaduto, Rabbino. Mentire a un uomo morto è come mentire a se stessi».
«Diventavi troppo potente. Quando in una stanza ci sono due uomini, tu ne puoi guardare soltanto uno alla volta. E gli altri guardavano te e intanto ridevano alle mie spalle. E quando poi ti hanno chiamato Boss! È stato chiaro cosa andava fatto».
«Cerca di immaginare cosa si prova, Shlomo. A svegliarsi di notte con sei pallottole che ti bruciano lo stomaco, immerso in una pozza del tuo sangue e della tua merda. Gli occhi sbarrati di tua moglie morta, che ti fissano. L'unica cosa che ti impedisce di svenire sono i passi dell'uomo che si allontana nel corridoio, in cerca di tuo figlio. Io ero riuscito a salvarlo, mio figlio. E ora, dopo tutti questi anni, tu... Tu, nonostante il nostro accordo, tu! Filisteo di merda! Brutto traditore del cazzo! Alla fine me l'hai portato via per sempre. Be', adesso io ti ho tolto il tuo per sempre».
«Te l'ho già detto, io non c'entro niente».
«Non hai sentito allora?»
«Impossibile, stai mentendo».
«Girati e guarda il mio sorriso, Shlomo. Tuo figlio è morto. Tuo figlio è morto!»
«Io... io ti ucciderò!» si agitò sulla sedia, mentre il Boss se la rideva.

E poi un'ombra si fece avanti nel corridoio accanto alle scale.
«Rabbino! Lei ha presente lo Shmoo?»
Era il ragazzo! Scendeva con calma, un gradino alla volta, con le mani nelle tasche e il suo sorrisetto del cazzo stampato in faccia.
Il Boss si mosse in preda alla paura, poteva quasi sentirne l'odore.
«F-fisher?! Fisher, ascoltami...!»
Quella supplica spense il sorriso del ragazzo, che si gelò in una maschera di puro odio.
«Te l'ho già detto: non sono Nick Fisher».
«Allora chi è Nick Fisher?»
Slevin fece un giro attorno a loro, come un lupo che circonda una preda.
«Forse volevi dire chi era Nick Fisher. Fisher è stata la risposta a una domanda. Come arrivi a due uomini a cui non si può arrivare? Li fai venire da te. Ma per farli arrivare mi serviva un nome e dove si trovano i nomi? Nei libri. E chi li tiene i libri? I vostri allibratori tengono i libri. Allibratori sbranatori, al servizio dell'Impero del Male».
«Mi serviva un giocatore, uno che fosse presente sui libri di entrambi e che avesse un po' di rosso sulla colonna dei debiti. E ha vinto Nick Fisher, uno che non sarebbe mancato a nessuno».
«Hai... hai ucciso Nick Fisher?» chiese il Boss incredulo.
«Mi dispiace, volevi tu l'onore?» ghignò cattivo. «A quel punto, comunque, bisognava solo far squillare il telefono. Mi è bastato premere il grilletto di un fucile di precisione e aspettare che tu chiamassi qualcuno per un lavoretto. E tu hai chiamato quel qualcuno, per fare un lavoretto che non sembrasse un lavoretto, giusto? Mr. Goodkat, lo specialista in lavori sporchi, quelli che nessuno vuole fare. In fondo chi avrebbe mai voluto uccidere uno che viene chiamato la Fatina? E poi il rischio di una nuova guerra era troppo alto e Goodkat non ti aveva mai deluso. Ecco perché ti sei fidato ciecamente del suo piano di scegliere uno a caso nel registro dei debiti, no?»
«E tu, Rabbino, tu sei sempre stato un uomo di fede incline al peccato. E tra un omicidio e l'altro non hai mai disdegnato un tradimento qua e là, per ottenere più denaro e più potere, giusto? Un modus operandi vicino al tuo modo di essere, che non ti ha stupito ritrovare anche nel signor Goodkat. Così, quando ti ha chiesto il doppio di quanto il Boss gli aveva offerto per uccidere tuo figlio, hai accettato. Ma come coinvolgere Nick Fisher in questa faccenda? Un semplice scambio di favori, una cosa all'apparenza di poca importanza. D'altronde Fisher era un perdente, che differenza poteva fare? Tu compravi la lealtà di Goodkat e in cambio lui ti chiedeva di far fuori un perdente».
«Un pugno sul naso era l'alibi perfetto per fingere di essere stato derubato di tutti i miei documenti: ero nell'appartamento di Nick Fisher, ma non potevo dimostrare in alcun modo di non essere lui. Così a quel punto ero libero di entrare e uscire come volevo».
Il Rabbino gli fece segno di avvicinarsi.
«Qualunque cifra loro ti paghino, io la raddoppio» gli sussurrò all'orecchio.
Slevin fece qualche passo indietro e scosse la testa.
«No, non hai capito, non c'è nessun loro. È tutta un'idea mia».
«T-tua?»
«Già, mia».
«Chi sei tu?!» quasi urlò il Boss.
«Voi sapete già chi sono, solo che non lo ricordate, quindi lasciate che vi rinfreschi la memoria» disse, riprendendo a girare intorno alle sedie come un avvoltoio su due cadaveri freschi.
«L'anno è il 1995, il luogo Aqueduct, settimo cavallo, decima corsa. Vi suona familiare? La corsa truccata di Aqueduct, la corsa del droghiere. Tra quelli che avevano scommesso parecchi soldi c'era un uomo, si chiamava Noah...»
«Non so di cosa tu stia parlando!» disse il Rabbino con forza.
«Ah, no? Be', ma di sicuro entrambi ricorderete questa parte, la vostra firma».
Prese due buste di plastica trasparente dalla scrivania e, quando le videro, entrambi i gangster avvertirono il brivido gelido della morte e la consapevolezza di chi fosse quel ragazzo in piedi di fronte a loro.
«No, no è impossibile, t-tu... sei morto» disse il Boss, gli occhi sbarrati di chi ha visto un fantasma.
Fu solo quando ebbe la certezza che entrambi l'avessero riconosciuto, che Slevin piazzò le buste sulle loro teste; poi si prese un momento per guardarli negli occhi, mentre annaspavano per catturare quanto più aria possibile attraverso gli spazi lasciati aperti dalla plastica.
«Voi vi siete presi tutto quello che amavo. Vaffanculo» sputò le parole come se fossero veleno, poi avvolse il nastro isolante attorno al collo del Rabbino e a quello del Boss.
Il primo non oppose resistenza, sembrava rassegnato e, chissà, forse anche pentito di ogni minuto di vita passato nell'oscurità. Il Boss invece lottò fino all'ultimo istante, attaccato alla sua oscura esistenza con ogni briciolo del proprio essere.
L'Impero del Male era finito.




*



Una chiamata nel cuore della notte l'aveva avvisata dell'esplosione di un appartamento e della disgraziata morte di alcuni uomini, così si era messa i primi abiti che aveva trovato ed era corsa in obitorio.
Al suo arrivo i due cadaveri erano già stati posti sui tavoli d'acciaio e coperti con dei lenzuoli.
Il braccio di uno dei due, però, spuntava restando scoperto: era completamente carbonizzato e al polso portava un vecchio orologio fin troppo familiare.
Malia ebbe un tuffo al cuore e sollevò tremante il lenzuolo, solo per scoprire che il corpo era troppo bruciato per riconoscerne i connotati.
Il detective Hale arrivò giusto in tempo per impedirle di mettersi a piangere nel bel mezzo del laboratorio.
«Allora, cosa abbiamo qui?» chiese, poggiandosi un fazzoletto sul naso.
«Difficile a dirsi. Dalla statura e dall'ampiezza delle spalle, direi due uomini».
«Sì, uno è il figlio di un gangster, ma l'altro chi è?»
«Visto che non abbiamo più impronte digitali, mi sembra improbabile che lo sapremo».
«E le cartelle odontoiatriche?»
«Certo, appena mi trova da qualche parte la mandibola inferiore» si strinse nelle spalle, mostrando la testa deturpata del cadavere.
«Cristo, è proprio un cazzo di casino» sospirò il detective, passandosi una mano sugli occhi.
La radio appesa alla sua cintura prese a parlare, ma non portava buone notizie.
«Ehi Peter, sono Marty. Ci sei?»
«Sì, dimmi tutto».
«Abbiamo trovato altri due cadaveri che fanno il paio con quei due che hai lì».
«Va bene, vengo subito. Sei riuscito a contattare il Rabbino per dirgli di venire a identificare quel che resta del figlio?»
«Negativo. Stiamo chiamando da un'ora, non rispondono».
«Allora manda qualcuno».
«Ricevuto».
Quando sentì nominare il Rabbino, Malia tossì per ricacciare giù il cuore palpitante. Era dunque di Slevin il corpo carbonizzato con l'orologio? La mascherina era all'improvviso troppo stretta, così l'abbassò sul collo per respirare, nonostante l'odore acre di bruciato le pizzicasse le narici.
«Si sente bene? La vedo un po' scossa» disse il detective.
«No, sto bene» accennò un sorriso.
«È pallida, forse dovrebbe fare una pausa».
«No, stia tranquillo, ho visto di peggio. E poi se mi fermassi si fermerebbe anche il caso, no?»
«Già. Be', ora devo proprio andare, mi chiami se ha delle novità».
«Senz'altro».

Quando fu certa che se ne fosse andato, Malia si appoggiò con entrambe le mani sul ripiano del bancone, in preda a una nausea a lei fino ad allora sconosciuta.
Captò con la coda dell'occhio l'arrivo di un uomo e si voltò verso la porta aperta dell'obitorio.
Occhi di ghiaccio, un impermeabile color sabbia e un sorrisetto enigmatico stampato in faccia.
«Abbiamo lo stesso telefono» disse l'uomo, poi sollevò la pistola e le sparò un colpo dritto al cuore.
Il dolore fu così intenso da mozzarle il respiro e cadde a terra in una pozza di sangue, mentre Argent andava via silenzioso com'era arrivato.



*



Un opprimente senso di inquietudine non lo lasciava da quando quel ragazzo, Slevin, era giunto in città.
Prima era entrato nel palazzo del Boss, poi in quello del Rabbino, infine l'aveva beccato nello stesso ristorante della Fatina e ora il corpo della Fatina era carbonizzato su un tavolo in obitorio.
C'era qualcosa, un disegno più grande che non riusciva a vedere e tutta la situazione gli stava sfuggendo di mano.
Salì in macchina e il telefono squillò.
«Hale, sono Murphy».
«Ciao Murphy, che mi dici?»
«Oggi è passato Henry Keller, te lo ricordi Henry? È in pensione, la moglie è morta, perciò passa in centrale un paio di volte a settimana per fare due chiacchiere, raccontare le sue imprese ai nuovi e inizia ogni frase con “Ai miei tempi era così...”, insomma è uno che vive nel passato».
«Sì, sì ho capito, ma che c'entra ora?» chiese spazientito.
«Stavamo chiacchierando e diceva che non si può lamentare, e invece non fa altro che lamentarsi cazzo! Per la moglie che è morta, per la gamba in cui gli hanno sparato, la pensione di merda, ma poi si blocca quando vede la foto che ha fatto Marty, e si ferma a fissarla. E io gli chiedo “Che c'è? Conosci il ragazzo?”. Il fatto è che lui non guarda la foto, guarda il nome, perché l'ho scritto su un foglietto attaccato sotto. Conosce quel nome, Slevin. Lì per lì non dice niente e va via. Un'ora dopo squilla il telefono ed è Henry che parla a raffica di una corsa di cavalli del '95 ad Aqueduct».

Il gelo del terrore s'insinuò sotto la pelle di Peter e raggiunse le ossa.

«Era una corsa di cavalli vestita e truccata, un grosso pacco regalo. Il Boss e il Rabbino avevano appena aperto bottega a New York, prima che la gente cominciasse a svegliarsi con un pugnale nella schiena. Comunque, continua a parlare di una leggenda metropolitana, di un giovanotto, un certo Noah... Noah Bilinski... Stilinski, una roba del genere. Il ragazzo ha avuto una soffiata sulla corsa, quindi ha piazzato una grossa giocata con un allibratore, Roth, che poi a sua volta l'ha passata ai due gangster. Però quando il Boss e il Rabbino scoprono che la corsa è truccata, be', sono tutt'altro che felici! Comincia a girare voce che bisogna dare un esempio, così quelli ammazzano tutti, ma proprio tutti: Noah, la moglie, il figlio, Roth... perfino il cavallo è morto, cazzo! Quei due sono piombati in città con il machete, è stato un massacro. Hanno dovuto addirittura chiamare uno specialista per stendere il bambino, nessuno voleva farlo. Insomma, alla fine del racconto gli chiedo cosa c'entri tutto questo con il caso e lui dice “Il nome del cavallo era Lucky Number Slevin!”, Slevin numero vincente. C'è un fatto però: non esiste nessuno Slevin Kelevra. Ed è curioso che il ragazzo abbia scelto come pseudonimo il nome di un cavallo morto e che sia stato in compagnia del Boss e del Rabbino, visto che erano invischiati proprio con quel cavallo. Ho pensato tra me e me, forse c'è sotto qualcosa, o forse è solo una coincidenza, ma il nome deve venire da qualche parte, no?»

A quel tempo Peter era un novellino che tirava a campare e scommetteva sulle corse dei cavalli; girava a Roth gli assegni del suo stipendio ed era spesso in debito. Così quando gli chiesero di sbrigare un lavoretto in cambio di informazioni che l'avrebbero fatto avanzare di grado, non poté rifiutare. Sognava di far carriera in polizia e l'occasione era troppo ghiotta per farsela scappare...

«Ah, un'ultima cosa!» disse Murphy. «C'è un nuovo agente qui in ufficio, è ebreo, un tipo divertente con una bella parlantina, ha letto il nome e, se ti interessa saperlo, ha detto che Kelevra in ebraico significa... aspetta, me lo sono segnato qui da qualche parte...»

Vide attraverso lo specchietto retrovisore una figura sollevarsi dai sedili posteriori.
Era rimasto sdraiato lì tutto quel tempo, senza che lui se ne accorgesse. Aveva i capelli arruffati e un'espressione dura, nonostante alcune lacrime gli rigassero il viso.
Come dei sassi scagliati da una fionda, le immagini della giovane Claudia Stilinski che asciugava i piatti in cucina lo colpirono in pieno viso. Ricordava ancora in modo nitido la sua espressione di paura e sgomento, e il rumore dei piatti che cadevano a terra, infrangendosi, dopo che lui aveva sparato il colpo allo stomaco che l'aveva uccisa.
Murphy stava cercando ancora quel dannato foglietto, mentre il ragazzo alzava la mano con in pugno la pistola e gliela puntava alla testa.
«Significa “Cane rabbioso”» disse e poi Peter ebbe appena il tempo di sentire premere il grilletto.
Il cellulare cadde fuori dal finestrino, mentre il corpo senza vita del detective Peter Hale si accasciava sul volante della macchina.

Dopo anni di attesa e sacrifici, Mieczyslaw Stilinski aveva aveva avuto la sua vendetta.









   
 
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