La
notte era
calata inesorabile e gelida su New York, portando con sé una
scia di
sangue e morte.
Lo sapeva bene il Boss, che non riusciva a
smettere di pensare a quanto altro sangue avrebbe dovuto vedere da
lì
ai prossimi mesi, forse anni. Stringeva il suo bastone da passeggio
tra le dita e guardava dalla vetrata la città brulicante di
vita e
miseria.
Il figlio del
Rabbino era morto, proprio come voleva, e insieme a lui anche quel
Fisher; eppure non poteva dirsi soddisfatto, non quando tutta la
città, la polizia e di sicuro i fottuti affari interni erano
stati
allertati dall'esplosione del palazzo in cui abitava.
L'ascensore
si aprì e ne venne fuori Goodkat, con il suo solito mezzo
sorriso
sornione e l'impermeabile color sabbia.
«L'ho ingaggiata per un
lavoretto, ma non doveva sembrare un lavoretto; invece lei ammazza
gli israeliani, fa esplodere l'intero edificio. E adesso il lavoretto
che non doveva sembrare un lavoretto, comincia a sembrare... un vero
lavoretto».
Argent non disse
nulla, la sua espressione imperturbabile sembrava volergli comunicare
qualcosa, ma lui non poteva sapere davvero cosa, poteva immaginarlo.
E di solito, quando si capisce di essere in una brutta posizione, ci
si immagina quello che fa più comodo.
«E va bene, fanculo. Se il
Rabbino vuole una guerra, gli daremo una guerra».
Il Rabbino,
nel frattempo, stava in piedi nel suo ufficio ignaro di tutto,
perché
era venerdì sera, momento d'inizio dello Shabbat.
È bene sapere
che ogni sabato di ogni mese di ogni anno, un buon ebreo celebra il
giorno sacro del riposo, così come è stato
ordinato dal Signore
nelle Sacre Scritture. Nel giorno del riposo è vietato
lavorare,
scrivere, disegnare e addirittura viaggiare, ma tra le altre cose
è
permesso studiare la Torah. E lui amava studiare la Torah e odiava
essere interrotto durante la lettura.
Ecco perché il telefono
aveva squillato e nessuno gli aveva dato notizie ed ecco
perché
nessuno gli aveva annunciato l'arrivo di Nick Fisher.
Era strano,
molto diverso dal solito. Forse era l'abito elegante, magari i
capelli pettinati o forse ancora il sorriso sornione con cui l'aveva
salutato. Gli ricordava qualcuno, ma non avrebbe saputo dire
chi...
«Oh, salve signor Fisher! Credevo fossi Saul, il mio
assistente».
«Ultimamente mi prendono tutti per qualcun altro»
sorrise tranquillo.
Aveva con sé una valigetta, quindi era quella
la differenza: stava per saldare il suo debito.
«Sai, la tua
brutta situazione mi ricorda un film di Alfred Hitchcock,
“Intrigo
Internazionale”. Tutti pensano che Cary Grant sia un uomo
chiamato
George Kaplan, ma non esiste nessun George Kaplan, è un nome
inventato. I nomi, anche quelli inventati, possono provocare brutti
guai. Ora, la protagonista femminile si chiamava...»
«Eva Marie
Saint».
«Oh, conosci quel film!»
«Conosco quel film» disse
lapidario, ma il Rabbino non fece caso al suo tono.
«Ho portato
mio padre a vederlo nel '59. Non capiva bene la lingua, ma perbacco
se gli piaceva Eve Marie Saint. In ogni caso quel film ha provocato
molta confusione».
«Scambiare nomi può farlo».
«Già»
annuì. «Quelli sono i miei soldi?»
Il ragazzo batté
una mano sulla valigetta marrone e disse: «Sì,
è quello che le
devo».
Il Rabbino si tolse allora la kippah e gli occhiali a
mezza luna, poi spostò un'agenda dalla scrivania e gli fece
cenno di
poggiare la valigetta lì.
L'espressione
imperturbabile, il sorrisetto, gli ricordavano qualcuno, ma chi? Di
sicuro qualcuno di cui non fidarsi. Il telefono nel frattempo aveva
ripreso a squillare.
«Oggi è Shabbat e noi non rispondiamo al
telefono durante lo Shabbat».
«Lo so».
«Saul di solito
toglie la suoneria, ma al giorno d'oggi è difficile trovare
del
personale valido».
Aprì la valigetta, ma era vuota. Non fece in
tempo a sollevare lo sguardo che venne colpito alla testa con
violenza. Ebbe la sensazione che il cranio si fosse spaccato a
metà
e, prima di perdere conoscenza, gli sentì dire qualcosa:
«Saul
è morto. Sono tutti morti».
*
Il risveglio dopo un colpo alla testa non è mai dei più piacevoli. Sentiva di essere seduto, ma gli mancava lo stesso la terra sotto i piedi e lo stomaco e il cervello sembravano volergli uscire dalla bocca e dagli occhi. Sbatté le palpebre diverse volte, prima di scacciare la patina bianca che gli offuscava la vista. Provò a sollevare una mano per sincerarsi della gravità del danno, ed ebbe un tremito alla vista del nastro isolante che lo teneva legato alla sedia.
Gli
bastò una
breve occhiata all'ambiente circostante e al caminetto acceso, per
rendersi conto di non essere più nel suo ufficio, ma in
quello del
suo acerrimo rivale.
«Oh, ci
sono già stato in questo posto, è rimasto com'era
vent'anni fa.
Comunque non so perché, ma sembra diverso, come la tua
macchina
quando è guidata da qualcun altro. Del resto è da
vent'anni che non
salgo su una macchina... due decenni dietro nove centimetri di vetro
anti-proiettile per paura di essere ucciso da un fucile ad alto
potenziale, senza mai uscire di casa. Vent'anni! Rinchiuso nella mia
paranoia, prigioniero in casa mia, solo per poi finire nelle mani di
un ragazzino. Be', complimenti, sembra che abbiate vinto, mi avete
fregato. Se portassi un cappello, me lo toglierei. Volete la mia
testa? Eccola!» disse e abbassò il capo in avanti.
Ci fu una
pausa e allora il Rabbino guardò le scale, quelle da cui lui
e il
Boss di solito scendevano per fare un'entrata a effetto, ma quelle
restarono vuote e la voce del Boss lo raggiunse alle spalle.
«Puoi
tenere il cappello e la testa, Shlomo. A quanto pare, ci è
stato
tirato un bidone dallo stesso lanciatore. Bel discorso però,
mi
sarei alzato volentieri in piedi per ascoltarlo» disse il
Boss,
seduto proprio dietro di lui, schiena contro schiena.
Il Rabbino
si sforzò di voltare indietro la testa, nonostante il dolore
lancinante, e lui fece altrettanto.
Eccoli lì, i due gangster più
pericolosi di New York, faccia a faccia dopo più di
vent'anni.
«È colpa tua
se siamo in questo guaio!» gli disse pieno di
risentimento.
«Mia?»
«Sì, tua! Tu hai assoldato Goodkat per
uccidere mio figlio!»
«Dopo che tu hai ucciso il mio!»
Shlomo scosse la
testa con decisione.
«No, io non c'entro niente».
«Certo,
come no. Come nel '98? Nemmeno quella era opera tua? Hai solo dato
l'idea magari. Tempo scaduto, Rabbino. Mentire a un uomo morto
è
come mentire a se stessi».
«Diventavi troppo potente. Quando in
una stanza ci sono due uomini, tu ne puoi guardare soltanto uno alla
volta. E gli altri guardavano te e intanto ridevano alle mie spalle.
E quando poi ti hanno chiamato Boss! È stato chiaro cosa
andava
fatto».
«Cerca di immaginare cosa si prova, Shlomo. A svegliarsi
di notte con sei pallottole che ti bruciano lo stomaco, immerso in
una pozza del tuo sangue e della tua merda. Gli occhi sbarrati di tua
moglie morta, che ti fissano. L'unica cosa che ti impedisce di
svenire sono i passi dell'uomo che si allontana nel corridoio, in
cerca di tuo figlio. Io ero riuscito a salvarlo, mio figlio. E ora,
dopo tutti questi anni, tu... Tu, nonostante il nostro accordo, tu!
Filisteo di merda! Brutto traditore del cazzo! Alla fine me l'hai
portato via per sempre. Be', adesso io ti ho tolto il tuo per
sempre».
«Te l'ho già detto, io non c'entro
niente».
«Non
hai sentito allora?»
«Impossibile, stai mentendo».
«Girati
e guarda il mio sorriso, Shlomo. Tuo figlio è morto. Tuo
figlio è
morto!»
«Io... io ti ucciderò!» si
agitò sulla sedia, mentre
il Boss se la rideva.
E poi un'ombra si fece avanti nel
corridoio accanto alle scale.
«Rabbino! Lei ha presente lo
Shmoo?»
Era il ragazzo! Scendeva con calma, un gradino alla
volta, con le mani nelle tasche e il suo sorrisetto del cazzo
stampato in faccia.
Il Boss si mosse in preda alla paura, poteva
quasi sentirne l'odore.
«F-fisher?! Fisher, ascoltami...!»
Quella
supplica spense il sorriso del ragazzo, che si gelò in una
maschera
di puro odio.
«Te l'ho già detto: non sono Nick
Fisher».
«Allora
chi è Nick Fisher?»
Slevin fece un giro attorno a loro, come un
lupo che circonda una preda.
«Forse volevi dire chi era
Nick Fisher. Fisher è stata la risposta a una domanda. Come
arrivi a
due uomini a cui non si può arrivare? Li fai venire da te.
Ma per
farli arrivare mi serviva un nome e dove si trovano i nomi? Nei
libri. E chi li tiene i libri? I vostri allibratori tengono i libri.
Allibratori sbranatori, al servizio dell'Impero del Male».
«Mi
serviva un giocatore, uno che fosse presente sui libri di entrambi e
che avesse un po' di rosso sulla colonna dei debiti. E ha vinto Nick
Fisher, uno che non sarebbe mancato a nessuno».
«Hai... hai
ucciso Nick Fisher?» chiese il Boss incredulo.
«Mi dispiace,
volevi tu l'onore?» ghignò cattivo. «A
quel punto, comunque,
bisognava solo far squillare il telefono. Mi è bastato
premere il
grilletto di un fucile di precisione e aspettare che tu chiamassi
qualcuno per un lavoretto. E tu hai chiamato quel qualcuno, per fare
un lavoretto che non sembrasse un lavoretto, giusto? Mr. Goodkat, lo
specialista in lavori sporchi, quelli che nessuno vuole fare. In
fondo chi avrebbe mai voluto uccidere uno che viene chiamato la
Fatina? E poi il rischio di una nuova guerra era troppo alto e
Goodkat non ti aveva mai deluso. Ecco perché ti sei fidato
ciecamente del suo piano di scegliere uno a caso nel registro dei
debiti, no?»
«E tu, Rabbino, tu sei sempre stato un uomo di fede
incline al peccato. E tra un omicidio e l'altro non hai mai
disdegnato un tradimento qua e là, per ottenere
più denaro e più
potere, giusto? Un modus operandi vicino al tuo modo di essere, che
non ti ha stupito ritrovare anche nel signor Goodkat. Così,
quando
ti ha chiesto il doppio di quanto il Boss gli aveva offerto per
uccidere tuo figlio, hai accettato. Ma come coinvolgere Nick Fisher
in questa faccenda? Un semplice scambio di favori, una cosa
all'apparenza di poca importanza. D'altronde Fisher era un perdente,
che differenza poteva fare? Tu compravi la lealtà di Goodkat
e in
cambio lui ti chiedeva di far fuori un perdente».
«Un pugno sul
naso era l'alibi perfetto per fingere di essere stato derubato di
tutti i miei documenti: ero nell'appartamento di Nick Fisher, ma non
potevo dimostrare in alcun modo di non essere lui. Così a
quel punto
ero libero di entrare e uscire come volevo».
Il Rabbino gli fece
segno di avvicinarsi.
«Qualunque cifra loro ti paghino, io la
raddoppio» gli sussurrò all'orecchio.
Slevin fece qualche passo
indietro e scosse la testa.
«No, non hai capito, non c'è nessun
loro. È tutta un'idea mia».
«T-tua?»
«Già, mia».
«Chi
sei tu?!» quasi urlò il Boss.
«Voi sapete già chi sono, solo
che non lo ricordate, quindi lasciate che vi rinfreschi la
memoria»
disse, riprendendo a girare intorno alle sedie come un avvoltoio su
due cadaveri freschi.
«L'anno è il 1995, il luogo Aqueduct,
settimo cavallo, decima corsa. Vi suona familiare? La corsa truccata
di Aqueduct, la corsa del droghiere. Tra quelli che avevano scommesso
parecchi soldi c'era un uomo, si chiamava Noah...»
«Non so di
cosa tu stia parlando!» disse il Rabbino con forza.
«Ah, no?
Be', ma di sicuro entrambi ricorderete questa parte, la vostra
firma».
Prese due buste di plastica trasparente dalla scrivania
e, quando le videro, entrambi i gangster avvertirono il brivido
gelido della morte e la consapevolezza di chi fosse quel ragazzo in
piedi di fronte a loro.
«No, no è impossibile, t-tu... sei
morto» disse il Boss, gli occhi sbarrati di chi ha visto un
fantasma.
Fu solo quando
ebbe la certezza che entrambi l'avessero riconosciuto, che Slevin
piazzò le buste sulle loro teste; poi si prese un momento
per
guardarli negli occhi, mentre annaspavano per catturare quanto
più
aria possibile attraverso gli spazi lasciati aperti dalla
plastica.
«Voi vi siete presi tutto quello che amavo.
Vaffanculo»
sputò le parole come se fossero veleno, poi avvolse il
nastro
isolante attorno al collo del Rabbino e a quello del Boss.
Il
primo non oppose resistenza, sembrava rassegnato e, chissà,
forse
anche pentito di ogni minuto di vita passato nell'oscurità.
Il Boss
invece lottò fino all'ultimo istante, attaccato alla sua
oscura
esistenza con ogni briciolo del proprio essere.
L'Impero del Male
era finito.
*
Una
chiamata nel
cuore della notte l'aveva avvisata dell'esplosione di un appartamento
e della disgraziata morte di alcuni uomini, così si era
messa i
primi abiti che aveva trovato ed era corsa in obitorio.
Al suo arrivo i
due cadaveri erano già stati posti sui tavoli d'acciaio e
coperti
con dei lenzuoli.
Il braccio di
uno dei due, però, spuntava restando scoperto: era
completamente
carbonizzato e al polso portava un vecchio orologio fin troppo
familiare.
Malia ebbe un
tuffo al cuore e sollevò tremante il lenzuolo, solo per
scoprire che
il corpo era troppo bruciato per riconoscerne i connotati.
Il
detective Hale arrivò giusto in tempo per impedirle di
mettersi a
piangere nel bel mezzo del laboratorio.
«Allora, cosa abbiamo
qui?» chiese, poggiandosi un fazzoletto sul naso.
«Difficile a
dirsi. Dalla statura e dall'ampiezza delle spalle, direi due
uomini».
«Sì, uno è il figlio di un gangster, ma
l'altro chi
è?»
«Visto che non
abbiamo più impronte digitali, mi sembra improbabile che lo
sapremo».
«E le cartelle odontoiatriche?»
«Certo, appena mi
trova da qualche parte la mandibola inferiore» si strinse
nelle
spalle, mostrando la testa deturpata del cadavere.
«Cristo, è
proprio un cazzo di casino» sospirò il detective,
passandosi una
mano sugli occhi.
La radio appesa alla sua cintura prese a
parlare, ma non portava buone notizie.
«Ehi Peter, sono Marty.
Ci sei?»
«Sì, dimmi
tutto».
«Abbiamo
trovato altri due cadaveri che fanno il paio con quei due che hai
lì».
«Va bene, vengo subito. Sei riuscito a contattare il
Rabbino per dirgli di venire a identificare quel che resta del
figlio?»
«Negativo. Stiamo chiamando da un'ora, non
rispondono».
«Allora manda
qualcuno».
«Ricevuto».
Quando sentì
nominare il Rabbino, Malia tossì per ricacciare
giù il cuore
palpitante. Era dunque di Slevin il corpo carbonizzato con
l'orologio? La mascherina era all'improvviso troppo stretta,
così
l'abbassò sul collo per respirare, nonostante l'odore acre
di
bruciato le pizzicasse le narici.
«Si sente bene? La vedo un po'
scossa» disse il detective.
«No, sto bene» accennò un
sorriso.
«È pallida, forse dovrebbe fare una
pausa».
«No,
stia tranquillo, ho visto di peggio. E poi se mi fermassi si
fermerebbe anche il caso, no?»
«Già. Be', ora devo proprio
andare, mi chiami se ha delle novità».
«Senz'altro».
Quando
fu certa
che se ne fosse andato, Malia si appoggiò con entrambe le
mani sul
ripiano del bancone, in preda a una nausea a lei fino ad allora
sconosciuta.
Captò con la
coda dell'occhio l'arrivo di un uomo e si voltò verso la
porta
aperta dell'obitorio.
Occhi di
ghiaccio, un impermeabile color sabbia e un sorrisetto enigmatico
stampato in faccia.
«Abbiamo lo stesso telefono» disse l'uomo,
poi sollevò la pistola e le sparò un colpo dritto
al cuore.
Il dolore fu
così intenso da mozzarle il respiro e cadde a terra in una
pozza di
sangue, mentre Argent andava via silenzioso com'era arrivato.
*
Un
opprimente
senso di inquietudine non lo lasciava da quando quel ragazzo, Slevin,
era giunto in città.
Prima era
entrato nel palazzo del Boss, poi in quello del Rabbino, infine
l'aveva beccato nello stesso ristorante della Fatina e ora il corpo
della Fatina era carbonizzato su un tavolo in obitorio.
C'era
qualcosa, un disegno più grande che non riusciva a vedere e
tutta la
situazione gli stava sfuggendo di mano.
Salì in
macchina e il telefono squillò.
«Hale, sono Murphy».
«Ciao Murphy,
che mi dici?»
«Oggi è
passato Henry Keller, te lo ricordi Henry? È in pensione, la
moglie
è morta, perciò passa in centrale un paio di
volte a settimana per
fare due chiacchiere, raccontare le sue imprese ai nuovi e inizia
ogni frase con “Ai miei tempi era
così...”, insomma è uno che
vive nel passato».
«Sì, sì ho
capito, ma che c'entra ora?» chiese spazientito.
«Stavamo
chiacchierando e diceva che non si può lamentare, e invece
non fa
altro che lamentarsi cazzo! Per la moglie che è morta, per
la gamba
in cui gli hanno sparato, la pensione di merda, ma poi si blocca
quando vede la foto che ha fatto Marty, e si ferma a fissarla. E io
gli chiedo “Che c'è? Conosci il
ragazzo?”. Il fatto è che lui
non guarda la foto, guarda il nome, perché l'ho scritto su
un
foglietto attaccato sotto. Conosce quel nome, Slevin. Lì per
lì non
dice niente e va via. Un'ora dopo squilla il telefono ed è
Henry che
parla a raffica di una corsa di cavalli del '95 ad Aqueduct».
Il
gelo del
terrore s'insinuò sotto la pelle di Peter e raggiunse le
ossa.
«Era una
corsa di cavalli vestita e truccata, un grosso pacco regalo. Il Boss
e il Rabbino avevano appena aperto bottega a New York, prima che la
gente cominciasse a svegliarsi con un pugnale nella schiena.
Comunque, continua a parlare di una leggenda metropolitana, di un
giovanotto, un certo Noah... Noah Bilinski... Stilinski, una roba del
genere. Il ragazzo ha avuto una soffiata sulla corsa, quindi ha
piazzato una grossa giocata con un allibratore, Roth, che poi a sua
volta l'ha passata ai due gangster. Però quando il Boss e il
Rabbino
scoprono che la corsa è truccata, be', sono tutt'altro che
felici!
Comincia a girare voce che bisogna dare un esempio, così
quelli
ammazzano tutti, ma proprio tutti: Noah, la moglie, il figlio,
Roth... perfino il cavallo è morto, cazzo! Quei due sono
piombati in
città con il machete, è stato un massacro. Hanno
dovuto addirittura
chiamare uno specialista per stendere il bambino, nessuno voleva
farlo. Insomma, alla fine del racconto gli chiedo cosa c'entri tutto
questo con il caso e lui dice “Il nome del cavallo era Lucky
Number Slevin!”, Slevin numero
vincente. C'è un fatto
però: non esiste nessuno Slevin Kelevra. Ed è
curioso che il
ragazzo abbia scelto come pseudonimo il nome di un cavallo morto e
che sia stato in compagnia del Boss e del Rabbino, visto che erano
invischiati proprio con quel cavallo. Ho pensato tra me e me, forse
c'è sotto qualcosa, o forse è solo una
coincidenza, ma il nome deve
venire da qualche parte, no?»
A quel tempo
Peter era un novellino che tirava a campare e scommetteva sulle corse
dei cavalli; girava a Roth gli assegni del suo stipendio ed era
spesso in debito. Così quando gli chiesero di sbrigare un
lavoretto
in cambio di informazioni che l'avrebbero fatto avanzare di grado,
non poté rifiutare. Sognava di far carriera in polizia e
l'occasione
era troppo ghiotta per farsela scappare...
«Ah,
un'ultima cosa!» disse Murphy. «C'è
un nuovo agente qui in
ufficio, è ebreo, un tipo divertente con una bella
parlantina, ha
letto il nome e, se ti interessa saperlo, ha detto che Kelevra in
ebraico significa... aspetta, me lo sono segnato qui da qualche
parte...»
Vide
attraverso lo specchietto retrovisore una figura sollevarsi dai
sedili posteriori.
Era rimasto sdraiato lì tutto quel tempo,
senza che lui se ne accorgesse. Aveva i capelli arruffati e
un'espressione dura, nonostante alcune lacrime gli rigassero il viso.
Come dei sassi
scagliati da una fionda, le immagini della giovane Claudia Stilinski
che asciugava i piatti in cucina lo colpirono in pieno viso.
Ricordava ancora in modo nitido la sua espressione di paura e
sgomento, e il rumore dei piatti che cadevano a terra, infrangendosi,
dopo che lui aveva sparato il colpo allo stomaco che l'aveva uccisa.
Murphy stava cercando ancora quel dannato foglietto, mentre il
ragazzo alzava la mano con in pugno la pistola e gliela puntava alla
testa.
«Significa “Cane rabbioso”»
disse e poi Peter ebbe
appena il tempo di sentire premere il grilletto.
Il cellulare
cadde fuori dal finestrino, mentre il corpo senza vita del detective
Peter Hale si accasciava sul volante della macchina.
Dopo anni
di attesa e sacrifici, Mieczyslaw Stilinski aveva aveva avuto la sua
vendetta.