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Autore: Moonage Daydreamer    15/11/2018    5 recensioni
Italia, ottobre 1917. L’esercito regio è stato sconfitto dagli austriaci a Caporetto e i sopravvissuti sono in rotta verso l’interno. Fra di essi, un gruppo di disertori fuggiti dalle atrocità del fronte e uniti dalla sorte tenta disperatamente di fare ritorno a casa, aggrappandosi al pensiero delle persone amate e a ciò che è rimasto della propria umanità.
[Questo racconto partecipa al contest “Sosta verso casa" indetto da Not_only_fairytales]
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali
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Lettere di un disertore
 
 
27 ottobre 1917
Mia amata Livia,       
  Stiamo marciando da un paio di giorni. Sebastiano è convinto che dopo l’inferno che gli austriaci hanno scatenato al fronte l’Italia non sarà in grado di riprendersi e si arrenderà. Io non so se la guerra sia davvero finita, ma in ogni caso per noi non fa nessuna differenza: continuiamo a camminare senza sosta attraverso il terreno sconnesso, con gli stessi stivali rotti e gli stessi stracci buttati addosso. Però adesso siamo solo io e lui. Ha contratto la febbre, ma si riprenderà. Fermarci non possiamo. Lui si lamenta come sempre, ma alla fine continua a venirmi dietro; è un bravo ragazzo, tuo fratello. Non so se si renda davvero conto di quello che abbiamo fatto.
  Tremo all’idea di quello che penserai di me, una volta che verrai a saperlo; non posso dire nulla in mia difesa, se non che mi ricordo della promessa che ti ho fatto prima di partire. Ibis, redibis non morieris in bello1. È per questo – capisci? – che devo tornare e riportare Sebastiano a casa. Non importa se mi disprezzerete tutti per questo. Quello che abbiamo visto, quello che abbiamo fatto… nessuno potrebbe sopportare un peso del genere. Persino l’odio delle persone che ami diventa un prezzo accettabile; almeno non morirò in un buco nella terra come un verme.         
   Ho paura, amore mio. Stiamo cercando di allontanarci dalle montagne e dal fronte più in fretta possibile, ma non è facile, non con Sebastiano in questo stato e il rischio di imbatterci ad ogni passo in drappelli di soldati – non importa più se amici o nemici. È una sensazione orrenda, mi sembra di essere in trappola. Pensare a te è l’unica cosa che mi permette di continuare ad andare avanti e mettere un piede dietro l’altro pur sapendo che la pianura che ci separa è così maledettamente grande. Questa guerra mi avrà anche cambiato, ma non ha potuto toccare il mio amore per te.  
   Se potessi davvero farti arrivare questa lettera, ti chiederei di salutarmi mia mamma e mia sorella. Prego per voi ogni giorno.         
Con amore,    
Emanuele
~oOo~
  
  Siamo riusciti a passare un fiume: penso che sia il Tagliamento. La verità è che non sono più sicuro di dove siamo. Questa zona ci è sconosciuta e non possiamo concederci il lusso di avvicinarci troppo ai villaggi che incontriamo lungo il cammino. Ci siamo spinti troppo oltre e non si torna più indietro; se ci trovassero, non potremmo più sperare che credano che siamo stati separati dal reggimento durante la ritirata. Ci leggerebbero in faccia che siamo scappati. Siamo dentro i confini dell’Italia, ma è come se ci stessimo muovendo in terra nemica.          
   Ancora mi chiedo come abbiamo fatto a guadare senza essere scoperti; le sponde erano occupate dai reggimenti in marcia. Sembrava quasi che tutto l’esercito si stesse ritirando dalla prima linea. Abbiamo dovuto camminare per un bel pezzo prima di trovare un punto abbastanza sicuro per passare e abbiamo dovuto farlo di notte. Per un attimo ho temuto che Sebastiano non ce la facesse, ma alla fine se l’è cavata, anche se l’acqua non gli ha fatto di certo del bene. Adesso sta dormendo un po’, e io sfrutto questo poco tempo di riposo per scrivere a te. Non so nemmeno io il perché. Forse è l’unico modo per fingere un po’ di normalità in mezzo a questo incubo.           
   Tra poco dobbiamo rimetterci in marcia, e prego Dio che non ci stiamo muovendo in tondo. Comincia a fare davvero freddo qui e ieri si è levata una nebbia tanto fitta da faticare a vedere la punta dei propri stivali. Non so più nemmeno che giorno sia. Sono stanco, Livia mia, ma bisogna andare avanti. È terribile sapere che se verremo scoperti, non saranno gli austriaci ad ammazzarci.

 
~oOo~
  
   Oggi ci siamo imbattuti in tre uomini, dei soldati pure loro. Ci eravamo fermati perché Sebastiano non era più in condizione di proseguire e io mi ero messo a cercare delle ghiande, o qualsiasi altra cosa da poter mettere sotto i denti, quando all’improvviso ci sono arrivati addosso. La stanchezza mi sta rendendo sempre più disattento. Per un momento ho creduto che ci saremmo fatti fuori tutti a vicenda, ma poi per un attimo cui i nostri sguardi si sono incontrati e abbiamo riconosciuto in loro la stessa spossatezza e la stessa paura che abbiamo noi. Deve essere stata tua madre a vegliare su di noi in quel momento, non mi spiego come ne siamo usciti vivi altrimenti. 
   «Di che reggimento siete?» ho chiesto loro, per abitudine più che altro. Ormai è una domanda che non ha più alcun senso. Ci hanno detto di essere del 44o fanteria; anche loro sono fuggiti dopo l’attacco degli austriaci sull’Isonzo. Si sono presentati, ma non sono sicuro che abbiano usato i loro veri nomi; quando ce l’hanno chiesto, io e Sebastiano non siamo riusciti a trovare le forze per inventarci una bugia. Abbiamo usato solo i nomi di battesimo, però, niente cognomi – forse per mantenere un’illusione di maggiore sicurezza, nel caso in cui uno di noi dovesse essere catturato, forse per riacquistare un pezzo di quella identità che due anni di trincea ci sembrano aver strappato via con la forza.            
   Uno di loro ha una ferita alla gamba; l’ho aiutato come potevo, ma non ha un bell’aspetto. Loro ci hanno dato un po’ del loro cibo. Avevano del pane vero, ma non so come se lo fossero procurato. Io e Sebastiano stavamo per andarcene per conto nostro quando ci hanno proposto di procedere insieme almeno per un pezzo di strada; ce n’è uno, Aurelio, che conosce la zona un po’ meglio di noi e può guidarci. Lui è di Padova, il fortunato. Il suo viaggio sarà molto più breve del nostro.           
   Ci hanno detto che l’Italia ha perso la battaglia ma la guerra va avanti – spero proprio di no: vincere o perdere non fa più nessuna differenza, ma tutto questo deve finire presto o non rimarrà che un deserto in premio al vincitore. L’esercito sta dando la caccia ai disertori, hanno aggiunto. Non so come facciano a saperlo. Quando Sebastiano gliel’ha chiesto, si sono ammutoliti e non hanno più parlato per molto tempo.

 
~oOo~
  
   Ormai ci siamo lasciati le montagne alle spalle. Non mi sono mai piaciute – sono diverse dalle nostre: minacciose, quasi ostili, come avessero aspettato i milioni di anni della loro esistenza soltanto per vederci tutti cadere, italiani e austriaci insieme.   
   La pianura non è tanto meglio; non c’è riparo per miglia e miglia, solo qualche filare d’alberi e l’atroce sensazione di essere allo scoperto. Diventa sempre più difficile evitare l’esercito. Ci stiamo lentamente avvicinando al Piave, o almeno così sostiene Aurelio; lui ha girato queste zone in lungo e in largo quand’era ragazzo. Ha detto che passare il fiume sarebbe più semplice se ci spostassimo leggermente verso nord, così da evitare un posto di blocco piazzato poco più a sud. Spero che non si sbagli.         
   Mi mancano le nostre valli, amore mio, e il profilo familiare dei nostri monti. Ogni tanto, quando le mie notti sono tormentate dal grido delle bombe e da immagini di sangue e gallerie scavate nella nuda roccia, cerco di figurarmeli nella mente e di immaginare come sono in questo periodo dell’anno; mi chiedo se ci sia già la prima neve. Ci credi che riesco a nominare ancora ogni vetta ad una ad una? Ci sono stati dei momenti in cui ne ho dubitato fortemente.  
   Sebastiano non migliora, ma cerca di andare avanti pensando a te. Tu, però, non disperare e fai coraggio a mia mamma e a mia sorella: πόνου γάρ ἄκρον οὐκ ἔκει χρόνον2.

 
~oOo~
 
   Ci siamo dovuti fermare perché i due feriti non potevano proseguire. Per una volta la fortuna è stata dalla nostra parte e siamo riusciti a trovare un riparo: stavamo camminando in mezzo ad una macchia d’alberi e all’improvviso è sbucato un edificio mezzo diroccato, forse una vecchia legnaia o un fienile. Sta cadendo a pezzi, ma parte del tetto sembra ancora abbastanza solido e almeno ci ripara dal vento. Mi chiedo a chi appartenesse, e se hanno dovuto lasciare la loro terra per scappare dalla guerra; magari sono morti anche loro.
   C’è qualcosa che mi rende inquieto all’idea di fermarci, come se dormire in un luogo che reca tracce della presenza dell’uomo fosse più pericoloso che dormire allo scoperto in mezzo alla boscaglia; temo che mi troverai molto cambiato al mio ritorno. Non son chi fui3; questo vano peregrinare sta lentamente consumando ogni traccia di civiltà rimasta in me e mi sta riportando ad uno stato naturale, quasi selvatico.
   Dentro al fienile abbiamo trovato un po’ di paglia non del tutto marcia e l’abbiamo usata per coprire Sebastiano e Saverio, quello con la ferita alla gamba. Sta peggiorando e temo che la ferita stia facendo infezione. A Sebastiano la febbre va e viene, ma ormai sono pochi i momenti in cui è veramente lucido. Spero che vostra madre continui a proteggerlo.           
   Fra un giorno di cammino dovremmo raggiungere il Piave, ci ha detto Aurelio; non ho idea di come faremo a superarlo, ma dopo le cose dovrebbero diventare più semplici e quando finalmente oltrepasseremo il confine con la Lombardia il peggio sarà passato. Oh, amore mio, quanta strada ci rimane ancora da fare!          
   Fa un freddo cane e gli altri hanno acceso un piccolo fuoco. All’inizio ho cercato di oppormi perché il fumo e la luce si vedono anche da molto lontano. «Che senso ha cercare di non farci trovare se poi crepiamo di freddo?» mi ha chiesto Aurelio. Non ho saputo come rispondergli; ci sono tante cose che sto scoprendo di non sapere. Che ti amo, questo so – ed è forse l’unica certezza che mi è rimasta.
   Ci siamo stretti tutti intorno al nostro fuocherello nel tentativo di scaldarci un po’. È difficile spiegarlo, ma a stare qui, uno accanto all’altro, condividendo la stessa onnipresente paura di morire e la stessa folle speranza di sopravvivere a questa ordalia, mi sembra di conoscere questi uomini da sempre e non da una misera manciata di giorni.        
   Aurelio ci ha raccontato della sua giovinezza in queste zone, prima che si trasferisse vicino a Padova, trascorsa a dare la caccia ai conigli e alle ragazze; a sentire lui, pare che avesse molto successo con entrambi. È un contadino, e così pure Saverio; lui è di Lecco, invece, e sente la mancanza dei monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo4 che lo hanno visto nascere. Spera che la sua ferita guarisca abbastanza in fretta e che non gli impedisca di tornare ai suoi campi; nessuno di noi ha avuto il coraggio di rispondergli. Gaetano è il più vecchio tra noi e viene dal meridione, da Foggia; ha detto che qui gli sembra di stare in un altro mondo, ma che alla fine noi del nord non siamo poi così male. Ha due figli, uno è poco più giovane di Sebastiano. Deve essere per questo che ha voluto aiutarci, il giorno in cui ci siamo incontrati.  
   Io ho parlato di te e del fatto che ti sposerò non appena sarò arrivato a casa e della mia speranza di diventare professore di lettere; mi hanno chiesto di Sebastiano, ma lui a quel punto si era già addormentato, così ho raccontato loro le avventure che abbiamo vissuto insieme da bambini e di come ha voluto diventare un soldato per rendere fieri vostro padre e vostro nonno.         
«Scommetto che adesso se ne pente.» ha commentato Gaetano, ma senza durezza, come se all’improvviso fosse stato colto da una tristezza infinita. Nessuno ha più detto nulla per tutta la notte.

 
~oOo~
 
   Si è messo a piovere; io e Gaetano saremmo dovuti andare in cerca di cibo, ma abbiamo dovuto desistere. Ci siamo stretti tutti nel solo angolo in cui il tetto sembra poter reggere questo diluvio. Più insopportabile del freddo è ora la fame; mi sono messo a masticare un po’ di paglia nella speranza di acquietarla un po’. Sebastiano e Saverio non migliorano; si sono riposati, è vero, ma il prolungato digiuno li sta debilitando sempre di più. È salita di nuovo la febbre ad entrambi.          
   Non so quando potremo rimetterci in marcia e questo prolungamento forzato della sosta mi rende nervoso. Preferirei di gran lunga tornare ad arrancare nel fango piuttosto che starmene fermo qui quando la nostra situazione è ancora così incerta. La stanchezza e la paura cominciano a giocare brutti scherzi alla nostra mente: ogni rumore nella boscaglia, ogni alito di vento che si infiltra nel fienile ci paiono araldi di una minaccia che non saremo più in grado di sfuggire.            
   Gli altri hanno notato che ti scrivo ogni volta che posso e mi hanno chiesto di scrivere anche per loro, visto che nessun altro ne è capace – prima avevano un quarto compagno che lo faceva per loro. Non ho chiesto che cosa gli sia capitato; certe cose sul fronte si impara presto a non chiederle. Il primo è stato Saverio; voleva che scrivessi a sua moglie. Lei non sa leggere, ma Saverio chiederà al prete del paese di leggerle la lettera se riuscirà a tornare a casa per consegnargliela. Quando riuscirà a tornare, l’ha corretto Aurelio, ma il suo tono era debole, incerto.           
   Abbiamo trascorso così tutto il pomeriggio, loro dettando ed io trascrivendo. Penso che non ci siano nel mondo persone più diverse di noi cinque, eppure tutti avevamo da dire all’incirca le stesse cose: mi manchi, non vedo l’ora di essere a casa, dai un bacio ai bambini, ti amo.    
   Alla fine, avevo una gran voglia di piangere. Non faccio altro che pensare al momento in cui questo tormento avrà termine, in un modo o nell’altro. Mi sembra di essere stato bandito dalla terra dei vivi ed esiliato in un eterno antinferno in cui regnano paura e dolore e fame e miseria e morte5. Che sia questa la punizione per il nostro crimine? Ma tu non vorresti che io pensassi queste cose, lo so; riesco quasi a vedere la tua fronte corrucciarsi in silenziosa disapprovazione. Prega per noi, mia cara Livia: Dio sa di quanto aiuto abbiamo bisogno.

 
~oOo~

   Questa notte ti ho sognata. Eravamo nel bosco dietro casa tua. Ricordi? Ci siamo andati tutti insieme una volta, noi due e mia sorella e i tuoi fratelli; mia mamma ci aveva spediti a cercare castagne, e tu mi avevi preso la mano e avevi camminato accanto a me. È stato nella luce dorata di quel pomeriggio che ho trovato in me abbastanza coraggio per baciarti per la prima volta. Mi manchi da morire. Anche nel sogno ci baciavamo e tu ridevi ed io mi sentivo felice, per la prima volta da due anni a questa parte.
   Poi ad un certo punto tutto è cambiato: nel bosco è scoppiato un incendio e il fuoco ha divorato ogni cosa. Cercavo di muovermi, di gridare, di fare qualcosa, ma ogni muscolo del mio corpo era come paralizzato e non ho potuto che rimanere a guardare impotente mentre le nostre montagne venivano dissacrate dalle empie fiamme della guerra; le pendici del Mucrone era devastate dalle trincee e da grovigli di filo spinato, le acque del Cervo si tingevano del sangue dei corpi che venivano trascinati a valle. Nell’aria ammorbata dai gas si sentivano soltanto l’impietoso tuonare dell’artiglieria e i lamenti strazianti dei morenti.  
   Mi sono svegliato piangendo come un bambino. Non sono mai stato tanto grato per la vastità della pianura che ci separa. Gli altri non hanno chiesto nulla, ma del resto non ce n’era bisogno: loro sanno.
   Le condizioni di Saverio sono peggiorate ancora, non credo che sopravviverà alla notte. Penso che anche lui lo abbia capito; all’improvviso è diventato così calmo, come se stesse solamente aspettando il momento di passare dall’altra parte. I suoi occhi sono terribili, non riesco più a guardarli.       
   Ha smesso di piovere e tra poco farà chiaro. Sebastiano rimane appeso alla vita Dio solo sa come. Lascerò che dorma ancora qualche ora, poi però dobbiamo ripartire, anche a costo di caricarmelo in spalla e risalire così tutto il corso del Po. Comincio a pensare che anch’io come Odisseo non potrò tornare a casa prima di aver vagato per dieci anni, trascinato dalla sorte e dagli dei nemici. Ma so che non posso, non posso dubitare ora, non quando Sebastiano è così debole; devo essere forte per entrambi. Sono così stanco, amore mio, e ogni passo che faccio mi sembra non fare altro che allungare la via da percorrere; ma non voglio morire qui, quindi bisogna che andiamo avanti. Fata viam invenient, i fati troveranno la via6.
Quando finalmente potrò stringerti di nuovo fra le braccia non ti lascerò più andare.
 
 
 
5 novembre 1917
 
   Il 3° reggimento fanteria, o per lo meno quanto di esso rimaneva, avanzava faticosamente attraverso la pianura, con il resto della brigata Piemonte a una giornata di cammino da esso; gli uomini marciavano in completo silenzio, spossati da giorni interi di combattimento. Ad un disperato assalto alla roccaforte del nemico, asserragliato a Sclaunicco, era seguito il feroce ma inutile tentativo di difendere la propria posizione, il quale si era ben presto trasformato in una lunga ritirata braccati dagli austriaci e dalla loro avanzata inesorabile. Era più di quanto qualsiasi uomo avrebbe potuto sopportare. Al di qua del Tagliamento la situazione era per il momento più calma, ma nessuno avrebbe potuto predire per quanto a lungo la linea del fiume avrebbe trattenuto l’esercito austriaco, quindi bisognava che i soldati continuassero a marciare a tappe forzate, senza riposo e senza potersi liberare del dolore e del ricordo dell’atroce carneficina che si era consumata davanti ai loro occhi.
   La compagnia del tenente Ferraris procedeva a rilento in fondo alla colonna. Gli uomini non riuscivano a reggere il ritmo del resto del reggimento; erano troppo stanchi e avevano perduto troppo perché il tenente potesse in coscienza chiedere loro di fare uno sforzo quando si leggeva sui loro volti che ogni passo era per loro un tormento. Erano stati i primi a muovere contro gli austriaci quando gli ufficiali avevano dato l’ordine di attaccare il paese occupato e ciò significava che erano stati loro i primi a cadere sotto i colpi dell’artiglieria nemica. Ed erano caduti in molti.    
   I pochi uomini rimasti cercavano di trascinarsi in avanti, sostenendosi l’uno con l’altro quando uno di loro sembrava essere sul punto di crollare nel fango. Nemmeno la prospettiva del ritorno a casa né la razione di liquore che il tenente era riuscito a far avere loro bastavano più per reggerli in piedi.   
  «Tenente, guardi, c’è una casa laggiù.» gridò uno degli uomini indicando il limitare della boscaglia e il giovane ufficiale diede ordine ai suoi soldati di avvicinarsi. La “casa”, a guardarla meglio, non era che un rudere di un vecchio edificio, ma un sottile filo di fumo usciva da un buco del tetto, quasi a stipulare una solenne promessa forse di cibo, ma soprattutto di un po’ di  calore umano dopo giorni passati immersi nel sangue e nell’orrore.    

Ma non erano contadini quelli che avevano trovato riparo nel casolare diroccato. La compagnia vi trovò dentro cinque uomini – quattro, osservò il tenente: uno doveva essere morto da poco – e i loro volti emaciati e sconvolti dalla paura non lasciavano dubbi su chi fossero e sul perché si trovassero lì.
  «Disertori» ringhiò uno dei solati entrati insieme a Ferraris e sputò per terra. I quattro uomini non si mossero e non provarono nemmeno a tirare fuori le armi – forse sapevano che sarebbero state inutili, forse non le avevano più. Si limitavano a guardare i soldati con quegli occhi infossati che sembravano essere già spalancati sull’inferno.   
   Il tenente rimase a lungo in silenzio, osservandoli. Uno di loro era gravemente malato; pareva il più giovane – non poteva avere più di vent’anni. Accanto a lui ce n’era un altro, di poco più grande, che gli stringeva la mano in un muto e insufficiente gesto di conforto. 
   Entrambi ricordavano al tenente il suo fratello minore: avevano all’incirca la sua età e anche lui aveva tremato di paura la prima volta che l’avevano mandato oltre la trincea. Ferraris lo aveva lasciato da qualche parte là, sulle sponde del fiume. Mai nella sua vita avrebbe potuto togliersi dalla mente il ricordo del momento in cui era morto. Era rimasto intrappolato nel filo spinato e ad ogni disperato tentativo di liberarsi il metallo era penetrato più in profondità nel suo corpo; la mitragliatrice austriaca lo aveva crivellato di colpi finché di lui non era rimasto che un ammasso informe di carne e di sangue. Ferraris si trovava spesso a chiedersi se fosse ancora lì, appeso alla sua croce, come uno straccio esposto a mo’ di bandiera per fare da testimone alla sconfitta dell’Italia e forse dell’umanità tutta. In quel momento il tenente aveva pregato Dio di far morire anche lui. Era sopravvissuto, invece, condannato a vivere il resto della sua vita con la consapevolezza di non essere arrivato in tempo per salvare il proprio fratello e l’atroce compito di tornare a casa e dire alla mamma che il suo bambino era morto.  
   Avrebbe potuto essere ancora vivo, pensò il tenente, avrebbe potuto essere ancora vivo se soltanto quei quattro uomini – no, non uomini, ma
vermi – avessero mantenuto il loro posto invece di fuggire e abbandonare i compagni a sé stessi. Ferraris aveva perso la metà dei suoi soldati in quell’offensiva, brave persone che avevano fatto il loro dovere fino ad una fine che non era stata né dolce né dignitosa. Nemmeno loro avrebbero voluto morire lontano da casa; la loro vita non poteva valere meno di quella dei quattro vigliacchi che ora gli stavano di fronte.      
   Il tenente fece un cenno del capo ai suoi, che sollevarono i disertori e li immobilizzarono senza sforzo. Ebbero almeno la decenza di non opporre resistenza; forse in cuor loro non stavano facendo altro che aspettare che la morte li raggiungesse. Non sprecarono tempo a chiedere il loro nome, né in quale reggimento avessero servito o quale fosse il loro grado: il loro crimine aveva fatto perdere loro il diritto ad ogni umana decenza. Non li trascinarono nemmeno fuori dal rudere, perché non meritavano di morire alla luce del sole. Li allinearono tutti contro il muro, le spalle rivolte ai soldati che dietro di loro stavano già imbracciando i fucili. I disertori piangevano in silenzio; il malato faticava a reggersi in piedi e il suo compagno mormorava il nome di una donna come se fosse una preghiera. 
   Fu una cosa rapida e pulita. Gli uomini del tenente non mostrarono alcuna esitazione e spararono con il cuore spezzato e il pensiero rivolto agli amici e ai fratelli lasciati a morire in quelle maledette trincee. Il tenente strinse la spalla a ciascuno di loro prima di dare l’ordine di rimettersi in marcia. Una manciata di minuti dopo la compagnia riprendeva la strada verso una casa che ora sembrava improvvisamente divenuta più lontana, lasciando dietro di sé soltanto un muro diroccato sporco di sangue e una manciata di lettere d’amore che non sarebbero mai state spedite.



 
A singer once, I now am fain to weep. 
       
Within my soul I feel strange music swell,  
    
Vast chants of tragedy to deep – too deep
        For my poor lips to tell.        
                          - L Coulson, From the Somme
 
 


Note:           
1 (riportato da) Alberico delle Tre Fontane, Chronicon – responso della Sibilla ad un soldato, che data la mancanza di punteggiatura si presta a una duplice interpretazione: Andrai, tornerai e non morirai in guerra ovvero Andrai, non tornerai e morirai in guerra.   
2 Eschilo, Frammenti, 352 – […] il colmo della sventura non durerà a lungo        
3 Foscolo, Di sé stesso           
4 Manzoni, I promessi sposi, VIII    
5 Nel sesto libro dell’Eneide Virgilio descrive il “vestibolo” degli Inferi come abitato dalle personificazioni dei mali che affliggono l’uomo   
6 Virgilio, Eneide, III, 395

Tutte le informazioni e i riferimenti ai reggimenti e alle brigate impegnate a Caporetto sono state ricavate da questo sito: http://www.frontedelpiave.info/ - ho cercato di essere più accurata possibile, ma dal momento che non sono una storica, sarei grata a chiunque correggesse ogni errore o incongruenza presente nel testo.
 
 
  
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