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Autore: Mannu    15/07/2009    1 recensioni
Lui e lei sono cresciuti insieme nel paesino cotto dal sole. Il tempo non aspetta nessuno e la vita non è mai come la vorremmo noi.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pianterò un fico
Il contadino ebbe un figlio e il pescatore una figlia.
Nel povero paese calcinato dal sole e lambito dal mare i due giovani crebbero sani e felici nonostante la miseria e le privazioni. I campi erano avari e il mare severo. Solo con sacrificio le due famiglie, che abitavano ai lati opposti dell'unica strada del paese, riuscirono a crescere i bambini fino all'adolescenza. Crebbero insieme, uno negli occhi dell'altra.
Un giorno, di ritorno dalla chiesa, lui si fermò sotto un vecchio albero altissimo alla cui ombra era stata costruita una panchina di pietre e calce. Il sole si rifletteva impietoso sui muri delle case dalle pareti candide e lisce e dalle porte di legno nero, tutte serrate in quel momento della giornata. Seduto, attese paziente nel suo vestito della domenica.
Lei arrivò dopo poco, avvolta dalla luce del sole che faceva brillare i suoi riccioli neri. Si sedette di fianco a lui e lo guardò con i suoi profondi occhi scuri in cui era facile affondare. Lui inspirò il calore del giorno e il profumo della pelle scura di lei che sapeva di mille cose misteriose.
- Resterai con me? - le chiese.
- Cosa farai per me?
- Pianterò un fico - le rispose indicandole la terra incolta vicino alla casa di suo padre. Il severo genitore gli aveva promesso che su quella terra sarebbe sorta la sua casa e che tra quelle nuove mura avrebbe potuto avere la sua famiglia.
Il rumore di un motore giunse inopportuno e scoppiettante. Al centro di una nuvola di polvere gialla c'era un ciclomotore. Si fermò proprio sotto l'albero davanti alla panchina. Lui conosceva l'altro, in sella a quel motore rumoroso e puzzolente: era il ragazzo del paese più vicino, un grande paese con molta gente, con tante strade e molti motori. Era il ragazzo che di tanto in tanto arrivava col suo ciclomotore bianco e comprava del pesce o della farina. Portava con sé dei soldi. Era scuro di pelle e riccio di capelli come lui, ma il viso era quello vivace e sveglio di chi non deve grattare la terra o attendere il mare per vivere.
- Dài, vieni! Ti porto a vedere il mio paese, dove sono nato - disse con la sua bella voce squillante. Lei salì in piedi sul portapacchi di metallo sverniciato, così leggera che le molle della ruota si mossero appena. Gli strinse le spalle con le sue mani lunghe e affusolate.
Lui restò a guardare il vestito a fiori sventolare come una bandiera in mezzo a una nuvola di polvere gialla che si allontanava sulla strada dritta e lunga.

Un giorno il lungo serpente nero che si mangiava la strada di polvere raggiunse il paese e lo attraversò. Con esso nella taverna giunse il vino nuovo e il telefono. Lui era cresciuto, diventato più robusto aiutando il padre nei campi. Lei era diventata la più bella delle ragazze. Di ritorno dalla chiesa lui si sedette sulla panchina sotto l'albero per difendersi dal sole cocente. L'aspettava, come sempre. Lei lo raggiunse dopo un po' e lo guardò, ma non ci fu tempo per dire niente. L'asfalto aveva portato molti motori con sé e uno di questi si fermò davanti alla panchina. Era l'altro, alla guida di una grossa moto cromata che rombava furiosa. Non disse nulla: lei salì e lo abbracciò mentre la gonna le scopriva le gambe lisce e snelle. Un vecchio sandalo consumato le sfuggì e lei gridò cercando di chinarsi per prenderlo. Ma l'altro le disse di abbandonarli entrambi: ne avrebbero comprato un paio nuovi una volta giunti al suo paese. Il motore ruggì alto e volò via. Lui rimase lì a guardare due sandali sottili sull'asfalto e a scalciare sassolini coi piedi già sporchi di polvere. Forse così la stessa polvere avrebbe coperto l'asfalto e tutto sarebbe tornato come prima.
Quella sera litigò col padre e fece piangere la madre quando disse che voleva andare a cercare un lavoro nel paese più grande.
Poco tempo dopo, all'inizio di una mattina già calda e sotto un cielo azzurro e infinito, uscì di casa col vestito della festa, un biglietto per la corriera in una tasca e pochi soldi nell'altra. Con la benedizione del padre sulle spalle e il dolore della madre nel cuore, lasciò il suo paese.

Riuscì a trovare presto lavoro come muratore: le sue spalle si erano allargate molto, le sue braccia erano forti e le sue gambe sopportavano la fatica. Lavorava molto e ogni tanto di sabato sera tornava al suo paese a riabbracciare la madre e il padre. La domenica notte si svegliava per salire sulla prima corriera per tornare nel paese più grande che molti avevano cominciato a chiamare città.
Un sabato tornò a casa a bordo del camion bianco di un suo amico. Legato sul cassone c'era un fico già alto. Tutti insieme lo misero nel buco scavato da suo padre e finito il lavoro fecero una piccola festa. Intorno a quell'albero sarebbe cresciuta la sua casa.
Nel cuore di una domenica notte stava terminando di vestirsi chiuso in quella che era sempre stata la sua stanzetta. Da lì vedeva la strada, l'asfalto che tagliava in due il suo paese, la casa dove viveva lei. Era cambiato ancora il vino nella taverna, era arrivata la radio, molte case avevano il telefono ora ma attraverso quella finestra tutto gli sembrava come sempre. Case bianche dalle piccole porte nere, fortini contro il caldo del giorno e freschi ripari la sera.
Un motore si fermò proprio lì davanti. Con la camicia bianca in mano si affacciò alla finestra e vide l'auto. Una bella auto con il tettuccio di tela abbassato che faceva vedere dentro. Vide lei, il volto che brillava umido alla luce dei nuovi lampioni sempre accesi di notte, vide le sue spalle nude, lisce e brune sussultare per i singhiozzi, vide i riccioli scossi dai tremiti. Sentì una voce dura rimproverarla, era la voce dell'altro. Era l'altro al volante: anche lui non era cambiato. Era arrabbiato, furioso, Si tese verso di lei rannicchiata, e lui sobbalzò. Ma l'altro raggiunse la maniglia opposta e aprì lo sportello per farla scendere. La spinse giù, la cacciò in malo modo, le gridò qualcosa e lei corse via, corse in casa nel suo bel vestito bianco con le scarpe alte in mano. Non aveva nemmeno visto il fico.

La settimana dopo tornò a casa sorprendendo tutti e disse felice a suo padre:
- Costruirò un palazzo ma dovrò stare via a lungo perchè andrò a lavorare in un posto lontano.
La notte seguente si vestì in silenzio, nascose come al solito i suoi risparmi nel barattolo del sale così sua madre avrebbe potuto fingere di non trovarli prima di pranzo e, prese le sue poche cose, uscì. Ma prima di andare a prendere la prima corriera del lunedì andò a vedere il suo albero. Voleva imprimerselo bene negli occhi per non dimenticarlo, per sapere sempre che tutto il suo sudore e la sua fatica spesa per costruire le case degli altri erano semi. Semi che un giorno avrebbe usato per la sua casa.

Sotto il più grande albero del paese c'era sempre la panchina all'ombra. Quando anni prima aspettava lei all'uscita dalla chiesa ne occupava un pezzetto piccolo piccolo. Ora era grande e grosso e la occupava quasi per metà. Da lì si vedeva il suo fico, i nuovi muri della sua casa vuota, appena iniziata. Suo padre non aveva mai speso il denaro che lui aveva risparmiato in tutto quel tempo, aggiungendo privazioni alle privazioni. Al ritorno dal suo lungo viaggio, dopo aver costruito un palazzo aveva trovato i muri esterni della sua casa già fatti. Aveva abbracciato suo padre commosso. Ma non aveva ancora visto lei. Non osava cercarla, aveva paura di ciò che avrebbe potuto scoprire e soffrire. Non aveva denaro, motori, non era bello come l'altro. Aveva solo le sue ruvide mani, il suo albero di fichi che già dava i primi dolci frutti, e il suo cuore.
Lei arrivò alla fine, quando dalla chiesa erano ormai usciti tutti, quando per le strade assolate non camminava più nessuno. I ricci neri e lunghi mossi dal vento caldo, gli occhi scuri come pozzi in cui era facile cadere, il viso segnato da solchi prematuri sulla fronte e sui lati della bocca, le labbra sfiorite incurvate all'ingiù. La guardò bene, faticando a capire. Il ventre di lei era gonfio a dismisura, le sollevava l'abito leggero e inadatto mostrando le gambe ingrossate, le ginocchia livide, i piedi gonfi con la carne scavata dai solchi lasciati dai lacci di ciabatte vecchie e rotte. Le guardò i seni traballanti attraverso la scollatura quadrata. Quei seni che tante volte aveva immaginato piccoli, sodi e impertinenti sotto i leggeri vestiti dai colori sgargianti ora erano gonfi di latte, flaccidi e molli, cascavano non trattenuti sulla pancia sporgente in modo assurdo e osceno.
Si sedette accanto a lui: una figura ancora più gonfia, grottesca, enorme. Non disse niente fino a quando non fu lui a parlare.
- Quanto tempo ha?
- È appena iniziato l'ultimo mese - disse con un filo di voce.
- È suo?
Lei esitò un po' a rispondere. Poi chinato il capo in avanti disse sì.
Il tempo passò nel silenzio così pesante che nessuno dei due osò infrangerlo. Poi passarono due camion carichi di sabbia e cemento. Il paese seguente si stava ingrandendo. Quando lui era un ragazzo e stava tanto tempo insieme a lei, perfino nei sogni, un paese dopo il suo non c'era mai stato. Ma le cose cambiano, si disse. Si voltò verso di lei e le osservò il ventre sporgente e pesante, i piedi martoriati e ingigantiti, il seno penzolante. La figura giovane di lei devastata in quel modo lo fece soffrire.
- Cosa farai? - gli chiese guardandolo in faccia quando l'eco dei motori si fu spento.
Non le rispose. Alzò lo sguardo verso i muri bianchi, alle finestrelle sbarrate, ai tetti piatti, al cielo luminoso e senza nuvole. Poi si alzò dalla panchina.
Prima di andarsene si voltò verso di lei e le accarezzò il viso con la punta delle sue dita grosse e ruvide.
   
 
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